un film come pre-testo in una simulata videoregistrata (Seconda parte)

Giuseppe Ciardiello*

 

 

Meglio fare errori applicando ciò in cui in quel momento

si crede che non per aver applicato una teoria o

una tecnica solo appresa e non esperita.

(Roberto Speziale-Bagliacca Come vi stavo dicendo, Astrolabio, 2010)

Il role play è una tecnica elaborata nell’ambito della ricerca sociologica. I suoi primi utilizzi avvengono intorno agli anni cinquanta ad opera di Janis e King (Giusti, 1999) che cercano di stimolare un processo attivo di guarigione in incalliti fumatori, proponendo loro di interpretare ruoli diversi e alternativi a quelli assunti normalmente. Li istruiscono nella rappresentazione di scene, in cui uno dei due cerca di persuadère l’altro della necessità dell’eliminazione di questa abitudine.

Questi primi approcci sono sostenuti dalla convinzione che le sole raccomandazioni o l’osservazione di comportamenti diversi dai propri, attraverso versioni cinematografiche, producono effetti ridotti rispetto a quelli indotti dall’apprendimento, che deriva dall’interpretare un ruolo complementare al proprio, anche se simulato. La produzione di comportamenti alternativi, anche se recitati in una simulazione, sono considerati più formativi (Giusti, 1999). In sintesi si ritiene che sia l’interpretazione di un ruolo diverso dal proprio ad attivare automaticamente processi cognitivi capaci di influire sul comportamento.

Ci sentiamo di aggiungere che è l’assunzione di un ruolo alternativo al solito, in una realtà relazionale specifica, a stimolare un cambiamento incisivo.

altfoto di Patrizia Masciafoto di Patrizia MasciaPensiamo che, anche in una realtà simulata, il cambiamento della forma della relazione cambia il punto di vista delle persone coinvolte che, a sua volta, produce un cambiamento delle configurazioni dei rapporti tra le parti strutturali del pensiero. Infatti, per produrre cambiamenti tra le parti di una relazione è necessario articolare strutturalmente, e in maniera diversa dall’originale, le condizioni capaci di produrre la nuova forma. Solo in questo modo il cambiamento è compreso, e quindi vissuto, e ciò ha il valore di un’esperienza che, proprio in quanto tale, è capace di produrre una conoscenza implicita (Liotti, 2006).

La tecnica del role play ha subìto vicende alterne. A volte si è dubitato della sua efficacia nel determinare crescita e appropriazione di competenze, sostenendo che è difficile condurre una simulazione provocando la sempre necessaria immedesimazione dei protagonisti.[i]

Una maggiore attenzione al role play si ebbe quando si cominciò ad usarlo in ambito clinico psicologico. Nel 1997 Rabinowitz lo utilizzò con i suoi studenti, ai quali fece interpretare il ruolo di counselor mentre lui simulava il ruolo di paziente (Giusti, 1999). Per questo nuovo utilizzo è interessante il contributo di Delucchi: “A livello metodologico, la studiosa ricorda come gli elementi essenziali della tecnica siano la riproduzione della vita reale fatta in laboratorio, la possibilità di non limitarsi a verbalizzare ma fare esperienza attiva e l’interazione tra se stessi, il ruolo e gli altri. A questo si aggiunge la limitazione dei rischi, la tranquillità che ci fa avere il sapere di essere in un contesto di fare finta e una breve analisi delle tre componenti fondamentali: ruolo, gioco ed interpretazione. Rispetto al ruolo se ne vuole valorizzare la dimensione soggettiva, come occasione di andare oltre i ruoli stereotipati e come momento di espressione peculiare del singolo. Il gioco consente di avere una rete di salvataggio, ma allo stesso tempo di mettersi anche in gioco sempre nel contenitore protetto, valutando le nostre capacità relazionali. L’interpretazione infine deve saper trovare il giusto confine tra gli ambiti meno personali ed esistenziali, quelli cioè didattico-formativi e quelli più dichiaratamente psicoterapeutici, che si possono sfiorare anche in esperienze formative, ma che devono restare, in questo, al limite.” (ib., 1999, pag. 29)

Nel nostro utilizzo del role play, associato alla visione di film, ci siamo accorti di aver conseguito altri due obiettivi importanti: il primo consistente nell’introdurre i soggetti in una storia già ben articolata, così da non doverne costruire una ogni volta; il secondo, legato al primo, è che i partecipanti sono maggiormente coinvolti per gli stessi motivi che rendono un film godibile.

Inoltre abbiamo colto un aspetto didattico inaspettato. La condizione simulata ha permesso di giocare ruoli e atteggiamenti già condivisi in altre occasioni didattiche. Per esempio sono stati giocati ruoli e funzioni emersi come ipotesi in altre occasioni per le quali l’attività proposta si è rivelata un’importante occasione di sperimentazione.

Il role play aiuta a focalizzare l’attenzione sul comportamento emesso/atteso che può essere sperimentalmente modulato e calibrato nel contesto di ruoli specifici e complementari. Ci è sembrato che in tal modo si siano anche più facilmente colte le duplicità e sovrapposizioni dei ruoli dello studente/terapeuta che è contemporaneamente un professionista (psicologo, medico, ecc.), uno studente, un paziente e un (aspirante) terapeuta.

È possibile che, ritrovandosi a giocare diversi ruoli e avendo occasione di esplorarne le funzioni, le caratteristiche terapeutiche di ognuno possano essere costruite valorizzando le proprie specificità senza cercare nelle figure mitiche della psicologia i comportamenti più idonei.



[i] In tutto il corso del presente lavoro si accenna a quanto la visione preliminare di film possa fungere da presupposto favorente l’immedesimazione.

La videoconfrontazione

 

Niente è angosciante, ci ricorda Lacan, come l’apparizione di
un’immagine che rovescia lo sguardo, come il trovarci
improvvisamente esposti al nostro stesso sguardo
che ci guarda come uno sguardo estraneo.
(M. Recalcati L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina Editore, 2010, pag. 119)

 

Le dimensioni dell’osservazione e della riflessione sono ancora di più stimolate dalla pratica della videoconfrontazione, che consiste nel porre una persona di fronte ad una telecamera che la riprende, e, contemporaneamente, ad un video che le propone la ripresa in tempo reale.

La tecnica è descritta da diversi autori (Rossi 2009; Giusti 1999; Manghi 2003) e tutti sottolineano l’aspetto del confronto tra le due dimensioni della personalità dell’Io e del Sé. In tutte le riprese di videoconfrontazione questa dinamica, di immediata evidenza, è prodotta dall’esperienza della discrepanza sensoriale avvertita quando si assiste alla proiezione dell’immagine che ci rappresenta agire sulla scena. Secondo Rossi la discrepanza temporale e quella sensoriale, prodotte dalla proiezione, ci permettono un’esperienza di disidentificazione capace di stimolare l’autosservazione. Da questo gioco decostruttivo nasce un atteggiamento riconducibile alla riflessività che induce il soggetto dell’esperienza a cercare nuovi contesti narrativi in cui ricalibrare coerentemente la propria storia di vita. Per Rossi il lavoro terapeutico comincia a prendere forma proprio quando si produce questa discrepanza che obbliga ad una decostruzione dell’Io e ad un ulteriore confronto col Sé.

Nel gioco delle discrepanze noi pensiamo che un ulteriore elemento di stimolo potrebbe essere il vedere la propria immagine esattamentealtfoto di Patrizia Masciafoto di Patrizia Mascia come la vedono gli altri in quanto, abituati a vederci riflessi nello specchio, siamo convinti di offrire al mondo la nostra immagine speculare.

La versione cinematografica, pur avvicinandosi a quella fotografica, se ne allontana per la presenza del movimento. Nella proiezione video si offre ai nostri occhi l’immagine di noi che gli altri realmente vedono, osservata con l’occhio rigido e severo della cinepresa che, nel nostro contesto didattico, è quello dell’altro osservatore esterno che con me partecipa all’esperienza. Questo gioco d’identificazioni sovrapposte (io, l’altro, la cinepresa) rende l’esperienza molto critica e capace di offrire sviluppi auto interpretativi. Il molteplice angolo di osservazione (la cinepresa è anche l’occhio del partecipante oggettivo di cui, nella proiezione, assumeremo tutti il punto di vista) permette inoltre di svincolarsi dalla posizione dello sguardo soggettivo che, nella relazione, può procedere solo dall’uno all’altro e viceversa.

Quando si suggerisce ai terapeuti di assumere un atteggiamento o una posizione di osservazione mèta, è probabile che si intenda riferirsi alla possibilità di guardare alla relazione come osservatori esterni, spogliandosi dei panni dell’uno o dell’altro interlocutore. È un atteggiamento diverso da quanto facciamo mettendoci nei panni dell’altro, che suggerisce invece una identificazione. Nel suggerire una posizione mèta si spinge nel senso di una disidentificazione dai personaggi per una posizione che consenta una maggiore distanza di osservazione. Ci sembra di poter affermare che la modalità di videoconfrontazione proposta nel presente lavoro, con la riproduzione video di un’intera sequenza comportamentale, e quindi in differita rispetto alle riprese che prevedono la riproduzione della propria immagine in diretta, realizza automaticamente la posizione mèta dei partecipanti, a volte anche drammaticamente con la riattivazione di difese elementari, come la negazione, nel tentativo di preservare l’immagine ideale che ognuno ha di sé.

 

Il contesto reichiano

 

Il corpo dovrebbe essere considerato con la massima attenzione
e conosciuto attraverso pratiche specifiche, non considerato
solo intellettualmente in saggi peraltro talvolta accurati.
(Roberto Speziale-Bagliacca Come vi stavo dicendo, Astrolabio, 2010

 

Il mondo reichiano ha sempre guardato alla relazione oltre che all’individuo, anche se i lavori di Reich guardano al singolo e all’intrapersonale.

La tradizione analitica classica, derivante da Freud, effettua una lettura intrapersonale della persona; l’altro della coppia relazionale resta sullo sfondo e, anche quando vengono considerati gli aspetti interpersonali, l’altro è relegato al ruolo di osservatore. Questo atteggiamento ha condizionato notevolmente lo sviluppo della ricerca analitica fino a motivare diversi conflitti metodologici (Speziale-Bagliacca, 2006).

Reich scoprì anche la necessità di rifarsi al come l’individuo si presenta nel contesto comunicativo della relazione terapeutica. In Analisi del carattere (Reich, 1973) poneva l’accento sull’osservazione delle modalità espressive e comportamentali dei pazienti; queste modalità consentono al terapeuta di formulare ipotesi più attendibili circa l’aspetto difensivo e caratteriale delle persone.

I modi di essere caratterizzano la persona e, rappresentando la sintesi energetica dell’unità e identità funzionale di mente e corpo, la individuano.

Derivano da una specifica rete di ricordi impliciti di esperienze evolutive che lo condizionano e lo segnano storicamente nei modi di essere tipici del gruppo familiare e culturale di appartenenza. Le prime relazioni si incidono nell’individuo e assumono una forma apparentemente strutturale, dando forma al corpo e al modo d’essere e colorandone il carattere.

In ambito cognitivo i modi d’essere delle persone corrispondono alle dimensioni che altri autori definiscono MOI (Modelli Operativi Interni) (Wallin, 2009) e che le persone riproducono sempre identici nel corso della propria storia. Le relazioni future dipendono da quelle primarie a seconda del grado d’importanza. Dall’intensità di questi frattali (Ferri, 1992) dipende la riproposizione dei modelli relazionali.

L’Analisi Reichiana recupera l’aspetto relazionale guardando alle relazioni come interazioni tra campi energetici in cui si realizzano comportamenti reciproci; il bambino si relaziona conil primo campo, poi il ragazzo col secondo e terzo campo individuati nei genitori, negli amici, nella società. Gli altri da sé sono campi di interazione energetica che offrono opportunità di esperienze capaci di fissazioni più o meno importanti e determinanti che possono dar luogo a forme corporee e comportamentali definibili come caratteri. Da cui il carattere è letteralmente segno inciso (Ferri, 1992).

La posizione di lettura intersoggettiva, più facilmente spendibile in un approccio comunicativo, nel nostro paradigma è recuperata con lo strumento del dialogo tonico dove il contatto corporeo è visto come un mezzo di comunicazione più efficace e schietto di quello verbale e che necessita, per esprimersi compiutamente, di una costante attenzione alle vibrazioni corporee. Queste sono date da tensioni che spesso non possono che essere definite energetiche.

A fronte della necessità di una circolazione energetica fluida, nel corpo umano si trovano contrazioni localizzate, superficiali e/o profonde, di tessuti tendinei, muscolari, connettivali. Queste diverse contrazioni corporee costituiscono le strutture più o meno stabili che caratterizzano le personalità e, dato che corrispondono alle rappresentazioni corticali, sono quelle a cui facciamo riferimento quando parliamo del carattere.

Anche nel mondo cinematografico la fanno da padrone gli aspetti visivi nel delineare un carattere. Il dialogo gestuale, l’espressione mimica, la cura dei costumi e degli abiti nell’insieme rappresentano gli abiti mentali. Proprio i dettagli e i particolari dei personaggi, intesi nelle loro espressioni corporee, non verbali e paraverbali, sono curate dai vari autori, sceneggiatori, scrittori e registi, per costruire i caratteri di queste ombre dello schermo e della nostra fantasia.

Come a decodificare il lavoro dei cineasti, nel corso di specializzazione di cui stiamo parlando, stimoliamo l’apprendimento della lettura delle forme caratteriali assunte dai personaggi, a partire dagli abiti, dalle forme dei corpi, dagli atteggiamenti, ecc… Non esistono caratteri puri né personalità semplici e ogni personaggio, come anche ognuno di noi, è dato dalla combinazione di diversi elementi storico-evolutivi. Ogni persona diventa l’individuo che è in base ad aspetti ereditati, in base alle esperienze vissute e in base alle modalità con cui queste esperienze sono state proposte e sostenute dai diversi campi di relazione.

Il dialogo tonico, come elemento d’incontro di organismi in relazione, è l’elemento determinante la co-costruzione della relazione.

Se le modalità comunicative si realizzano attraverso il modo di vestire, di indossare gli abiti, di parlare, respirare, dialogare, gesticolare, corrispondendo tutto questo al modo d’essere e di pensare, il tono di base dei muscoli corrisponde alla migliore modulazione che l’organismo ha saputo organizzare per un contatto relazionale ottimale. Le modalità relazionali acquisite sono abitudini contratte fin dai primi periodi dell’esistenza, abitudini ed esperienze che poi si sono trasformati in idee, concetti, opinioni, punti di vista, difese caratteriali, personalità. Il tono si è a sua volta organizzato, dai primi contesti relazionali, come stato fisiologico che consente di percepire, elaborare e rispondere in maniera adeguata nei rapporti (perciò è più corretto definirne lo stato psico-fisiologico). Sin dal concepimento ci relazioniamo con l’altro assumendo un tono muscolare e le relazioni ci insegnano a modulare le tensioni nelle interazioni. Con il tono acquisito nelle prime relazioni abbiamo imparato a leggere i segnali della realtà e ciò ha costituito il filtro sul quale si sono calibrati i nostri sensi.

Con questo corredo tonico e vibrazionale ci accostiamo alle persone e nel/col corpo realizziamo quelle configurazioni organiche che si autosegnalano nel nostro cervello come emozioni. Con il corpo, e col tono che i nostri muscoli assumono nelle relazioni, sentiamo il corrispettivo tono della persona con cui veniamo in contatto. Sentiamo la sua emozione con la nostra. La sua rigidità d’organo, la morbidezza del fianco o della mano, l’apertura del petto o del bacino sono confrontate col nostro tono di base e da questo confronto nasce la possibilità di leggere la sua condizione fisica. Leggiamo gli altri leggendo noi stessi ma, per questo, dobbiamo avere accesso a una modalità varia e articolata della nostra capacità di modulazione e dobbiamo essere aperti e sensibili ai processi psicofisici che avvengono nel nostro organismo.

L’esperienza cinematografica si è rivelata idonea per imparare a leggere una persona nella sua combinazione di tratti caratteriali perché più di altri strumenti consente di osservare diverse angolature dello stesso personaggio. Le modulazioni corporee sono ben evidenti quando i personaggi si relazionano reciprocamente e viene quasi istintivo interpretarne l’intenzione prima del contatto che poi si realizza. Inconsciamente ci si basa sulla postura, sulla posizione e sul movimento di ogni parte del corpo riuscendo a dedurne il carattere immedesimandosi nel movimento e nei turni di interazione. Nel cinema si può leggere il corpo/carattere sia dei personaggi sia delle relazioni in un contesto processuale. In questa esperienza il cinema si è rivelato il mezzo d’elezione per esercitarsi nella diagnosi e per sperimentare, vedendo e sentendo, i diversi tratti caratteriali dei personaggi.

 

 

Gli strumenti tecnici

 

Credo che tra i compiti che la formazione di uno psicoanalista

e di uno psicoterapeuta dovrebbe saturare, permettendo

di guardare in diverse direzioni, dovrebbe esserci

un'ampia discussione della tecnica, perché

concerne il legame tra la teoria

e la sua applicazione.


(Roberto Speziale-Bagliacca Come vi stavo dicendo, Astrolabio, 2010)

 

Nella realizzazione del lavoro di cui il presente elaborato, è stato importante considerare anche l’impatto dovuto all’uso di strumenti tecnici che possono interferire e creare disarmonia e turbativa dell’esperienza.

Dai primi incontri si è imposta la necessità di fissare dei criteri operativi che, rivisitati in un momento conclusivo, possono tornare utili per una sistematizzazione capace anche di contenere i motivi di turbamento.

Per esempio, un disturbo è dovuto alla presenza dell’operatore di ripresa il quale deve cercare di essere il più discreto possibile. Può farlo restando fuori dalla scena e immobile. In tal modo forse si perderanno altri punti di vista che però poi saranno più validamente recuperati con il racconto degli spettatori. I partecipanti si confronteranno con la discrepanza tra ciò che ognuno avrà guardato con ciò che la videocamera avrà registrato. Scopriranno che ad ogni diverso posto di osservazione corrisponde un diverso punto di vista, che può corrispondere ad una diversa punteggiatura dell’interazione e della visione. Ciò può portare ad una decostruzione alternativa dell’evento e ad una sua corrispondente ri-costruzione. Dinamicamente l’esperienza tende a dimostrare, a livello di vissuti, che l’osservazione è condizionata dal modo e dalla posizione/atteggiamento assunto rispetto agli eventi e che quindi il nostro stesso carattere, quindi la nostra postura, atteggiamento, posizione, ecc., è un filtro che costruiamo per la lettura e la comprensione degli eventi reali.

altfoto di Patrizia Masciafoto di Patrizia Mascia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

È ulteriormente importante che la ripresa comprenda sempre ambedue gli interlocutori, in quanto la ripresa di un particolare del corpo di uno dei due protagonisti (piedi, mani, volto), rappresenta l’espressione di un punto di vista, e quindi un filtro, in questo caso dell’operatore. In ogni istante della rappresentazione lo sguardo di ogni spettatore può essere colpito da un particolare specifico e se ognuno potesse selezionare il particolare che l’ha colpito potremmo confrontare i diversi modi e mondi interpretativi (che è quello che si farà nei momenti successivi). Ma nel momento della ripresa la sua fissità è la precondizione perché il momento successivo, del confronto, abbia valore e senso gruppale. È necessario che i contenuti della simulazione vengano da una ripresa che sia il meno possibile manipolata; i movimenti di camera assumono il valore di commenti a priori. Un cambiamento di campo o di fuoco della ripresa è riconducibile al cineoperatore che decide che un particolare, in un dato momento, è più importante dell’insieme e quindi la scelta di focalizzare l’attenzione su un particolare specifico diventa un’interpretazione. È quindi necessario che l’occhio dell’operatore (la telecamera) non assurga al ruolo onnipotente del cineasta (regista) che impone una visuale specifica dell’azione.

Rossi fa di questa evenienza un’analogia con la seduta terapeutica: “Se in una seduta di psicoterapia il terapeuta pone in primo piano, verbalmente, alcuni particolari (portando l’attenzione, per esempio, su una parola, un gesto o una sensazione), durante un lavoro videoterapeutico si raggiunge questo risultato attraverso le immagini: il terapeuta seleziona immagini e crea una relazione mediata da inquadrature.” (O. Rossi, 2009).

Contrariamente all’intento del regista, di condizionare gli spettatori a provare sentimenti specifici ed omologati, il nostro scopo è di promuovere la consapevolezza dell’esperienza della soggettività in un evento comune.

Evidenziare in certi momenti specifici alcuni dettagli della recitazione, come per esempio la posizione e il movimento degli arti e del corpo, la gestualità e la mimica, a volte danno un senso e un’enfasi particolare alla simulata e proprio per questo gli accorgimenti e operazioni tecniche ad hoc, specie se inconsapevoli, possono assumere un valore manipolatorio ai fini della lettura. Di contro, nel corso dei nostri seminari nessuno spettatore/allievo ha mai lamentato la fissità della ripresa. Ad ogni incontro i partecipanti sono stati attenti e vigili nell’osservare i movimenti dei protagonisti e le loro modalità interattive con l’intento di de-costruirli come un’opportunità piuttosto unica di fruire di un’esperienza comune non formalizzata. Si sono scoperte nuove e più attente modalità di osservazione; per esempio accade anche nella vita comune che si cerchi di capire, con qualche amico o conoscente, dove possa essere accaduto che la comunicazione si sia confusa o non abbia più seguito un percorso coerente. Nella realtà della relazione, e nella continuità della quotidianità, non ci è possibile rallentare il corso degli eventi e non ci si rende facilmente conto dei doppi messaggi, analogici e/o verbali, che reggono e puntualizzano la comunicazione. Non ci si accorge dei gesti che accompagnano il discorso e lo commentano inasprendo o sottolineando differenze, similitudini, analogie ecc. Una parte di noi sa che non è possibile riportare tutti i dettagli e un'altra ancora ne approfitta per omettere cose apparentemente insignificanti o aggiungere espressioni paraverbali che comunicano cose che non diciamo. L’esperienza della ripresa della simulata, e della successiva proiezione, coglie una naturale disponibilità al confronto corretto garantito dalla regola che non possiamo barare, mentre siamo ripresi, né con noi stessi né con gli altri. Ne fa fede il super-occhio della telecamera che controlla, e conferma indirettamente, il diritto al contributo di costruzione della realtà della relazione che tutti danno in quanto partecipanti. In più, il punto di vista assunto nel momento in cui è rappresentata e ripresa la simulata, viene reso unico con la proiezione ed è resa unica anche la possibilità di contestualizzazione del vissuto che si rivela a volte discrepante. In tale situazione tutti i partecipanti sono attivi. Tutti contribuiscono a determinare il setting, tutti partecipano a designare gli oggetti da osservare, le modalità interattive, i tempi, gli spazi, i ritmi, co-costruendo una realtà complessa.

A questo punto ci piace notare che questa osservazione è la stessa che potremmo adottare pensando ad un incontro analitico-terapeutico. Il setting analitico è un sistema vivente (Ferri et AA., La relazione terapeutica secondo l’approccio analitico – reichiano, www.analisi-reichiana.it, approfondimenti) che ha una sua intelligenza, è capace di darsi una forma ed evolve secondo processi finalizzati alla realizzazione di una maggiore neghentropia. Il setting analitico comprende la coppia terapeuta-paziente allo stesso modo in cui il setting seminariale comprende tutte le persone coinvolte.

Un'altra annotazione che possiamo fare è che fin dai primi minuti dall’inizio della ripresa, gli interpreti sembrano dimenticare completamente la presenza della telecamera e dell’operatore. È come se la relazione simulata assumesse una cornice molto definita e tesa a delimitare l’interazione dei due interpreti. Si crea uno spazio relazionale separato dall’operatore e dagli spettatori che diventano parte di un setting più ampio, quello sperimentale, con cui è comunque in corso un’interazione, appunto didattica. A volte si arriva a percepire l’impressione che tutti i partecipanti del seminario, l’operatore, la telecamera, il pubblico, siano vissuti come garanti di un atteggiamento sperimentale, e quindi di un 'come se' capace di sospensioni di giudizio. A volte l’immersione in questa dimensione è talmente profonda che anche disturbi occasionali, rumori, bisbiglii, commenti, non vengono avvertiti dai protagonisti della simulata, come se abitassero un rituale spazio magico, mentre i disturbatori sono ammoniti dalla stessa atmosfera partecipativa del gruppo. Lo stesso gruppo si protegge da ingerenze esterne non accettando la partecipazione di eventuali semplici osservatori. Lo svolgimento di tale lavoro va fatto in gruppo chiuso.

Queste osservazioni sono state fatte su scene riprese posizionando la telecamera lateralmente ai due protagonisti, così da riprenderli integralmente, mentre erano posti l’uno di fronte all’altro e leggermente volti verso la telecamera. Questa posizione consentiva di vedere sufficientemente bene sia le espressioni dei volti, sia i gesti, sia le posizioni che i corpi andavano assumendo nel corso dell’interazione. La modifica di queste inquadrature necessiterebbe di maggiori movimenti di camera oppure l’impiego di una doppia ripresa che sembra un artifizio più ingombrante che utile. La ripresa laterale inoltre, rispetto a due telecamere eventualmente poste alle spalle dei due interpreti, evita l’entrata della telecamera nel campo visivo degli attori che potrebbe rivelarsi come sfondo condizionante. La distanza è stata sempre la stessa per le diverse riprese e solo raramente è stato utilizzato l’avvicinamento (attraverso lo zoom) che si è subito rivelato inadeguato e depauperante.

La fissità della ripresa è anche garante di quello spazio sacro, appunto setting, all’interno del quale gli spettatori si guardano bene dal penetrare. Lo stesso atteggiamento gruppale reverenziale, che si rivela nella cura dello spazio tra la telecamera e il luogo della simulata, induce a fantasticare di un cordone, ugualmente sacro, che collega la telecamera alla bolla contenente gli attori.

Sono molte le puntualizzazioni che la continuazione di questo lavoro promette e che sono riconducibili al setting individuale e, se questa similitudine è sostenibile, possiamo dirci contenti di aver individuato uno strumento che, in maniera anche ludica, consente di assistere e poi dibattere, su e di qualcosa che di solito avviene e si sviluppa in un privato che si nega costituzionalmente alla fruizione.

 


[i] Possiamo definire sapere trasversale la cornice cognitiva che contiene e dà una struttura di senso a quello che sto guardando. (O. Rossi, 2009)


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* Psicologo Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R.

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