Numero 1/2019

RABBIA PAURA E PANIC0

6° e 3° livello corporeo reichiano

Giuseppe Ciardiello[*]

  

 
 
 È naturale guardare alla paura come emozione principale nell’attacco di panico perché, sia nei suoi esordi, sia nei momenti successivi, l’attacco si presenta con un corredo di comportamenti molto eclatanti che, per la loro invasività, finiscono per essere identificati come il disturbo vero e proprio.
 
     L’attacco si presenta con la paura di morire per non poter respirare, tanto il petto è costretto, e con il terrore che il cuore, impazzito, si spezzi per le tensioni che si avvertono nel torace. Ci si sente estranei a se stessi, non più padroni dei propri organi ed espropriati dal potere del controllo.
 
Così descritti dai protagonisti e, a conferma delle descrizioni, così visti agire, i sintomi più parossistici dell’intero disturbo arrivano a definirlo globalmente anche nelle pubblicazioni scientifiche. Per la loro invasività questi sintomi, che pure si presentano solo in momenti occasionali, hanno estromesso dall’osservazione il rimanente corredo sintomatico che andremo a cercare di individuare nel presente lavoro. Tale corredo, anche se meno eclatante, può fornire utili indicazioni diagnostiche e terapeutiche.

 

Discussione

      Badare solo ai sintomi dell’attacco di panico significa assumere un atteggiamento pregiudizievole che porta a trovare nei suoi effetti, il sintomo della paura, la causa stessa che li ha prodotti. Assumendo di osservare solo questi elementi, sembra evidente il realizzarsi di una forma tautologica di pensiero in cui, elementi di una stessa categoria, rimandano impropriamente ad ulteriori elementi della stessa categoria. Tale metodo sembra giustificare piuttosto che descrivere e spiegare il panico[1].
 
     Come vedremo l’Analisi Reichiana (AR) è un approccio privilegiato nell’osservazione e descrizione degli elementi costitutivi del panico (probabilmente perché il disturbo panico è un disturbo prettamente relazionale/corporeo) e può fornire ulteriori elementi per formulare una diagnosi più puntuale.
 
     Per prima cosa, però, è necessario chiarire il fatto che, dato che in AR si è attenti anche al periodo prenatale, bisogna evitare, per quanto possibile, di produrre tentativi di spiegazione dei vissuti primari focalizzati su un’unica emozione. Nel caso del panico si può aver fatto ricorso ad un’interpretazione univoca, privilegiando la paura, e lasciando le altre emozioni in sordina.
 
     L’ipotesi che sostengo in questo articolo è la possibilità che il panico, per come è conosciuto dalle manifestazioni corporee nei momenti più importanti, pur essendo un’evidente manifestazione dell’emozione della paura, sia il risultato di dinamismi prodotti dalla rabbia che, introvertita, tende a decostruire l’Io. In tal caso un lavoro terapeutico, anziché preoccuparsi della sola riparazione dei vissuti di separazione, dovrebbe orientarsi anche alla rivisitazione e all’eventuale ripristino funzionale dei vissuti di attaccamento.
 Immagine Ciardiello panico BUONA.pngTratta da Pinterest e liberamente modificata dall'autore dell'articolo, Ciardiello Giuseppe
     Per i reichiani il periodo prenatale è un periodo in cui gli eventi derivanti dai passaggi di fase evolutiva si legano principalmente ai vissuti sensoriali dell’area ombelicale: addome[2].
     Dato che questi eventi non possono essere memorizzati, a causa dell’immaturità del SNC, s’ipotizza che s’imprintino in forma sensoriale (periodo del protomentale, (vedi Imbasciati[3] e Bion) e che le reazioni principali al loro apparire, saranno di terrore, angoscia e paura di morire, emozioni che, secondo Grof, daranno luogo a complessi archetipi primordiali (Grof, 2000).
 
     Il livello corporeo corrispondente, il 6° dei 7 individuati originariamente da Reich (addome), conservando memoria del tubo alimentare ed energetico del periodo intrauterino (cordone ombelicale), conserverà anche la memoria dell’esperienza corrispondente, il che fornirà il senso alle idee e alle metafore che rappresenteranno i futuri eventi di separazione.
     È grazie a questa ipotesi che in AR l’attacco di panico viene associato al terrore per quegli antichi eventi (Ferri, 2015) ed è individuato principalmente nelle manifestazioni sensoriali dell’addome. Ma, come sembra evidente, il riferimento ad una supposta paura ancestrale che sarebbe riattivata da una repentina e, di solito, inspiegabile regressione che porterebbe il soggetto a perdere del tutto i riferimenti corporei, spaziali e temporali, resta insostenibile; in più si può dire che i criteri diagnostici si confondono anche per il fatto che nell’attacco di panico viene a mancare il senso di unitarietà dell’organismo, che lo avvicina all’idea del marasma neonatale.
 
     La pericolosa conseguenza del fascino di usare questa interpretazione induttiva per il disturbo panico, è quella di rendere ancora più plausibile l’assimilazione del panico alla paura e la conseguente impossibilità di spiegarne realmente l’eziopatogenesi. Questa lettura diventa una lente che impedisce la costruzione di ipotesi deduttive, che cioè siano in grado di descrivere il disturbo a partire dalle manifestazioni e risalendo all’origine.

 

Alternativa

Ad integrazione del nostro punto di vista, e come suggerito anche dal DSM V[4], distinguendo il panico dal disturbo da attacchi di panico, si può ipotizzarne la genesi nei vissuti derivanti dalle complesse dinamiche sovrapposte, della rabbia e della paura, vissute nel periodo postnatale anziché prenatale[5]. Questo spostamento evolutivo permetterebbe di prendere in considerazione anche altri aspetti comportamentali e relazionali del disturbo che, anche se meno eclatanti, potrebbero essere usati come indici diagnostici del panico piuttosto che dell’attacco corrispondente.
 
     Tali aspetti sono rintracciabili nelle dimensioni del narcisismo: l’attenzione al sé, per esempio, si rivela anche nel panico in un costante confronto idealizzante corporeo e mentale. Il controllo, di sé e degli altri, la difficoltà di riconoscimento delle emozioni coinvolte nei diversi stati, la ricerca di relazioni che confermino il sé (evidente nella costruzione di relazioni in cui la gratuità è vista come sinonimo di sincerità).
     In AR queste dimensioni si localizzano al 3° livello corporeo, quello del collo (Navarro, 1984), che viene dopo quello degli occhi e della bocca (rispettivamente corrispondenti al livello oculare e orale) e purtroppo c’è un certo pregiudizio nei confronti delle dimensioni corrispondenti a questo livello, pregiudizio che obbliga a qualche piccolo chiarimento. Di solito le dimensioni narcisistiche vengono ricondotte all’egoismo e all’egocentrismo mentre, in realtà, il narcisismo attiene anche alla capacità integrativa e a quella del controllo, di sé e degli altri, per il perfezionamento e per una corretta modulazione del comportamento corporeo/relazionale governato dalle emozioni.
 
      Dipendendo il tutto dalle relazioni sociali, il narcisismo può colorarsi di autostima, di amore di sé, della spinta alla sopravvivenza e del piacere di vivere oppure, al contrario, può pervertirsi colorandosi di onnipotenza ed egocentrismo, del desiderio di primeggiare ed essere sempre circondati da attenzioni, di processi manipolativi e dell’esaltazione smisurata dell’Io.
     Un altro aspetto del complesso narcisistico è dato dalla realizzazione delle dimensioni dell’integrazione e coordinazione, dei livelli immediatamente superiori ed inferiori (oculare e toracico), che rende il vissuto corrispondente funzionale ed evolutivamente coerente.
 
     Ad uno sguardo diagnostico attento a tale integrazione, le persone che soffrono di panico appaiono caratterizzate da una costante ed eccessiva tensione tesa alla realizzazione dei processi di controllo e di autonomia, fino all’esaurimento, molto prima che l’attacco renda esplicito il disturbo.
     In questa dinamica è vero che la paura accompagna il costante timore del fallimento dell’integrazione e che arriva a condizionare ogni esperienza di vita reale. Ma è ugualmente vero che l’emozione della paura è preceduta dall’emozione che provoca questi processi disintegrativi, dalla rabbia. Ed è questa stessa emozione che, in queste persone, rende impensabili persino i normali stati di abbandono muscolare che, qualora si realizzassero, risveglierebbero vissuti di non/integrazione.
 
    I processi di non integrazione sono normalmente riprodotti da tutti noi quando ci si abbandona alle coccole e al massaggio, ma si rivelano insostenibili per i sofferenti di panico. Ciò induce a formulare l’ipotesi che questo disturbo porti ad assimilare automaticamente le sensazioni abbandoniche a quelle della disintegrazione. Questa evenienza rende possibile vedere una delle costanti diagnostiche per il panico nella difficoltà ad abbandonarsi; e il suggerimento terapeutico corrispondente sarà quello di evitare di proporre esercizi abbandonici e respiratori all’inizio di un percorso terapeutico e riservarsi di usarli alla fine, come conferma della realizzazione dei processi di fiducia (in sé e negli altri).

 

Sonia

     Sonia non ha avuto una vita facile. Sempre in prima linea, si è fornita di un armamentario di tutto rispetto per interpretare con perizia il mestiere di vivere. Sicura, sa sempre quel che dice e che fa e lo racconta con voce alta. Ha imparato da piccola a sostenere e rendersi attiva nelle piccole e grandi difficoltà. Nella sua autonomia non può fare a meno di continuare ad occuparsi dei genitori, solo che adesso tutto è diventato più difficile per una confusione relazionale confidatagli dal compagno. È sempre stata consapevole del suo infantilismo (di lui), della sua incapacità a decidere e disciplinarsi al punto che Sonia, nei confronti della propria figlia avuta da un precedente rapporto, si è sempre imposta come l’unico referente escludendolo a priori dalla condivisione delle responsabilità. Ma ora i nodi vengono al pettine. Ad ogni minimo litigio la figlia emigra dal padre la cui convivente non fa che denigrare Sonia e maltrattare la ragazza. A volte si ferma anche per una settimana.
 
     La voce di Sonia è perentoria, tremolante e squillante, è capace di graffiare inavvertitamente. Pur essendo molto attenta all’effetto che i suoi racconti producono, non modula le sue espressioni che sembrano dettate da moti costantemente impulsivi.
 
     All’età di trentacinque anni è ricorsa al pronto soccorso già diverse volte per crisi di panico.
     Al terzo incontro decido di indagarne le dimensioni.
     Le chiedo di porsi in piedi in posizione eretta e con le braccia lungo il corpo; lasciando libero lo sguardo, le chiedo di mostrarmi come respira. Lo fa respirando di pancia e quando provo ad avvicinarmi di fianco con l’intento di poggiare le dita della mia mano sinistra sulla parte alta dello sterno e quelle della destra tra le scapole, Sonia si ritrae e il respiro si scompensa mandandola in affanno. Nel disturbo panico il contatto fisico è fortemente sessualizzato.
 
     Negli agiti corporei tutti noi necessitiamo di un controllo capace di discriminare i diversi movimenti e comportamenti per orientarli sapientemente a seconda della relazione.
     A questo riguardo il panico rivela una grande confusione dettata da un lato dal desiderio di fidarsi e lasciarsi andare al rapporto, e quindi di essere spontanei, mentre dall’altro in questi corpi albergano una grande paura e sfiducia costruitesi nelle esperienze pregresse.
 
     Provo allora ad indagare la dimensione dell’equilibrio e le chiedo di fare piccoli passi per la stanza, in linea retta, cercando di disporre i piedi allineati (l’uno dietro l’altro). Non essendoci difficoltà, le chiedo allora di riprovare accostando, ad ogni passo, la punta di un piede al tallone dell’altro. A questo punto la prova si rivela insostenibile. Sonia, nel tentativo di riuscirci, prima perde la coordinazione del respiro e poi, per diverse volte, rischia di cadere.
 
     Queste condizioni testimoniano l’eccessiva tensione che le persone come Sonia impiegano nelle attività quotidiane. Sono costantemente tese e in uno stato di allarme che rende molto difficile la coordinazione motoria sottile. La mancanza di equilibrio dinamico tra il respiro e la tensione muscolare, rende difficile la modulazione discreta e reciproca dei muscoli di tutto il corpo che è necessaria per una corretta articolazione dei movimenti. Specialmente quando i movimenti sono relazionali, cioè diretti alle altre persone, tale modulazione diventa estremamente impegnativa e faticosa tanto che può portare all’esaurimento, energetico e psicologico, quell’esaurimento che diventa rabbia contro sé stessi.
 
     La domanda terapeutica che queste persone ci portano rende necessaria la modifica dell’impianto vegetoterapeutico (a volte non è possibile usare il lettino, come per esempio in questo caso), per la mancanza di fiducia abbandonica e per paura di perdere i confini corporei (disorientamento). Il punto fisso, solitamente impiegato con persone distese su un lettino e con l’ausilio di una penna luminosa, può essere analogamente utilizzato riproducendolo su un foglio appeso alla parete e usandolo come riferimento visivo. Le persone ci si devono avvicinare compiendo passi allineati, come sopra specificato, concedendosi tutto il tempo di cui necessitano. Nelle sedute successive è possibile associare ai passi anche il movimento respiratorio e, ancora dopo, in maniera coordinata anche qualche piccolo movimento delle braccia. Ogni movimento ed ogni sua variazione vanno classicamente indagate.

 

Differenze e conclusioni

     Le persone sofferenti di panico sono quindi sensibili a diverse caratteristiche dimensionali: la fiducia, la gratuità, l’equilibrio, la coordinazione, il controllo, l’integrazione, l’autonomia.
     Tutte queste dimensioni sono riconducibili alla relazione e possono essere ricontattate, nel corso degli incontri terapeutici, con specifici acting di Vegetoterapia[6] in modo da riattivare i vissuti che sono come sospesi nelle persone. Una volta attualizzate, queste dimensioni potranno assumere un valore diagnostico differenziale e la paura, pur confermandosi un’emozione rilevante nel vissuto panico, anziché presentarsi senza oggetto, risulterà legata al timore di perdere qualcosa: l’affetto, l’equilibrio, la forma, l’integrazione, il controllo, ecc. così acquisendo un senso motivazionale.
 
     Una volta recuperato il senso della paura nel disturbo panico, diventa più chiara anche la sua mancanza (diagnostica) negli analoghi vissuti di separazione dove non si realizza l’attacco panico. Infatti, in questi casi, mancando la rabbia destrutturante, le emozioni immediatamente innescate dagli eventi di separazione saranno il dispiacere e l’angoscia!
     Tutto ciò fa sospettare che le diverse e complesse manifestazioni fino ad oggi raccolte sotto l’etichetta di attacco di panico, e ricondotte univocamente alla paura immotivata, possano rappresentare l’aspetto emergente di disturbi diversi. Ciò spiegherebbe anche il contenimento dei sintomi del panico quando si curano altri disturbi, per esempio la depressione.
 
     Volendo riassumere si può sinteticamente affermare che la paura del 6° livello si rivela insufficiente a rappresentare il disturbo panico perché si associa a molti altri disturbi. Al contrario, nel panico vero e proprio, cioè quello colorato dalle dimensioni dell’appoggio, dell’equilibrio, dell’integrazione e del controllo, la paura si lega specificamente alla rabbia relazionale che interferisce nella corretta modulazione corporea ed emotiva dei diversi livelli muscolari integrati per fasi evolutive.  
 
     Si può allora anche dire che, in base alle osservazioni suesposte, il vissuto panico può essere più facilmente individuato se dedotto dagli indici rappresentati dalle dimensioni psicologiche riconducibili al terzo livello reichiano, quelle relative al controllo narcisistico.
     L’inquadramento del panico nelle fasi postnatali, piuttosto che nelle fasi intrauterine, comporta l’indubbio vantaggio terapeutico di aprirsi alla possibilità di pensare ad acting fruibili per l’indagine diagnostica, per dimensioni psicologiche specifiche, e alla possibilità di idearne di correttivi in ambito terapeutico riabilitativo (Ciardiello, 2/2013).
 
     Inoltre, non ultimo sarebbe il pregio di poter considerare l’intervento vegetoterapeutico come intervento integrato, piuttosto che associato o combinato, configurandosi così tra i metodi più efficaci per la risoluzione del panico[7] in quanto capace di proporre l’integrazione dei vissuti dei diversi livelli esperienziali suggeriti dalle relative dimensioni psicologiche (cognitive e corporee).
 
 
 
 

Bibliografia

Ciardiello, G. (02/2013), Il disturbo di attacchi di panico in PsicoterapiaAnaliticaReichiana.

Di Manno, F. (2012), Il panico tra mente e corpo. Roma: Alpes ed.

Giannantonio, M., Lenzi, S. (2009), Il Disturbo di Panico. Milano: RaffaelloCortinaEditore.

Grof, S. (2000), Il gioco cosmico della mente. Como: Red ed.

Infrasca, R. (2011), Il Disturbo da Attacchi di Panico. Milano: Franco Angeli ed.

Nardone, G. (1999), Paura, panico, fobie. Ponte Alle Grazie.

Navarro, F. (1984), Il funzionalismo del collo in Energia, carattere & società, n. 7, 11-14.

Imbasciati, A. (1998), Nascita e costruzione della mente. La teoria del proto mentale.Torino: UTET Università

 

[*] Psicologo, Psicoterapeuta Reichiano

 

[1] Una delle definizioni sintetiche del panico e ripresa da un sito internet, è la seguente: (il panico) è una forma acuta di angoscia che si accompagna a fenomeni somatici evidenti, come sensazione di soffocamento, sudore abbondante, pallore, batticuore, tremore (www.webalice.it/gangited/_A/Carattere.html)

[2] Ferri, “Il momento presente e la nostra storia di vita”, rivista di PsicoterapiaAnaliticaReichiana, 02/2015

[3] La Teoria del Protomentale é tuttavia psicoanalitica, anche se fa riferimento a supporti psicofisiologici: essa intende descrivere, nonché‚ spiegare, come i primi input afferenziali, nel neonato e ancor prima nel feto, possano organizzarsi a formare le prime strutture elaborative in grado di leggere e organizzare le successive afferenze, costituendole in tracce mnestiche; cosicché‚ queste possano entrare in funzione per le ulteriori letture e organizzazioni delle successive esperienze. Si tratta del passaggio dal neurosensoriale allo psichico e pertanto alla possibilità di “apprendere dall’esperienza”. (“Nascita e costruzione della mente. La teoria del protomentale”)

[4] Il DSM5 ha ritenuto di dover modificare la categoria diagnostica che caratterizza il panico differenziando il Disturbo da Attacchi di Panico dal Disturbo di Panico. Inoltre ha distinto l’agorafobia dal panico che non sempre sono associati.

[5] Genesi, diagnosi differenziale e DAP (di Giuseppe Ciardiello in “approfondimenti sul DAP” dal sito LIDAP); inoltre Psychomedia nell’area DAP.

[6] Normalmente la scelta dell’acting avviene badando alla fase evolutiva e al livello muscolare sia delle persone sia della relazione terapeutica. Ad ogni step della relazione terapeutica c’è anche un incontro/scontro tra questi due livelli individuali e reciproci di analisi in relazione. In questo spazio, fisico e mentale, si situano le emozioni, le fantasie, le opinioni, i preconcetti, le aspettative, i bisogni, i desideri, le credenze e tutti gli altri aspetti a valenza cognitiva che si accompagnano sia alle espressioni tonico corporee (contrazioni e decontrazioni corporee) diversamente modulate, sia alle fasi interattive attraversate. Questa complessità di vissuti sono, a mio parere, riconducibili alle Dimensioni Psicologiche che, avvertite intuitivamente, possono essere esplicitate facendo riferimento alle dimensioni succitate.

[7]Modelli cognitivisti e intervento integrato nel disturbo di panico con agorafobia”, F. Galassi e M. Ciampelli, in Psychomedia Telematic Review, area: Distubo da Attacchi di Panico, 2004 (Associare due trattamenti significa che ciascuno svolge la sua funzione indipendentemente dall'altro: ciascuno apporta il suo beneficio e ci si aspetta al più che non interferiscano. Integrare significa che il loro effetto è complementare e sinergico: ognuno agisce almeno a livelli diversi (in questo senso sono complementari) e il loro effetto complessivo è superiore alla somma di entrambi).

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