Numero 1/2019

IL TRIANGOLO PRIMARIO E LA NUOVA GENITORIALITA’

Marcello Mannella[*]

 

In passato gli studi sull’infanzia e sulla genitorialità hanno
enfatizzato soprattutto una psicologia fra due persone,
concentrando la propria attenzione sulla relazione fra madre e
bambino, recentemente l’interesse è stato spostato su
una psicologia fra tre persone, orientata all’esplorazione
delle interazioni fra madre, padre e bambino.

Ammaniti, Gallese

 

     Una bambina è impegnata con la madre in un dialogo fatto di occhiate e vocalizzi, mentre il padre le osserva amorevolmente. La bambina, poi, invita il padre ad entrare in relazione con lei; questa volta è la madre ad osservare e ad assumere una posizione periferica. Successivamente, il dialogo coinvolge tutti e tre; infine può accadere che i due genitori comunichino fra loro compiaciuti della loro figlioletta, mentre la bambina è lì ad osservarli.

     Questo quadretto familiare non ha apparentemente niente di eccezionale; è un normale gioco relazionale, come ne accadono tanti quotidianamente nella vita familiare. La prospettiva, però, cambia se solo si considera che questo dialogo riguarda una bambina di pochissimi mesi in interazione con entrambi i genitori.

     Siamo al cospetto del cosiddetto triangolo primario (Fivaz-Depeursinge, Cordaz-Warney, 1999), il rivoluzionario costrutto proposto dalla Scuola di Losanna. Fivaz-Depeursinge e Corboz-Warnery mostrano che i bambini già a tre mesi sono in grado di coordinare l’attenzione alternando il contatto visivo con i genitori e di comunicare segnali espressivi e affettivi, indicatori di una partecipazione diretta alla comunicazione triangolare[1]. Essi sono dunque  in grado di implicarsi in uno scambio relazionale intersoggettivo[2] a tre e sviluppano tale competenza in parallelo all’acquisizione delle competenze relazionali diadiche[3].

     Tradizionalmente, lo studio delle relazioni familiari ha avuto nella diade il suo punto osservativo privilegiato. Nella psicoanalisi classica l’unità diadica era rappresentata dalla relazione tra il padre e il bambino nella fase edipica; successivamente e fino ai nostri giorni, la riflessione psicoanalitica ha centrato la sua attenzione sulla diade madre/bambino. Da fallocentrica la famiglia era diventata così madricentrica. In ogni caso le relazioni triadiche risultavano essere preparate e fortemente condizionate dalla qualità delle relazioni diadiche[4]. Il bambino doveva imparare a sintonizzarsi con un caregiver prima di poter allacciare relazioni triangolari e più complesse.

     Il concetto di triangolazione è utilizzato in maniera nuova dalla Scuola di Losanna. Storicamente con tale concetto si indicavano, in ambito psicoanalitico, l’esperienza soggettiva di esclusione del bambino dalla relazione dei genitori nella fase edipica, oppure, nella teoria dei sistemi familiari, il processo attraverso cui il bambino era inserito nei rapporti conflittuali dei suoi genitori.

     “Ovviamente, entrambe queste nozioni di triangolazione hanno una loro pertinenza clinica. Ma, […] il problema è che sono parziali. Il processo triangolare, infatti, non riguarda solo l’inclusione problematica o l’esperienza di esclusione ma anche l’inclusione ‘normale’ e l’inclusione di ogni possibile figura presente in una relazione a tre” (Fivaz-Depeursinge, Cordaz-Warnery 1999, p. 65).

      Per la scuola di Losanna, la competenza triangolare è dunque la capacità del bambino di implicarsi nella relazione con più caregiver contemporaneamente. Da questo punto di vista, sarebbe opportuno sottolineare l’importanza dei multiplecaregivers, e non soltanto il ruolo del padre e della madre. Sono le stesse Fivaz-Depeursinge e Cordaz-Warnery, a rimarcare che il sistema famiglia dovrebbe essere osservato e compreso attraverso un’ottica sistemica, nella complessità dei legami e delle relazioni che lo caratterizzano.

     Ma allora perché parlare di triangolazioni e di triangolo primario? La risposta ce la suggerisce Zavattini nell’introduzione all’edizione italiana del libro. La scelta è dettata dal fatto che è nel triangolo primario che nasce la “triangolarità, ossia la capacità di farsi nella propria mente un’idea del tessuto di relazioni in cui si è inseriti. Potrei chiamarlo l’idea, il ‘senso interno della relazionalità’” (Ibidem, p. XV).

     Il costrutto del triangolo primario comporta la messa in discussione di assunti concettuali che sembravano essere ormai assodati. Per quanto riguarda lo studio delle relazioni familiari non soltanto ha determinato il superamento della centralità della diade madre/bambino – il che per inciso alleggerisce il ruolo delle madri e le solleva dalla responsabilità di essere le principali responsabili della salute del bambino[5] - e il conseguente ricentramento del ruolo del padre, ma comporta anche la scoperta del rilievo della co-genitorialità.

     La co-genitorialità non è la semplice somma del ruolo materno e paterno, ma prevede la definizione di un progetto genitoriale condiviso, l’interazione profonda del sentire e dell’agire dei genitori, la loro capacità di coordinarsi per realizzare lo scopo comune del benessere del figlio. La co-genitorialità è “l’impegno dei genitori nei confronti del bambino all’interno del contesto familiare, e riguarda non solo la cura del bambino ma anche le rappresentazioni mentali condivise dai genitori e quelle che riguardano il partner nel suo ruolo di genitore. La co-genitorialità, quindi, è un processo bidirezionale – potremmo dire interattivo e intersoggettivo – in cui le azioni di un partner influenzano e sono influenzate da quelle dell’altro” (Ammanniti, Gallese, 2014, p.111). 

     La co-genitorialità, ancora, deve essere costruita precocemente dai genitori, perché è già nel tempo del desiderio, del concepimento e dell’attesa che ha inizio la relazione con il figlio (Mannella, 2018). È una responsabilità fra le più delicate che i nuovi genitori devono essere in grado di assumere se sta loro a cuore il benessere dei figli. Il comportamento co-genitoriale è proprio dei partner che - psicologicamente maturi ed eticamente responsabili - sono riusciti ad andare oltre gli stereotipi di genere e di ruolo e che riconosciuta la natura relazionale del bambino sono capaci di implicarsi emotivamente e simpateticamente. Per la crescita sana e serena del figlio non è infatti esclusivamente importante la relazione con i singoli genitori o l’atmosfera familiare positiva, ma soprattutto la collaborazione e il reciproco riconoscimento della funzione genitoriale dell’altro. I bambini sono innanzitutto sensibili alla qualità dei comportamenti co-genitoriali, anche in presenza di dinamiche coniugali conflittuali.

MANNELLA triangolo mommy and daddy with son 1triangolo mommy and daddy with son     Il costrutto del triangolo primario ha anche, ovviamente, delle importanti ricadute per quanto riguarda la teoria dello sviluppo evolutivo. Già gli studi sull’intersoggettività primaria hanno comportato il superamento dell’idea che il bambino sia un essere a-sociale ed assolutamente egocentrico, considerandolo ora un essere dotato di una spinta naturale alla socievolezza. I bambini sono in grado a due mesi di implicarsi in proto-conversazioni – dei veri e propri dialoghi sociali – fatte di sguardi, sorrisi, vocalizzazioni, giochi comunicativi carichi di emozioni e della “consapevolezza” dell’altro[6] e che gli consentono la co-costruzione del sé nella relazione coi caregiver. La scuola di Losanna rafforza questa convinzione sostenendo la precoce capacità del bambino di implicarsi in relazioni complesse fin nella primissima infanzia.

     In ultimo, vorrei sottolineare un’ulteriore, decisiva conseguenza che il costrutto del triangolo primario comporta: il definitivo superamento della differenziazione dei ruoli genitoriali in base al sesso e al genere.

     Infatti, fintanto che si è pensato che il neonato realizzasse un attaccamento privilegiato – fintanto cioè che si è utilizzata la diade come prospettiva osservativa dei rapporti familiari -, la genitorialità è stata considerata soprattutto una prerogativa materna. La maternità è stata addirittura giudicata espressione di un istinto, il manifestarsi cioè di una competenza innata, per cui era alla madre che competeva il ruolo centrale ed esclusivo di cura della prole.

     La paternità invece era considerata un ruolo acquisito culturalmente e, mancando della spontaneità e della sicurezza dell’istinto, era risolta nel ruolo importante ma subordinato di protezione del nido familiare. Il padre solo in un secondo momento – quando il bambino tirato su dalle cure amorevoli della madre diventava capace di relazionarsi in maniera più complessa (triadica) – emergeva dallo sfondo assumendo un ruolo normativo e di guida nel mondo sociale. Nel passato ai padri, dunque, non veniva richiesto di condividere con la madre la cura della prole, di essere coinvolti emotivamente nel processo di cura; essere un buon padre significava in fondo essere dediti alla famiglia garantendone il sostegno economico.

     Le cose oggi sono profondamente cambiate[7]. La paternità, al pari della maternità, è considerata un’esperienza precoce che accade fin dal momento del desiderio e del concepimento e i papà di oggi partecipano profondamente all’esperienza della gravidanza e così come le madri sentono il figlio crescere dentro di sé[8].

     I genitori si pongono su un piano paritario, occupandosi congiuntamente di tutte le incombenze – di cura, pedagogiche, lavorative, sociali – della famiglia. Oggi, pertanto, non parliamo più di funzione (ruolo) materna e paterna, ma di figure genitoriali che assumono le funzioni di caregiver o normativa, a seconda delle necessità evolutive del piccolo[9].

Bibliografia

Ammaniti, M., Gallese, V., 2014, La nascita dell’intersoggettività. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Mannella, M., 2018, L’educazione del corpomente. Cosa significa educare nella società postmoderna. Roma: Alpes.

Fivaz-Depeursinge, E., Cordaz-Warnery, A., 1999, Il triangolo primario. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Trevarthen, C., 1998, Empatia e biologia. Milano: Raffaello Cortina editore.

 

[1] Prima della definizione del costrutto del triangolo primario, per Interazioni triadiche si intendeva l’interazione fra madre e bambino in riferimento ad un oggetto o un evento e comparivano intorno ai 7/9 mesi (Trevarthen, 1998).

[2] Con il termine di intersoggettività si intende la capacità da parte dei bambini molto piccoli di coinvolgersi direttamente, intenzionalmente, emozionalmente e con la “consapevolezza” dell’altro, nella relazione con i caregiver, in un dialogo preverbale, corporeo, costituito innanzitutto da contatto visivo, gesti e vocalizzi. L’intersoggettività come sistema motivazionale innato è stata definita negli anni 70 del secolo scorso – da Stern e Trevarthen, fra gli altri. La teoria dell’intersoggettività sostiene che il bambino viene al mondo dotato della capacità della comunicazione interpersonale e ha portato al superamento degli assunti freudiani e piagetiani che sostenevano che per il bambino fosse necessario un lungo periodo di decentramento prima che potessero sorgere le competenze sociali. Le ricerche distinguono diversi modi dell’intersoggettività. L’intersoggettività primaria, visibile nelle prime settimane di vita: il bambino prende parte attiva in una protoconversazione con i caregiver caratterizzata dal coinvolgimento intenzionale, emozionale, simpatetico. L’intersoggettività secondaria (a conclusione del primo anno) che si realizza nella triangolazione soggetto-soggetto-oggetto. Alcuni oggetti – ad esempio il cucchiaio della pappa – acquisiscono importanza e significato e mostrano la capacità del bambino di intendere le azioni del caregiver orientate su un oggetto. Nel nostro caso, il bambino impara a riprodurre l’azione di porgere il cibo attraverso il cucchiaio. L’intersoggettività terziaria (fra i tre e i sei anni). Ora il bambino, che ha acquisito il senso di sé, è capace di articolare il proprio punto di vista e di simulare, la mente dell’altro (ad esempio, il riconoscimento di una bugia).  

[3] Le ricerche di Fivaz- Depeursinge e Cordaz-Warnery hanno preso le mosse dalla convinzione che non fosse possibile ricostruire le relazioni familiari a partire dalle sue sole componenti diadiche, ma che fosse necessario osservare la famiglia come insieme. Le studiose hanno messo a punto il cosiddetto “gioco triadico di Losanna” (LTP). Esso si compone di quattro situazioni. Tre del tipo due più uno, quando due membri familiari – il padre con la madre, la madre con il figlio, il padre con il figlio – comunicano direttamente mentre il terzo è in periferia e li osserva, e un’unica del tipo tre insieme, quando i tre interagiscono contemporaneamente e sullo stesso piano. Utilizzato con bambini anche in età preverbale, LTP è uno strumento per osservare e modificare i modelli relazionali familiari.

[4] “In altri termini, il bambino impara prima a regolare le interazioni diadiche e poi quelle triadiche […]? O invece quest’idea è una conseguenza artificiosa che deriva dal setting in cui, fino a ora, è stata studiata l’interazione tra adulto e bambino che esclude il terzo (in particolare il padre) non inserendolo direttamente nella situazione? (Fivaz-Depeursinge, Cordaz-Warnery, 1999, pag. 67).

[5] Non sono poi così lontani i tempi in cui si indicava la madre col il termine di madre schizofrenogena.

[6] Le competenze sociali del bambino trovano un’ulteriore giustificazione nella scoperta dei neuroni specchio.

[7] La nascita di nuovi modi di vivere la funzione paterna è la conseguenza dei profondi mutamenti sociali e culturali avvenuti a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. Diversamente che nel passato, nella maggior parte dei casi entrambi i genitori lavorano e le incombenze del vivere quotidiano e quelle della cura della prole sono state progressivamente distribuite. La rivoluzione culturale e le rivendicazioni del movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, hanno fatto si che i ruoli di genere abbiano perso ogni rigida definizione e che gli stessi compiti genitoriali siano il frutto di una negoziazione fra i partner, oppure assunti in base alle diverse attitudini psicologiche. La dicotomia e l’esclusività dei ruoli sono oggi definitivamente.

[8] Studi recenti, attestano che durante i mesi della gestazione anche i padri vivono profondi cambiamenti fisiologici e mentali. Sul piano ormonale diminuisce la produzione di testosterone e si registra l’aumento di ossitocina, di prolattina ed estradiolo. L’ossitocina è un ormone che induce comportamenti sociali positivi e l’accudimento affettivo; la prolattina dispone all’accudimento, mentre la produzione di estradiolo, ricreando nei maschi lo stesso clima ormonale avuto durante la propria gravidanza, favorirebbe il riemergere dei vissuti impliciti di gioia e tenerezza intrauterini e dunque la comunicazione e il contatto fra il padre e il feto. Sul piano mentale scemano la libido e l’aggressività, aumenta l’affettività e il padre si dispone ad un atteggiamento di maggiore sensibilità verso la compagna e alla comunicazione con il futuro nascituro. Sempre più diffusamente i papà accompagnano le partner alle visite di controllo, abbracciano e parlano al figlio abbracciando e parlando attraverso il pancione della madre, partecipano insieme alle mamme ai corsi di preparazione al parto, entrano in sala parto vivendo in maniera partecipata l’esperienza della nascita. Le visite ecografiche risultano essere particolarmente importanti non solo perché permettono al padre – ma anche alla madre – di sostanziare le rappresentazioni mentali del figlio, ma anche perché aiutano la coppia a costruire una rappresentazione mentale condivisa del futuro nascituro.

[9] Che la funzione di cura e la funzione normativa, entrambe necessarie per un sano sviluppo psicoaffettivo del bambino, possano essere incarnate indifferentemente da entrambi i genitori al di là dell’appartenenza ad un sesso e a un genere, è del resto evidenziato dalla realtà delle famiglie omogenitoriali. I partner delle famiglie omogenitoriali, meno condizionati dai tradizionali rapporti di genere, tendono a creare relazioni paritarie e collaborative. Compiti e funzioni sono pertanto assunti previo accordo: un partner si sentirà maggiormente portato ad assumere la funzione di supporto e normatività, l’altro si sentirà predisposto verso il compito del prendersi cura, di caregiver.

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