Numero 2/2023

IL DEMONE SOCRATICO E DAMASIO

 

Marcello Mannella[*]

 

Una vita senza esame non è

una vita degna di essere vissuta

(Platone: Apologia di Socrate)

 

Abstract

        L’articolo propone una lettura corporea del demone socratico, accostato all’ipotesi del marcatore somatico di Damasio. La tesi sostiene ancora che la loro importanza consiste essenzialmente nel fatto che essi rendono possibile il dialogo interiore, spingendoci alla riflessione e alla interrogazione circa la nostra condotta di vita. Nella società multimediale del nostro tempo, ciò è ancora possibile? Non è sempre più tangibile il pericolo che le nostre esistenze siano sedotte e dominate dagli stimoli che provengono dal mondo sociale ed economico? Vengono così meno le condizioni per esercitare quell’esame incessante di sé che già Socrate indicava come il compito esistenziale più proprio dell’uomo.

 

Parole chiave

Demone, mente incarnata, marcatore somatico, dialogo interiore.

 

Abstract

        The essay proposes a corporeal analysis of the Socratic demon, placed next to the Damasio somatic marker theory. The thesis still maintains that their relevance essentially consists of the fact that they make the inner dialogue possible, pushing us to reflect and question ourselves on our way of life. In the multimedia society of our time, is it still possible? Isn’t it increasingly tangible the danger that our existences are seduced and governed by the impulses deriving from the social and economic world? Thus, the conditions to effect that continuous self-analysis – already pointed out by Socrates as the most proper to mankind task – no longer exist.    

 

 Key words

        Demon, incarnated mind, somatic marker, inner dialogue.

 

 

 

Il demone socratico

     “La ragione di ciò l’avete spesso udita dire da me ad ogni piè sospinto, e cioè che avverto in me è un non so che di divino e di soprannaturale […]. È una voce che sento dentro di me fin da fanciullo e tutte le volte che l’avverto mi distoglie da ciò che sto per fare, ma non mi sollecita mai a fare qualche cosa” (Platone, 1959).

     Così Socrate - durante il processo che gli era stato intentato per i delitti di empietà e plagio dei giovani - comunica alla giuria popolare della presenza in lui di un demone che avrebbe svolto il ruolo di pungolo morale in un dialogo interiore durato tutta la vita. Tale demone non gli indicava positivamente il da farsi, ma piuttosto lo distoglieva dal compiere determinate azioni: “[…] la solita voce profetica, quella del demone, che fin’oggi io ho udito molto frequentemente contrariarmi anche in piccole cose se non stavo per far bene […]” (Ibidem, pag. 63)[1].

     È proprio il demone che lo conforta ora, durante il processo, in  maniera paradossale con il silenzio – “non mi ha contrariato né stamane, quando sono uscito di casa, né quando sono venuto qui in tribunale, né mentre pronunciavo la mia difesa[2], qualunque cosa fossi io per dire, nonostante altre volte mi avesse fermato la parola a mezzo” (Ibidem) – attestando così la giustezza della sua condotta. 

     Molteplici sono state – dall’antichità ai nostri giorni - le interpretazioni intorno alla sua natura. C’è chi vi ha visto il riflesso o la presenza del divino – comunque lo si intenda - nell’interiorità dell’uomo, chi, più semplicemente, l’attestazione della natura costitutivamente morale dell’essere umano.

     Senza voler discutere la legittimità di tali interpretazioni - ognuna plausibile nel proprio orizzonte di pensiero - mi permetto di aggiungere una nuova tesi interpretativa, apparentemente distante, che consiste nell’accostare la figura del demone socratico al concetto di marcatore somatico di Damasio (Damasio, 1995).

     Proviamo a giustificare tale ipotesi.

 

La mente incarnata di Damasio

     Sicuramente uno dei meriti che dobbiamo riconoscere al neuroscienziato portoghese è quello di aver corroborato sul piano sperimentale, ciò che ormai da tempo, antropologi, filosofi, medici, psicologi e psicoterapeuti andavano sostenendo: l’origine corporea – lo sviluppo botton-up - della mente.

     A parere di Damasio corpo/cervello/mente (e ambiente, per quanto riguarda soprattutto la realtà della mente autocosciente) sono in continuità e fin dall’inizio embricati. Il cervello è una realtà stratificata caratterizzata dalla progressiva comparsa di strutture anatomiche e processi mentali più complessi fino alla comparsa di una mente autocosciente.

     Per sostenere le sue tesi, Damasio ha preso in considerazione non soltanto la neocorteccia, ma l’interezza dell’encefalo e ha attribuito al midollo allungato un ruolo centrale. Parte del tronco encefalico, posto alla base del cranio, il midollo allungato è una struttura primitiva, zona di transito di un costante flusso di informazioni da e verso il corpo. Per suo tramite dunque “Il sistema nervoso centrale è neuralmente connesso con ogni angolo e recesso del corpo” (Ibidem, pag. 58).

     È sulla sua base che viene così a formarsi il cosiddetto proto-sé, il cervello più arcaico. Il proto-sé traccia continuamente mappe dello stato dell’organismo, dei suoi stati primordiali di benessere o malessere, ed ha la funzione di garantire l’equilibrio omeostatico dell’organismo.

     “Il corpo è la roccia su cui è costruito il proto-sé, mentre quest’ultimo è il perno intorno al quale ruota la mente dotata di coscienza” (Damasio, 2012, pag. 35).

     È con struttura cerebrale evolutivamente successiva che compare, infatti, la prima forma di mente cosciente, la coscienza nucleare, la cui base neurale è rintracciabile nei nuclei sottocorticali del talamo. La coscienza nucleare è funzionalmente preposta alla relazione fra l’organismo e gli oggetti del mondo, ed è legata strutturalmente all’azione. “[…] la coscienza viene creata a impulsi e ogni oggetto con il quale interagiamo o che evochiamo innesca un impulso” (Damasio, 2000, pag. 214). “Il raggio di estensione della coscienza nucleare è ‘il qui ed ora’. La coscienza nucleare non illumina il futuro e l’unico passato che ci lascia vagamente intravedere è quello trascorso un istante fa” (Ibidem, pag. 30).

     La forma di coscienza più complessa è la coscienza estesa o autobiografica. Tipicamente umana, basata sulla configurazione neurale della neocorteccia, con essa l’organismo perviene all’autocoscienza. La coscienza autobiografica possiede le capacità di memoria e di proiettarsi nel futuro a partire dal passato e dal presente. Essa “fornisce all’organismo un senso elaborato di sé – un’identità e una persona, voi o io, niente di meno – e colloca la persona in un punto del tempo storico individuale, con la piena consapevolezza del passato vissuto e del futuro previsto e con una profonda conoscenza del mondo circostante.”  Essa, ancora, è sempre situata in un particolare contesto linguistico e sociale, dal quale non può essere nettamente distinta.

     Questa in maniera estremamente succinta la concezione della mente incarnata di Damasio. Tale teoria ha contribuito in maniera decisiva alla messa in discussione dell’epistemologia cartesiana.

     Agli inizi dell’età moderna, Cartesio aveva sostenuto la scissione della realtà in due sostanze – la res cogitans e la res extensa – separate e incommensurabili ed aveva sostenuto il primato ontologico della prima per la sua natura spirituale di contro ad un mondo esteriore meccanico ed inerte. Dal dualismo ontologico era inevitabilmente disceso un dualismo antropologico, la convinzione cioè che la persona umana fosse caratterizzata dalla separazione/opposizione fra la mente e il corpo[3]. La mente era stata intesa come istanza libera e coscienziale, il corpo come opaco, potenzialmente di disturbo alle capacità della mente di rappresentare in maniera chiara e distinta il reale. Con Cartesio il corpo, ridotto al rango di mera sostanza estesa, meccanica ed inerte, era pertanto escluso dal processo della conoscenza. Quest’ultima non doveva costituirsi intorno all’esperienza vissuta del corpo impregnato di sensazioni ed emozioni, ma doveva affidarsi alla sola comprensione razionale, oggettiva, distaccata del mondo.

     Damasio ha finalmente restituito unitarietà alla persona umana. Corpo, emozioni e ragione non sono né in contrapposizione né separate. Comprendere il mondo non è più una prerogativa da attribuirsi alla sola res cogitans, al puro intelletto, alla ragione intesa come neocorteccia, ma dell’intero organismo, mente e corpo insieme. Comprendere è sempre un’esperienza psicocorporea che si realizza a diversi livelli di complessità: dalla capacità del corpo di avvertire se stesso, il proprio stato di benessere o di malessere di fondo, fino alla operazioni più astratte della mente come la rappresentazione spirituale dell’esistenza. In ogni caso la comprensione è un’esperienza, sia a livello filogenetico che ontogenetico, che inizia a partire dal corpo.

     Innanzitutto il corpo (il proto-sé) è capace di percepire i propri muscoli e la propria struttura scheletrica (propriocezione), producendo così la sensazione della posizione corporea nell’ambiente. Il corpo ancora è capace di enterocezione, cioè la capacità di percepire il milieu interno e di giudicare grazie ai suoi parametri viscerali, la condizione di equilibrio omeostatico o meno dell’organismo. Il proto-sé costruisce continuamente mappe dell’organismo ed è capace di primordial feelings[4] che precedono qualunque interazione con il mondo.

     Con la comparsa della coscienza nucleare l’organismo è in grado di instaurare relazioni con gli oggetti del mondo esterno. La coscienza nucleare crea continuamente mappe dell’interazione dell’organismo con gli oggetti/eventi, reagisce agli stimoli dell’ambiente attraverso pattern comportamentali (emozioni) definiti su scala evolutiva.

     “Le emozioni sono complicate collezioni di risposte chimiche e neurali. Le emozioni riguardano la vita di un organismo – il suo corpo – e il loro ruolo è assistere l’organismo nella conservazione della vita. […] le emozioni sono processi determinati biologicamente, dipendenti da dispositivi cerebrali predisposti in modo innato” (Damasio, 2000, pag. 70).

     Se la coscienza nucleare è in grado di sentire un’emozione, la coscienza autobiografica è in grado di avere sentimenti. Mentre l’emozione è in gran parte osservabile pubblicamente tramite la mimica, la postura, il comportamento, non è invece possibile osservare il sentimento in una persona. Il sentimento indica l’esperienza mentale, privata, di un’emozione. I sentimenti hanno un legame privilegiato con la coscienza e rappresentano un tentativo di autoconservazione deliberato dandoci la possibilità – almeno in una certa misura – di operare un controllo volontario delle emozioni automatiche.

     È a questo punto della nostra riflessione che possiamo finalmente portare l’attenzione al concetto di marcatore somatico.

 

Il marcatore somatico e il demone socratico

     Nel descrivere la realtà della coscienza autobiografica abbiamo affermato che essa è indissolubilmente legata alla definizione della memoria autobiografica (ricordi e affetti legati alla storia evolutiva, familiare, sociale), ad un patrimonio, cioè, di esperienze caratterizzate da una decisa impronta emotiva e sentimentale. È proprio questo personale patrimonio di sentimenti che riveste l’importante ruolo di marcatore somatico.

socrateSocrate

     Ma, che cos’è, o che cosa propriamente fa il marcatore somatico? I marcatori somatici ci aiutano nel difficile compito adattivo che la vita continuamente ci pone, ci stimolano a compiere le nostre scelte in maniera per noi sostenibile, marcano emotivamente una situazione mettendo in risalto alcuni possibili esiti delle nostre azioni. Il marcatore somatico “forza l’attenzione sull’esito negativo al quale può condurre una data azione, e agisce come un segnale automatico di allarme che dice: attenzione al pericolo che ti attende se scegli l’opzione che conduce ad un tale esito. Il segnale può farvi abbandonare immediatamente il corso negativo d’azione e così portarvi a scegliere fra alternative che lo escludono; vi protegge da perdite future, senza ulteriori fastidi, e in tal modo vi permette di scegliere entro un numero minore di alternative” (Damasio, 1995, pag. 145).

     Come il demone socratico, dunque, il marcatore somatico non ci dice cosa compiere, non ci sollecita mai a fare qualcosa, ma ci mette in guardia, ci trattiene, ci spinge a considerare se quello che stiamo per fare sia per noi sostenibile, se rappresenta una scelta egosintonica. La sua importanza non consiste nel fatto di essere una guida infallibile, una sorta di fonte interiore di verità, capace di indicarci in ogni situazione la via da seguire saggiamente. A ben considerare, se così fosse, si tratterebbe per l’uomo di una diminuzione, di una limitazione della sua creatività e libertà. Verrebbe a significare la negazione della sua costitutiva natura di essere aperto, della sua più propria ontologia, quella di essere costantemente posto di fronte alla responsabilità di scegliere fra la molteplicità delle scelte possibili.

     Così come il demone socratico, che si limita a contrariarmi frequentemente anche in piccole cose se non stavo per far bene, il marcatore somatico si limita a marcare emotivamente gli esiti negativi delle nostre possibili scelte, spingendoci a riflettere e a sentire se sono in sintonia con la nostra storia, con il nostro essere. La sua positività e importanza consiste eminentemente nel fatto che ci trattiene dall’essere impulsivi, che ci rende capaci di far precedere le nostre azioni da un momento riflessivo.

     Se è questa la sua importante funzione – quella di renderci più riflessivi –non è da escludere che il marcatore somatico – così come del resto il demone socratico – possa, in qualche caso, anche aver torto e indurci all’errore; potrebbe, ad esempio, trattenerci dal compiere qualcosa che sarebbe invece per noi importante realizzare. Il marcatore somatico potrebbe, cioè, svolgere una funzione conservatrice, essere espressione delle nostre remore, delle nostre paure, delle nostre affezioni infantili e inconsapevoli, e impedirci pertanto di pervenire a nuove possibilità d’essere.

     Quest’ultima ipotesi, piuttosto che essere una sconfessione, rafforza la nostra idea che l’importanza del marcatore somatico consiste nel fatto di rendere possibile il dialogo interiore. Essa ha, anche, il merito di mettere in risalto il compito precipuamente umano di aver Cura di sé, di decidere del proprio essere, di progettare consapevolmente la propria esistenza. Nella cura di sé di fondamentale importanza è in confronto con se stessi, con la propria storia. Osservare e ripensare il proprio passato è un compito che non può essere eluso se vogliamo dare una forma consapevole e matura alla nostra esistenza. Altrimenti si corre il rischio che il già stato venga a costituirsi come una potenza in grado di dominare la nostra vita. Certo non si tratta di disconoscere o negare la propria storia – in fondo noi siamo quel che siamo anche sul suo fondamento – ma di esserne consapevoli, di dare coerenza e senso ai frammenti sparsi e disordinati in cui spesso si risolve, e di trasformarla in tutti quegli aspetti che non sentiamo più egosintonici, che anzi, risultano di impedimento a nuove possibilità di essere.

     Il nostro sé autobiografico, del resto, non si definisce soltanto in base alla mera somma dei nostri ricordi: un ruolo decisivo è rappresentato dalla capacità di prefigurare le nostre esistenze. “Sono convinto che un aspetto chiave dell’evoluzione del sé abbia a che fare con l’equilibrio di due influenze: quella del passato che si è vissuto e quella del futuro che si prevede. Il significato della maturità personale è che i ricordi del futuro, previsti per un momento che potrebbe arrivare, hanno in ogni istante un grande peso nel sé autobiografico. I ricordi degli scenari che concepiamo come desideri obbiettivi e obblighi esercitano in ogni momento una pressione sul sé. Senza dubbio partecipano al rimodellamento conscio e inconscio del passato vissuto e alla creazione della persona che immaginiamo di essere, momento per momento” (Damasio, 2000, pag. 272).

     È in questo impegno di narrazione consapevole della nostra storia che risiede la possibilità di esercitare autenticamente la nostra facoltà di esseri liberi.

     Alla luce del modello di mente emergente nelle neuroscienze sembra che le nostre decisioni siano condizionate tanto da forze interne (neurali, genetiche, educative) quanto da forze esterne (culturali, ambientali, relazionali). Questo non significa, però a mio avviso, che la nostra vita sia determinata e che sfugga assolutamente alla nostra consapevolezza rendendo così vano ogni tentativo di darle una direzione, di impegnarci nel raggiungimento di mete e ideali.

     Per comprendere il fenomeno della libertà umana è necessario uscire dall’opposizione libertà/necessità, pure presente da tempo nella cultura occidentale. Considerare la libertà come un puro volere, senza condizionamenti di sorta, è proprio di chi la intende come espressione di una sostanza spirituale disincarnata dal corpo e dalla sua storia. Ma se non avessimo una storia, la libertà umana risulterebbe astratta e fantasmatica.

     Al contrario, chi intende il nostro agire come assolutamente necessitato, tradisce in fondo una posizione biologista.

     Il nostro agire, a mio avviso, non è né assolutamente libero, né assolutamente determinato. Dobbiamo imparare a considerare la libertà come un processo stocastico per cui ogni nuova forma dell’agire scaturisce a partire dai vincoli delle esperienze del passato. Come può vedersi, costruire una narrazione coerente del proprio passato non rappresenta un vezzo, un’oziosità psicologica od esistenziale, ma qualcosa per cui ne va della nostra individualità, della nostra presenza coerente e creativa nel mondo.

 

Considerazioni conclusive

     Nel nostro tempo il processo di costruzione del sé risulta essere maggiormente problematico. La società multimediale, caratterizzata da un flusso continuo e spasmodico di informazioni sollecita oltremodo la coscienza nucleare (più emozioni) e rende pressoché incerta la definizione della coscienza autobiografica (meno sentimenti). Quest’ultima può essere edificata soltanto nell’interazione fra il sé e l’ambiente (sociale), nel dialogo fra il mondo interno e il mondo esterno. Lo stato di continua eccitazione provocato dal profluvio di stimoli che caratterizza la società multimediale finisce col farci distogliere lo sguardo dalla nostra corporeità e interiorità. Le persone subiscono un’accelerazione del tempo interno, per cui risulta pressoché impossibile sostare presso di sé, interporre uno iato riflessivo fra sé e gli eventi, soffermarsi per poter inanellare le proprie esperienze in una trama di senso. Immersi in un mondo di stimoli accattivanti e seducenti, manchiamo di ricavare dalle nostre esperienze ed emozioni quel personale patrimonio di sentimenti necessario alla costruzione del nostro sé. Viene dunque ad essere quasi del tutto assente uno dei termini del dialogo – il mondo interno – e con esso vengono meno le condizioni per la costruzione autopoietica della propria individualità.

     Costretti , come dice Bauman, in un tempo puntillistico (Bauman, 2011) - un susseguirsi di attimi privi di qualsiasi legame – incapaci di rammemorare e di proiettarci nel futuro, manchiamo di mettere capo ad una narrazione coerente della nostra vita. Ne derivano una facile emozionalità e un sentimentalismo superficiale e stucchevole[5].

     Non ci si rende peraltro conto di quanto questo vivere sia esposto alla malattia, alla dissipazione e alla disperazione esistenziale. L’esito di un tale modo di vivere sarà, infatti, quello di un io sì dinamico e cangiante, ma di un io che mancherà di coesione e di stabilità perché assolutamente sprovvisto di un centro interiore. Un tale io vive solo nel momento, tende a perdersi nello stato d’animo, risolve la sua vita in una serie incoerente di episodi. Un tale io mancherà di originalità e, preoccupato di contrarre nell’arco temporale di una vita l’infinita possibilità dei piaceri possibili, si dissiperà nell’inautenticità di un’esistenza puramente mondana. Gratuità e vuoto ci cingono da ogni dove, e la tirannia del presente prende il definitivo sopravvento.

     Il nostro tempo, pertanto, non è soltanto il tempo in cui tutti gli dei sono ormai morti, ma anche quello in cui muoiono i demoni interiori– qualsiasi sia la loro origine o natura - e con loro la possibilità di prendersi cura di sé e di vivere una vita consapevole.

 

 

Bibliografia

Bauman, Z. (2011), Modernità liquida. Bari: Laterza.

Damasio, A.(1995), L’errore di Cartesio. Milano: Adelphi. 

Damasio, A. (2000), Emozione e coscienza. Milano: Adelphi.

Damasio A. (2012), Il sé viene alla mente. Milano: Adelphi.

Mannella, M. (2014), L’educazione del corpo mente. Cosa significa educare nella società postmoderna. Roma: Alpes.

Platone (1959), Apologia di Socrate. Editrice.

[*] Psicologo, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R.

[1] A tal proposito, vi è discrepanza fra la testimonianza di Platone e quella di Senofonte. Il demone platonico ha un carattere “negativo”, non sollecita mai a fare qualcosa; quello senofonteo ha, invece, un carattere “positivo”, quasi un oracolo interiore che indica cosa Socrate debba di volta in volta fare. Noi seguiremo l’interpretazione platonica.

[2] Socrate aveva rinunciato alla difesa legale

[3] La persona umana però per Cartesio presentava la particolarità che le due res fossero tra loro in contatto tramite la ghiandola pineale.

[4] Primordial feelings: il senso di esser vivi, di costituire un’individualità biologica. Provengono dal proto-sé, non sono consapevoli, presiedono al mantenimento dei parametri vitali fondamentali.

[5] Il profluvio di stimoli (in fondo di emozioni) che caratterizza la società multimediale sollecita pesantemente la coscienza nucleare. I vissuti emotivi non vengono però approfonditi, non danno origine ad autentici sentimenti perché a causa dell’accelerazione del tempo interno non si riesce a riflettere, ad approfondire il proprio sentire. Nel nostro tempo il nostro sé è praticamente costretto a fare centro intorno alla coscienza nucleare. (Mannella, 2014)

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