Numero 2/2023

DESIDERIO AMOROSO E COSTRUZIONE DEL SE' (2)

LOVE DESIRE AND SELF BUILDING (2)

 

Marcello Mannella[*]

 

 

 

 

Abstract

 

        La seconda parte di questo articolo sostiene il carattere individuale del desiderio amoroso e dell’identità di genere e sessuale e perviene al rifiuto delle pratiche discorsive che da sempre hanno dominato in Occidente. Il desiderio amoroso non può essere generalizzato. Non esistono un desiderio amoroso maschile e femminile, esiste soltanto il desiderio amoroso declinato e specificato nella infinita possibilità dei desideri amorosi individuali. Nel nostro tempo, sempre di più, si intende per identità sessuale la personale esperienza  amorosa.

Parole chiave

        Desiderio amoroso, sviluppo sessuale, identità di genere, sesso, orientamento sessuale, pratiche discorsive.

 

Abstract

 

        The second part of the article sustains the individual character of love desire, gender and sexual identity. Furthermore, it rejects the discursive practices that have always dominated in the West. Love desire cannot be generalized. There is no male or female desire, only the developed and specified love desire in the infinite possibilities of individual love desires. Increasingly, in our time, what we mean by sexual identity is each own personal love experience.

Key words

        Love desire, sexual development, gender identity, sex, sexual orientation, discursive practices.

 

 

Le forme del desiderio amoroso nella fase genito-oculare

 

Particolarità della fase genito-oculare

     La fase psicoanalitica fallico-genitale è suddivisa nel modello S.I.A.R. in una 1° fase genito-oculare – dalla erotizzazione genitale (intorno ai tre anni) fino alla pubertà - e in una 2° fase genito-oculare a partire dalla pubertà. (Ferri, 2012). Con tale denominazione si evidenzia il principale circuito energetico di questa fase, ovvero il circuito che irradia le zone genitale e oculare (7° e 1° livello). Questo significa che si è realizzata l’integrazione energetica e funzionale dei diversi distretti corporei e la bioenergia fluisce circolarmente dagli occhi[1] ai genitali.

     La 1° fase genito-oculare ha inizio con la luminazione[2] del bacino, poi degli occhi (durante la latenza), e si conclude con la pubertà .

     Dal punto di vista cerebrale tale fase segna la progressiva prevalenza della neocortex. Ancor più, dunque, che nella fase muscolare aumenta il campo di coscienza dell’io. Il bambino è ora capace di relazionarsi all’altro da sé nella chiara coscienza di essere un Io, aumenta la curiosità di conoscere il mondo, e la mente, inizialmente capace di operazioni di pensiero concrete, progressivamente acquisisce la capacità di operazioni logiche sempre più astratte e complesse.

     La S.I.A.R. considera la 1° fase genito-oculare una sorta di arcaico tentativo di pubertà che si rivela insufficiente a causa della complessità della specie umana. La bioenergia viene ad un certo momento stornata dai genitali verso gli occhi, cioè indirizzata allo sviluppo e alla definizione di funzioni cognitive sempre più alte e complesse perché la civiltà richiede agli individui l’assimilazione di elaborate competenze sociali e culturali.

     Con la fase genito-oculare il carattere relazionale del desiderio amoroso si manifesta in tutta la sua pienezza.

     Questo fatto è dovuto ad una serie di particolarità che la caratterizzano rendendola la più lunga e la più complessa. È con essa che assume progressivamente prevalenza funzionale la neocortex, che è il cervello che l’evoluzione ci ha fornito per orientarci nel mondo esterno, nell’ambiente naturale e sociale. Possiamo dunque parlare della neocortex – mi si passi la semplificazione – come una sorta di cervello estroverso. È in questa fase che lo sviluppo sessuale perviene alla capacità riproduttiva. È in questa fase che sviluppo sessuale e desiderio amoroso – entrambi rivolti alla ricerca dell’altro - che fin qui sembrano aver proceduto parallelamente, si fondono dando origine ad una molteplicità di identità di genere e di stili sessuali.

 

Attualità del complesso edipico

     La 1° fase genito-oculare ha inizio, come abbiamo detto, con l’erotizzazione dei genitali. Le forme del desiderio amoroso ruotano dunque intorno alle sensazioni di piacere dei genitali: scoperta e pratica della masturbazione, piacere per l’esibizione e la competizione fallica, ricerca del contatto genitale con l’altro.

     E qui incontriamo altre particolarità della fase genito-oculare che ancora di più rendono ragione della sua complessità.

     L’erotizzazione dei genitali comporta anche l’erotizzazione del rapporto con i genitori e si attiva la costellazione emotiva del complesso edipico. Il desiderio amoroso, che nelle precedenti fasi orale e muscolare si era manifestato nella stessa maniera nel bambino e nella bambina, prende ora strade diverse.     Bambini e bambine sono chiamati alla scelta della propria identità sessuale.

     Freud riconduceva la diversità delle forme del desiderio amoroso genitale e la genesi delle identità di genere maschile e femminile alle differenze anatomiche fra i sessi. Era proprio in questa fase infatti che, a suo parere, i bambini scoprivano la diversità sessuale e ne subivano un diverso trauma.

     Il bambino interpretava la mancanza del pene nella bambina come conseguenza di una mutilazione da parte del padre come punizione per i desideri edipici verso la madre. Il timore di subire la stessa punizione dal proprio padre, lo portava a rinunciare al desiderio incestuoso, che, escluso dalla coscienza, era confinato nell’inconscio. Il rapporto con la madre subiva un’idealizzazione e assumeva le fattezze dell’amore romantico, mentre l’interesse amoroso veniva rivolto verso le donne estranee alla cerchia familiare.

     Il bambino, ancora, si identificava con il padre, interiorizzava l’interdetto paterno dell’incesto e ne assumeva i valori morali (super io), compiva una scelta di genere maschile e attiva e assumeva un orientamento eterosessuale. La rinuncia all’amore per la madre era in fondo espressione di una scelta narcisistica: l’identificazione profonda fra sé e il proprio pene.

     È questa, in maniera semplificata, la descrizione di quello che Freud chiamava Edipo maschile positivo.

     Vediamo che cosa accadeva alla bambina.

     La scoperta della differenza anatomica fra i sessi comportava conseguenze molto più drammatiche. La bambina poteva pervenire alla definizione del proprio desiderio amoroso e della propria identità di genere dopo un travaglio molto più complicato e doloroso.

     Inizialmente, nella fase fallica, anche la bambina manteneva l’oggetto d’amore primario. La scoperta della mancanza del pene le provocava un’insanabile ferita narcisistica che la portava a realizzare la realtà della propria inferiorità organica e a sviluppare l’invidia del pene. Se fino a quel momento aveva rivolto il suo amore verso la madre, ora, ritenendola responsabile della propria inferiorità, e giudicandola come sé inferiore, rivolgeva le sue attenzioni verso il padre, desiderando da lui un figlio, equivalente simbolico del pene.

     Questo spostamento dell’oggetto d’amore, comportava, altresì, sul piano delle zone erogene, un’importante conseguenza: rimuovendo la protesta virile, l’eccitazione non investiva più la clitoride ma la vagina; la bambina si identificava con la madre, rinunciava all’attività e perveniva alla sua “naturale” identità passivo-femminile.

     Questo secondo Freud, in grandi linee, l’esito positivo del complesso edipico femminile e dello sviluppo psicosessuale femminile.

     Il complesso edipico per Freud svolgeva una funzione psicologica fondamentale al punto da arrivare a sostenere che la sua mancata risoluzione costituisse il nucleo centrale di ogni nevrosi.

     Ma oggi che viviamo in una società radicalmente diversa, una società che ha attraversato profonde rivoluzioni culturali (ad esempio quella giovanile e delle donne) che hanno radicalmente modificato il rapporto fra i sessi, la forma della famiglia, i comportamenti sessuali e gli stili di vita, il complesso edipico conserva ancora la sua centralità? Lo dobbiamo considerare un retaggio del passato, espressione dell’organizzazione psichica di una determinata società, oppure, seppure in forma diversa, continua a rivestire una funzione importante nella vita psichica degli individui?

Una prima considerazione sul piano clinico.

Esso non costituisce più il nucleo fondamentale delle nevrosi. Le nevrosi hanno oggi una diversa eziologia. Non sono più, come al tempo di Freud, conseguenza di un eccesso di normatività che coartava la vitalità e il desiderio amoroso dei bambini. La società del tempo di Freud era una società fortemente improntata dall’autoritarismo delle istituzioni e della famiglia.

La famiglia ruotava intorno al prestigio e all’autorità indiscussa del padre che esercitava un forte controllo su tutti i suoi membri. In un tale contesto familiare il complesso edipico aveva un ruolo centrale. Il confronto con il padre – severo e autoritario - era l’ultimo e necessario atto che il bambino doveva affrontare per imboccare la strada dell’autonomia e della maturità psicologica.    Un padre eccessivamente severo o addirittura castrante poteva inibire il movimento vitale del figlio, determinando la realtà di strutture caratteriali rigide, trattenute, reattive, che facilmente potevano esitare in affezioni cliniche prodotte da un eccesso di impressioni determinanti di 2° campo (nevrosi d’angoscia, nevrosi ossessive, fobie, isterie).

Al giorno d’oggi le affezioni nevrotiche sono di diverso tipo, prodotte da difetto di impressioni determinanti di 2° campo, oppure da eccesso o difetto di impressioni determinanti di 1° campo. Le sindromi nevrotiche sono espressione oltre soglia di tratti caratteriali premuscolari, fino ad avvicinarci pericolosamente alle sindromi da rarefazione borderline. (Ferri, 2/2016).

Le affezioni mentali sono diverse perché diversi sono i caratteri della odierna famiglia. Mentre nel passato la famiglia era intenta a far interiorizzare ai figli le norme del vivere sociale, oggi registriamo la difficoltà dei genitori a spostarsi da un atteggiamento affettivo ad uno normativo e, come conseguenza, allo stazionare dei figli in una posizione di protratta dipendenza.

 La mancanza di autonomia e di maturità dei figli non dipende più, allora, dalla realtà di un padre castrante che ne blocca il movimento di crescita, ma piuttosto dalla deficienza della funzione normativa. I figli in genere non superano lo stadio della dipendenza orale e, dunque, sempre ammesso che ne esistano ancora, non possono incontrare i padri, non possono confrontarsi e sostenere davanti a essi la legittimità di un’autonomia che non hanno mai neppure cominciato a costruire. È evidente allora che il complesso edipico non solo non rappresenta più il nucleo centrale di ogni nevrosi, ma non occupa più neanche un posto privilegiato nell’economia psichica della attuale famiglia. Esso è oggi decentrato.

     Oltre che decentrato, il complesso edipico risulta anche depotenziato.

     Se nel passato infatti marcava l’asimmetria dei ruoli fra genitori e figli, oggi è sempre più difficile incontrare dei genitori in grado di incarnare e sostenere quella posizione.

     Se proprio ne volessimo rintracciare i suoi possibili effetti dovremmo considerare piuttosto quanto facilmente la costellazione edipica possa oggi dare luogo a manifestazioni seduttive/incestuose.

     Questo, sia perché la società del consumo è ammalata di giovanilismo e i mass media promuovono stili di vita improntati alla spensieratezza e alla sensualità giovanile, sia perché i genitori - infantili e immaturi - nel disperato bisogno di sentirsi giovani e persa la coscienza della differenza anagrafica e mentale, si relazionano simmetricamente coi loro figli, scivolando facilmente in infatuazioni e innamoramenti. Anche i figli, del resto, stimolati dalla società dei consumi, consapevoli di possedere la merce - tanto preziosa nel nostro tempo - della gioventù, tendono ad assumere una condotta di vita precocemente adulta e ad esprimere la bellezza dei loro giovani corpi in atteggiamenti seduttivi e di potere nei confronti tanto dei coetanei che degli adulti.

     Il complesso edipico sembra non essere oggi neanche più dirimente e determinante per quanto riguarda la definizione dell’identità sessuale tradizionalmente intesa secondo i codici binari maschile/femminile, etero/omosessuale. Pur consapevole dell’esistenza dell’Edipo negativo o rovesciato – l’identificazione dei figli con i genitori di sesso opposto e la conseguente scelta omosessuale – Freud giudicava, non senza incertezze e ambiguità, che l’esito legittimo del complesso edipico fosse quello positivo.

     Egli riteneva infatti che la maturità psicosessuale potesse essere raggiunta soltanto qualora i bambini avessero rinunciato alle identificazioni primarie e scelto l’identificazione con i genitori dello stesso sesso. Soltanto così il complesso di edipo era positivamente e realmente superato.

     Oggi la scelta dell’identità sessuale per i giovani è meno scontata e più complessa.

     La rivoluzione culturale degli anni ’60 ha determinato un radicale mutamento dei costumi e dei comportamenti.

     Abbiamo già evidenziato che nella fase orale la funzione di caregiver non è più svolta esclusivamente dalle madri e che i padri istaurano relazioni precoci con i loro figli; così come abbiamo sottolineato l’attuale varietà delle forme familiari, non ultima, la realtà delle famiglie arcobaleno. Gli oggetti d’amore e le identificazioni primarie sono oggi molteplici e diversi.

     Il rapporto fra i sessi è progressivamente diventato più paritario e il ruolo della donna non è più quello di angelo del focolare. La disparità di potere dei sessi è oggi notevolmente ridotta. È consueto in tante famiglie che sia la madre ad avere un ruolo socialmente più importante e guadagnare di più. I mass media del resto propongono un modello di donna di successo, affermativo, aggressivo, capace di reggere la competizione fallica con l’uomo[3].

     Perché mai i figli, allora, dovrebbero abbandonare gli oggetti d’amore le identificazioni primarie in favore di quelle secondarie?

     Perché mai le bambine dovrebbero necessariamente sviluppare l’invidia del pene, quando il pene non rappresenta più quella connotazione anatomica che, carica di significati simbolici, giustifica il diverso potere fra i sessi? Non può darsi il caso che siano i bambini a sviluppare l’“invidia della vagina”, o, quantomeno, a non dover necessariamente disdegnare l’identificazione con la madre?

     Ma, se il complesso edipico è nel nostro tempo decentrato e depotenziato, e se l’erotizzazione genitale comporta di fatto l’erotizzazione del rapporto con i genitori e gli altri familiari, in assenza del padre, di colui cioè che esercitava la Legge e imponeva il divieto, come potranno i figli venir fuori dalla fascinazione del rapporto incestuoso? Chi e cosa potrà distoglierli dagli oggetti d’amore infantili e far in modo che il loro desiderio amoroso diventi esogamico, cioè rivolto verso le persone estranee alla famiglia?

     Non dimentichiamo che il tabù dell’incesto si configura come quella legge universale che ha consentito all’umanità di uscire da una condizione puramente naturale e di inaugurare una condizione di esistenza sociale.

     È stato Lévi-Strauss a mostrare che il divieto dell’incesto rappresenta quella struttura elementare della parentela (Lévi-Strauss, 2003) che ha consentito all’umanità quel salto evolutivo. Il tabù dell’incesto è la proibizione dell'endogamia – l’interdizione dei rapporti sessuali all’interno del nucleo familiare - e la promozione dell’esogamia, che ha lo scopo di favorire l’incontro fra nuclei familiari diversi rafforzando la solidarietà sociale.

     A livello psicologico, questo significa che i figli, per entrare nell’età adulta ed essere in grado di cimentarsi con quel mondo meno protettivo e più complesso che è il mondo sociale, devono rivolgere il loro desiderio amoroso all’esterno della famiglia. Ma, appunto, in assenza del padre potente e autoritario della società solida che esercitava la minaccia dell’evirazione, come è possibile per i figli abbandonare la condizione infantile rivolgendo il loro desiderio amoroso nel mondo sociale?

     Proviamo a rispondere al problema esplorando nuove strade.

     Un aiuto può venirci dal nostro Reich che, come sappiamo, ha criticato radicalmente i costumi sessuofobici della società del suo tempo e non ha lesinato critiche neanche alla concezione psicoanalitica della sessualità. In particolare, Reich ha criticato l’assunto freudiano della necessità della repressione, in qualche misura, della pulsione sessuale affinché potesse sorgere la civiltà. (Freud, 2010).

     Reich era convinto che potesse darsi la realtà di un’organizzazione sociale in cui la liberalità dei costumi sessuali si potesse coniugare con una positiva e collaborativa atmosfera sociale, e aveva trovato un importante supporto alle sue tesi nelle ricerche etnologiche di Malinovski, in particolare nell’opera Sesso e repressione tra i selvaggi (Malinovski, 2000) nella quale venivano studiati i costumi sessuali di una popolazione della Melanesia, il popolo Trobriandese. In quella società la vita sessuale dei bambini era libera e gli adulti mostravano verso di essa un atteggiamento di piena accettazione. Ciò gli permetteva di criticare la posizione di quanti, anche psicoanalisti, sostenevano che l’espressione della sessualità infantile poteva comportare l’insorgere di forme di perversione. (Mannella, 2014).

     Nel 1932 Reich pubblicava L’irruzione della morale sessuale coercitiva (Reich, 1996) in cui non si limitava ad accogliere le importanti ricerche di Malinovski, ma attraverso un lavoro di commento, interpretazione e rimando, confrontava quel mondo sociale con il proprio, e poteva allora affermare che “la miseria sessuale nella società autoritaria-patriarcale è conseguenza dell’atteggiamento sessuo-negativo e repressivo connaturato con essa, che anzitutto è causa di ingorgo sessuale in tutti gli individui che vi sono sottomessi e, per questa via, di nevrosi, perversioni e delitti sessuali” (ibidem, p.34). I risultati di questa opera confluiranno Ne La rivoluzione sessuale (Reich, 1975) che ha rappresentato il manifesto della libertà sessuale per i giovani degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso.

     Fra i tanti spunti di riflessione che l’opera di Malinovski gli aveva suggerito, possiamo annoverare – cosa che riguarda da vicino la nostra riflessione – la messa in discussione della portata e della “consistenza” del problema dell’incesto.

     I costumi sessuali liberi di quella società suggerivano a Reich che il divieto d’incesto nella nostra società avesse una sopravvalenza economico-dinamica a causa della generale limitazione della libertà sessuale.

     “Ogni giovinetto trobriandese sa di non poter guardare alla propria sorella come a soggetto sessuale […]. Se la vita sessuale fosse altrimenti vietata, il suo desiderio d’incesto, per il contatto locale e familiare con la sorella, si accrescerebbe subito a tale intensità da rendere necessaria una profonda repressione dell’appetito che dovrebbe allora ricercare una soluzione morbosa”. (Reich, 1996, pp. 38/9).

     Nella nostra società, dunque, il complesso edipico e il tabù dell’incesto ricevevano una sopravvalutazione dal generale clima di repressione della sessualità infantile e giovanile. Di più, a suo dire, la sopravvalutazione dell’incesto era determinata anche, dall’insoddisfazione sessuale degli adulti, che connotava in senso affettivo-incestuoso la relazione con i figli.

    Se è vero quello che ci suggerisce Reich, il fatto cioè che il complesso edipico e il divieto dell’incesto aumentano la loro consistenza e la loro portata  a causa della generale inibizione della sessualità e vitalità dei bambini e dei giovani, allora possiamo pensare che, in un contesto sociale e culturale di autentica accettazione della sessualità, il superamento del complesso edipico e del desiderio incestuoso non richieda più la minaccia dell’evirazione da parte di un padre onnipotente e castrante, ma possa accadere attraverso un’attenta e autentica azione pedagogica da parte dei genitori.

     Che tristezza, del resto pensare che l’accettazione delle regole sociali – del super io – possa accadere soltanto sotto la minaccia di una terribile punizione!!! In tal caso, ci troveremmo di fronte ad un assurdo e spiacevole paradosso: agli inizi della vita morale vi sarebbe una minaccia, un gesto violento. L’individuo acquisirebbe una coscienza morale non per l’accettazione e la comprensione sempre più consapevole del valore umano delle regole e per libera e consapevole scelta, ma per paura.

     Un tal modo di accompagnare i figli nel processo di uscita edipica è una modalità nevrotica, espressione di una società fondata sull’autorità irrazionale e indiscussa del padre, che concepisce l’educazione in termini di imposizione violenta ai figli della propria volontà. Gli effetti sul piano caratteriale non possono che essere deleteri. I figli non pervengono alla maturità e le loro personalità saranno soltanto nevroticamente coese. Nel migliore dei casi si assiste alla definizione di personalità parziali, rigide, egocentriche, incapaci comunque, di dare una direzione personale e creativa alla propria vita.

     Un’aggressività più o meno rimossa, più o meno mascherata, continuerebbe a caratterizzare non solo il rapporto con il padre, ma anche quello con gli altri membri familiari e le relazioni sociali. Parimenti il desiderio incestuoso, anch’esso più o meno rimosso, più o meno velato, continuerebbe ad essere attivo e a connotare profondamente il desiderio amoroso dei figli.

     Occorre pertanto un diverso atteggiamento pedagogico. Occorre un approccio pedagogico attento, consapevole, informato all’affettività, rivolto al benessere dei figli e non piuttosto alla difesa strenua e narcisistica delle proprie prerogative di potere[4]

     I genitori di fronte al desiderio amoroso incestuoso dei figli devono assumere un atteggiamento di giusta distanza. Devono intanto comprendere che l’interesse amoroso edipico dei figli è espressione della loro crescita e vitalità e non restarne sorpresi o imbarazzati.  Ma soprattutto non devono né reprimere o punire minacciosamente quelle manifestazioni, né consentire ai figli di indugiarvi. Con maestria pedagogica devono far loro capire che quell’esperienza affettiva e di piacere non può essere condivisa con i genitori, che è qualcosa che è legittimo e importante vivere e sperimentare al di fuori del contesto familiare. È evidente che ciò richiede la realtà di genitori consapevoli e maturi.

 

Il carattere individuale delle forme del desiderio amoroso della fase genito-oculare

     A Freud è stato imputato di aver declinato al maschile lo sviluppo psicosessuale umano e la psicoanalisi pertanto è stata tacciata di sessismo.

     Ma è propriamente così? La descrizione al maschile dello sviluppo psicosessuale umano è soltanto il frutto dei condizionamenti culturali del tempo, oppure Freud si è imbattuto in qualcosa di strutturale, in un profondo segno inciso della nostra cultura?

     Non può darsi l’ipotesi che egli abbia semplicemente fatto emergere un dato fino allora nascosto, il fatto cioè che da sempre in Occidente ha dominato una cultura patriarcale e maschilista e che della qual cosa – supposto che sia mai possibile – stentiamo ancora oggi di venirne a capo?

     Nel suo affascinante saggio L’identità sessuale dai greci a Freud, (Laqueur, 1992) Laqueur ha mostrato come nella cultura occidentale – nella cultura greca e latina, nel mondo medievale e moderno, fino ai nostri giorni – abbiano sempre dominato modelli maschili di sviluppo sessuale, e come essi, a partire dalla percezione della differenza dei corpi, abbiano giustificato la superiorità sociale di un genere (quello maschile) sull’altro. Alla luce dell’indagine storica condotta da Laqueur, appare chiaro che i discorsi sul sesso e sul genere in Occidente abbiano sempre avuto un carattere eminentemente politico.

IMG 2 parte MANNELLA

     Desterà meraviglia scoprire che il fatto per noi scontato che l’umanità si componga di uomini e di donne, è una convinzione culturale relativamente recente. Nel mondo antico, greco e latino, in età medioevale e moderna, ha dominato, infatti, un discorso di genere che si è organizzato intorno al paradigma del corpo monosessuale maschile. ll corpo femminile non era considerato di specie diversa, ma rappresentava la versione rovesciata e imperfetta di quello maschile. Uomini e donne avevano un unico sesso – gli stessi genitali – che si realizzava in due diverse generi. Il genere femminile era dato dal fatto che l’insufficiente calore del corpo femminile (dunque della loro imperfezione) impediva ai genitali di manifestarsi all’esterno del corpo, come invece accadeva agli uomini (Busoni, 2000).

     Nei manuali di medicina, anatomia, ginecologia, la vagina e l’utero erano rappresentati come il pene e lo scroto rovesciati, rivolti verso l’interno. Per Aristotele, il maggiore scienziato dell’antichità, non esistevano funzioni fisiologiche specificamente femminili. Le mestruazioni accadevano per espellere l’eccedenza delle sostanze nutritive causata dal freddo del corpo femminile e avevano l’equivalente maschile nelle scariche emorroidali e nelle emorragie nasali. Era addirittura possibile rintracciare nel corpo maschile la funzione della lattazione: dopo la pubertà, mungendoli sistematicamente anche gli uomini possono produrre un po’ di latte. Il filosofo differenziava il genere maschile da quello femminile non in riferimento alle caratteristiche anatomiche, ma in base alle loro differenze spirituali. I maschi incarnavano il principio attivo spirituale, le femmine il principio della passività materiale.

     La donna era un uomo mancato (come si può vedere Aristotele aveva anticipato Freud) in quanto il freddo del suo corpo, come conseguenza della sua imperfezione spirituale, non permetteva al sangue mestruale di trasformarsi in sperma. Era la forza spirituale dello sperma maschile a risvegliare nel processo del concepimento la materia femminile e a permettere che il sangue mestruale si trasformasse nel nutrimento necessario allo sviluppo dell’embrione umano.

     Ed era proprio la presunta superiorità spirituale a giustificare il predominio sociale dell’uomo: solo a lui, in quanto capace di autodominio e di misura, toccavano i ruoli di attività di governo, mentre la donna ne era esclusa a causa della sua costitutiva imperfezione che comportava il prevalere del disordine istintuale e, pertanto, l’impossibilità di ogni assunzione di responsabilità sociale.

     La dominanza del paradigma del corpo monosessuale maschile è testimoniata dai testi scientifici. Non esistevano termini specifici per gli organi del corpo femminile: le ovaie erano indicate con il nome di testicoli; fino al ‘700 mancava un termine tecnico per indicare la vagina e non si aveva nessuna rappresentazione dello scheletro femminile.

     Ciò che più stupisce è che questa ignoranza del corpo femminile non può essere imputata ad una forma di sapere puramente speculativa, ma nasceva invece da una pratica scientifica empirica. La dissezione dei cadaveri era sicuramente praticata in età ellenistica, così come in età moderna; eppure per gli anatomisti il corpo era esclusivamente maschile.

     Ancora più sorprendente è il fatto che, improvvisamente, intorno alla metà del ‘700, si affermi un nuovo paradigma del corpo umano improntato ora ad un radicale dimorfismo. Accadde, insomma, in quel periodo, ciò che Kuhn (Kuhn, 1970) ha definito una rottura rivoluzionaria e si assiste, pertanto, all’emergere di una nuova organizzazione gestaltica della percezione. Pur guardando nella stessa direzione, gli scienziati vedono qualcosa di completamente diverso: dove prima percepivano identità ora vedono differenze.

     Il vecchio modello del corpo monosessuale viene pertanto abbandonato, al suo posto subentra quello del corpo bisessuale e si afferma la convinzione del loro radicale dimorfismo. L’anatomia e la fisiologia maschile e femminile cominciarono ad essere rappresentate come assolutamente opposte.

     È significativo che parallelamente all’affermazione del nuovo paradigma, nei trattati scientifici si cominci a sottacere dell’orgasmo femminile. Mentre ancora nel ‘600 le ostetriche erano prodighe di consigli alle donne per raggiungere il piacere e favorire così il concepimento, fra il ‘700 e l’ ‘800 questa convinzione fu lasciata cadere. E se nel vecchio paradigma la natura imperfetta della donna comportava anche il disordine dei suoi istinti, nel nuovo paradigma la donna ora diventava un essere a-passionale e l’orgasmo era considerato prerogativa esclusiva degli uomini.

     Anche nel nuovo modello, alle differenze dei corpi corrispondevano specularmente le differenze dei loro caratteri e da queste si facevano poi discendere i diversi ruoli sociali. Gli uomini, per attitudine naturale erano dinamici, attivi, rivolti a competere e imporsi nel mondo sociale, le donne invece erano naturalmente rivolte alla cura della prole, al governo delle faccende domestiche.

     Stupisce ancora, come sottolinea Laqueur, che l’affermazione del nuovo paradigma accada nonostante proprio in quel tempo si verificasse l’importante scoperta scientifica dei foglietti embrionali che affermava la differenziazione dei sessi da un embrione morfologicamente androgino e che sembrava pertanto confermare l’antico modello del corpo monosessuale.

     Da questa breve disamina storica si evincono due importanti considerazioni. La prima è che le realtà del sesso e del genere non possono accampare nessuna naturalità: nel vecchio modello il sesso era uno e i generi due, nel nuovo i sessi sono due quanti sono i generi. Ciò attesta che “la storia della rappresentazione delle differenze anatomiche tra uomo e donna è dunque straordinariamente indipendente dalle strutture effettive di questi organi, e anche da ciò che di essi si sapeva. Era l’ideologia e non la precisione delle osservazioni, a determinare in qual modo venivano visti, e quali differenze contavano e quali no”. (ibidem, p. 117). La seconda è che ogni discorso di genere, almeno in Occidente, ha sempre comportato una diseguale distribuzione del potere.

     Negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli sforzi critici volti a decostruire le pratiche discorsive sul sesso e sul genere.

     Momento decisivo di tale riflessione è rappresentato dall’opera di Foucault. Una delle direzioni più importanti della sua attività di ricerca è stata quella di portare alla luce le strutture epistemiche che in una determinata epoca demarcano lo spazio concettuale entro il quale soltanto è possibile pensare[5]. Il sapere, per Foucault, è infatti portatore di potere, e in quanto tale, attraverso strategie di esclusione e interdizione, impedisce la libera proliferazione dei discorsi[6]. (Foucault, 2001).

     Nella concezione di Foucault, però, il potere è soprattutto una forza positiva e produttiva; non in quanto apportatore di verità, ma, perché produce effetti di verità, cioè produce le regole attraverso cui possiamo stabilire e distinguere il vero di contro al falso. E allora, piuttosto che opprimere gli individui il potere, attraverso le pratiche dei saperi disciplinari, li costituisce dall’interno determinando le forme della soggettività.

     Fra le strutture epistemiche che hanno sicuramente dominato e dominano ancora in Occidente, Foucault individua il dispositivo di sessualità. Nella sua La volontà di sapere. Storia della sessualità egli non si impegna a ricostruire la storia delle pratiche sessuali in Occidente, né a darne una definizione nei termini di autenticità e sanità, ma piuttosto esercita un’azione di scavo volta a portare alla luce l’insieme delle pratiche che sono state approntate per controllare e assoggettare i corpi degli uomini.

     La sessualità per il filosofo è quel sapere che trasponendo il sesso in discorso ne definisce la verità e conseguentemente attua strategie di esclusione verso tutto ciò che non è con essa congruente, ponendolo nello spazio dell’abietto e dell’illecito. Il dispositivo di sessualità, allora, piuttosto che negare il desiderio, produce il desiderio e i suoi oggetti e insieme produce la soggettività che desidera il desiderio. Il sesso, dunque, piuttosto che essere represso, è stato al centro di una vera e propria esplosione discorsiva attraverso un’incitazione regolata e polimorfa a discuterne, a studiarlo, a osservarlo.

     È evidente la distanza che separa Foucault dall’ipotesi repressiva del potere di Freud, Reich e Marcuse. In un articolo del 1975, egli confessava le difficoltà incontrate nel tentativo di scrivere una storia della sessualità nei termini della sua repressione e interdizione: “in realtà, il motivo per cui non trovavo i documenti, era probabilmente perché questi documenti semplicemente non esistevano, vale a dire che ciò che stavo cercando non poteva essere decodificato come l’insieme dei meccanismi che chiamiamo repressione”. (Foucault, Aut aut, 2016).

     Con ciò egli non ha inteso affermare che la repressione della sessualità non sia mai esistita, ma che ha rappresentato soltanto una strategia secondaria nell’ottica del controllo e della disciplina dei corpi.

     Foucault riconosce a Reich l’importanza storica della sua critica alla società sessuorepressiva. “Il valore di questa critica e dei suoi effetti nella realtà è stato considerevole. Ma la possibilità stessa del suo successo era legata al fatto che si dispiegava sempre all’interno del dispositivo di sessualità e non al di fuori o contro di esso. Il fatto che tante cose siano potute cambiare nel comportamento sessuale delle società occidentali senza che sia stata realizzata nessuna delle promesse o condizioni politiche che Reich vi legava è sufficiente a provare che tutta questa ‘rivoluzione’ del sesso, tutta questa lotta ‘antirepressiva’ non rappresentava niente di più, ma anche niente di meno - ed era già molto importante - di uno spostamento ed un capovolgimento tattici nel grande dispositivo di sessualità. Ma si capisce anche perché non si poteva chiedere a questa critica di essere la griglia di lettura per una storia di questo stesso dispositivo. Né il principio di un movimento per smantellarlo”. (Foucault, 2001).

     È stata proprio la riflessione di Foucault a stimolare la riflessione critica che a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso ha messo in discussione il paradigma del binarismo di genere.

     Già negli anni ’60 il movimento femminista aveva contestato la credenza del carattere naturale dell’essere uomo o donna. L’essere donna non era la conseguenza della configurazione anatomica del suo corpo; “donna non si nasce” aveva dichiarato De Beavour nel Secondo sesso. (De Beavour, 2008). L’essere donna era piuttosto il risultato delle pratiche discorsive nei diversi contesti culturali e sociali.

     Il femminismo storico, però, pur rifiutando l’affermazione della realtà naturale dei generi, si muoveva ancora nell’orizzonte di pensiero del paradigma eterosessuale, considerandolo fondato sulla natura sessuata del corpo. Il femminismo degli anni ’80 è pervenuto invece a mettere in discussione anche la stabilità sessuale dei corpi.

     Questo intento programmatico ha permesso la costituzione di uno spazio critico comune in cui è confluita la riflessione dei movimenti di liberazione della donna, dei gay, delle lesbiche, dei transgender, di quanti cioè si avvertono eccentrici rispetto alla pratica normativa del binarismo di genere. È così che hanno avuto origine i cosiddetti queer studies[7].

     Il loro sforzo critico è stato rivolto non solo a mostrare il carattere culturale, performativo[8], del genere, ma anche a smascherare la pratica discorsiva che crea l’illusione che il corpo sia naturalmente sessuato secondo il codice binario maschile/femminile.

     I queer studies non considerano più il genere la proiezione culturale di un dato biologico, ma piuttosto una costruzione discorsiva che produce la percezione culturale che il corpo si specifichi, sulla base della diversa configurazione anatomica degli organi sessuali, in due generi distinti. Per i queer studies, dunque, non soltanto il genere, ma anche il sesso è socialmente costruito.

     “Il genere non dovrebbe essere concepito semplicemente come l’iscrizione culturale di significato su un sesso dato in precedenza […]. Il genere non sta dunque alla cultura come il sesso sta alla natura; il genere è anche il mezzo discorsivo/culturale attraverso il quale la ‘natura sessuata’ o ‘un sesso naturale’ vengono prodotti o creati come ‘prediscorsivi’, come precedenti alla cultura, come superficie politicamente neutra su cui la cultura agisce” (Butler, 2004, p. 11).

     Il concetto è semplice, ma ostico da comprendere e da accettare in quanto rovescia una convinzione profondamente radicata nella coscienza culturale occidentale: la realtà naturale sessuata del corpo umano[9] che precede e fonda la realtà binaria del genere. Secondo l’ipotesi queer non è il sesso a precedere il genere, ma il genere a costituire l’antecedente del sesso.

     Gli studi antropologici sembrano corroborare tale punto di vista. 

     Secondo Busoni “la relazione tra sesso e genere dev’essere completamente riconsiderata. L’ipotesi che il sesso sia l’antecedente fondativo del genere non tiene più, e dato che la corrispondenza tra sessi e generi quale si riscontra nelle società umane è troppo frequente perché sia dovuta al caso, anche l’ipotesi che non ci sia una relazione deve essere scartata. La corrispondenza di fatto esiste – c’è una correlazione effettiva. Ma essa è tale per cui è il genere che precede il sesso: i due sessi sono il risultato di un’ottica di genere. Il sesso è l’epifenomeno, mentre il genere è primario”. (Busoni M., 2000. p.56.)

     “Non soltanto allora sesso e genere sono indipendenti, nel senso che la relazione che li unisce non è né fissa né necessaria, è diversa nelle diverse culture (il corsivo è mio), ma ciò che viene determinato dal sesso non è la natura a dirlo, è la società” (ibidem, p. 56).

     Rifiutata la rappresentazione sessuale binaria del corpo e del genere, i queer studies sono pervenuti a sostenere una posizione transgender. Il concetto di transgender non rimanda né ad un sesso, né ad un genere, né a una sessualità. È un collocarsi oltre ogni discorso normativo, oltre ogni definizione rigida e statica della sessualità e del desiderio amoroso.

     Per i queer studies, fintanto che continueremo a credere nell’esistenza del genere e in un corpo naturalmente sessuato non sarà mai possibile venir fuori dalla logica di potere che ha fin qui caratterizzato i rapporti fra gli individui. (Per inciso, se i corpi fossero naturalmente sessuati secondo il codice binario maschile/femminile, come dovremmo intendere la realtà corporea dei tanti individui[10] che nascono con caratteri intersessuali, nascosti o evidenti? Come delle anomalie biologiche? Come dei Frankenstein sessuali? E come dovremmo regolarci? Saremmo autorizzati a riassegnargli chirurgicamente dalla nascita un sesso più confacente alla “natura”?[11]).

     Ancora, fintanto che continueremo a credere nell’esistenza del genere e in un corpo naturalmente sessuato non sarà mai possibile venir fuori dalle pastoie della descrizione maschile del desiderio amoroso, non sarà mai possibile – qualora sia mai esistito o possa mai esistere al di fuori delle nostre costruzioni culturali – individuare il desiderio amoroso femminile. I desideri amorosi maschile e femminile sono dei costrutti mentali che si implicano e si richiamano. L’uno non può esistere senza l’altro, ma soprattutto l’uno esiste - ed è sempre esistito – solamente in quanto negativo dell’altro. Il desiderio amoroso femminile in Occidente non ha – non ha mai avuto - un’esistenza autonoma, è sempre stato soltanto l’immagine speculare negativa del desiderio amoroso maschile. Il desiderio amoroso femminile non ha altra possibilità di esistenza.

     Personalmente credo che la classificazione schematica dell’umanità nei sessi e nei generi maschile e femminile presente in tante culture sia nata dalla necessità di rispondere alle difficili condizioni di vita di un’umanità agli inizi della sua storia attraverso la logica operativa della divisione del lavoro. Parimenti credo che oggi siano mutate le condizioni sociali e culturali dell’umanità e che si sia nella necessità di superare quel pensiero lineare e binario - incapace di reggere l’incertezza e di cogliere le sfumature cromatiche della realtà – in quanto non più rispondente ai caratteri complessi delle odierne culture umane. Il nostro tempo richiede un pensiero complesso.

     Non è dunque un caso che oggi stiamo vivendo una profonda rivoluzione concettuale rispetto ai corpi e al sesso. Al posto del dimorfismo sessuale si propone il nuovo modello del continuismo sessuale e si considera che “l’umanità si compone di una mescolanza ininterrotta di identità sessuali, che sfugge a qualsiasi classificazione semplicistica in maschile e femminile”. (Rothblatt, 1997, p. 94).

     Si guardano diversamente i corpi maschile e femminile e ci si sorprende a considerare che nonostante essi presentino soprattutto elementi di similarità – cromosomica, ormonale, neurofisiologica, anatomica[12] -  siano invece percepiti come assolutamente opposti.

     Fino ad oggi il desiderio amoroso è stato generalizzato, cioè costretto e compreso nei concetti di sesso e genere maschile e femminile. I tre termini sono stati assimilati. Il desiderio amoroso ha perso così la sua autonomia e il suo carattere individuale.

     La consapevolezza che oggi si fa strada è che il desiderio amoroso non debba essere generalizzato ma debba, piuttosto, essere inteso come un concetto di specie infima. Nella logica aristotelica ciò che è di specie infima ha il massimo di specificazioni e il minimo di estensione e, in quanto tale, riguarda una singola sostanza, un singolo individuo.

     Non esistono un desiderio amoroso maschile e femminile, esiste soltanto il desiderio amoroso declinato e specificato nella infinita possibilità dei desideri amorosi individuali.

     Il nostro tempo ci richiama alla responsabilità di un pensare radicale. Pensare in maniera radicale, significa riconoscere che sesso e genere costituiscono un binomio indissolubile, significa avere il coraggio di congedarci tanto dall’uno che dall’altro. Che cosa rimane a quel punto? Rimane la realtà dei singoli individui che sono a prescindere dalla classificazione in un sesso e in un genere. Resta il desiderio amoroso degli individui - il loro modo di amare, di dare e di ricevere piacere – che non può essere costretto nel modo di amare, di dare e ricevere piacere, della logica del genere.

     Nel nostro tempo, sempre di più, si intende per identità sessuale la personale esperienza amorosa. Come sostiene Lingiardi, “per comprendere come amano gli uomini e le donne è necessario comprendere come amano ciascun uomo e ciascuna donna particolari. Per capire la femminilità e la maschilità - le varie forme di sessualità - è necessario capire in che modo ciascuna donna e ciascun uomo particolari si creano il proprio genere e la propria sessualità culturali e personali”. (AA.VV, 2004).

     Riteniamo che un desiderio amoroso adulto (2° genito-oculare) non segni pertanto come aveva sostenuto Freud il primato della genitalità eterosessuale. La capacità di amare adulta è la capacità di esprimere creativamente la complessità del proprio desiderio amoroso, di soffermarsi e dare spazio alle sue diverse forme attraverso un gioco/alternanza di prevalenze.

     Riteniamo, soprattutto, che un desiderio amoroso adulto – indipendentemente dalla forma in cui si realizzerà l’esperienza del piacere – si caratterizzi per la raggiunta capacità di incontrare autenticamente l’altro, di implicarsi nella relazione amorosa[13], di vivere un’esperienza di coinvolgimento, di abbandono, di fiduciosa apertura.

     È un lasciar essere l’altro così com’è, per quello che è, e non per quello che potrebbe rappresentare per me, per miei bisogni. È un desiderare l’altro per le aspettative di piacere che scaturiscono dall’incontro con la sua individualità e unicità. Meglio, è l’incontro di due individualità. Così il desiderio amoroso si realizza, per così dire, al suo più alto grado esprimendo appieno il suo costitutivo carattere relazionale.

[*]     Psicologo, Psicoterapeuta, Didatta S.I.A.R., Membro dei Comitati Scientifico e Direttivo della S.I.A.R., Membro del board scientifico della collana CorporalMente dell'editrice Alpes, Membro della redazione della rivista PsicoterapiaAnaliticaReichiana. mQuesto indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Indirizzo professionale: Via Valadier, 44 - 00193 Roma.

[1] C’è dunque differenza fra la funzionalità visiva nella fase oro-labiale e la funzionalità visiva nella fase genito-oculare. Nella fase oro-labiale la funzione visiva ha soprattutto la funzione di garantire l’attaccamento e la relazione con i caregiver ed è informata dal cervello limbico, nella fase genito-oculare la funzione visiva è soprattutto informata alla neocortex ed esprime la compiuta integrazione dei vari distretti corporei nella chiara coscienza di essere un sé in relazione ad un mondo sociale e naturale.

[2] Luminazione è un termine reichiano per indicare che il livello corporeo è fortemente investito di energia.

[3] Quanto sia difficile liberarsi dai condizionamenti del discorso del genere, dall’ottica di sopraffazione politica che lo caratterizza, è esemplificato dal fatto che quando le donne rigettano il ruolo di genere femminile e provano ad affermarsi socialmente, facilmente ricalchino lo stile fallico di potere tradizionalmente “maschile”. Del resto, anche quando gli uomini provano a rifiutare il tradizionale ruolo di genere maschile e sperimentare nuovi modi di essere, è facile che cadano nella riproposizione di atteggiamenti “femminili” remissivi e passivi.

[4] Molto spesso di fronte allo spettacolo sconfortante della società liquida del nostro tempo, siamo portati ad auspicare o a rimpiangere il buon tempo passato. Compiamo però un’opera di idealizzazione che si fonda sulla rimozione degli eccessi e degli assurdi della società solido moderna: l’autoritarismo dei padri e della famiglia che obbligava i figli a scelte di vita preordinate, la mortificazione della donna, la violenza e i pregiudizi sessisti e sessuali. Solo per ricordare alcuni aspetti deleteri di quel tempo. (Mannella, 2/2017).

[5] Le strutture epistemiche non sono l’espressione intenzionale del potere di un determinato soggetto sociale; esse sono piuttosto espressione di un potere che è pervasivo e che si esprime pertanto ad ogni livello sociale: nel politico e nel magistrato, nell’insegnante, nel medico come nell’infermiere. Il concetto di strutture epistemiche si distingue, allora, da quello marxiano di ideologia. Mentre quest’ultimo presuppone l’esistenza della verità e il suo occultamento ai fini degli interessi di una determinata classe sociale, le strutture epistemiche non occultano la verità (per Foucault, come per Nietzsche, la verità non esiste), ma creano piuttosto la “verità” o, meglio, “effetti di verità”.

[6] Per Foucault il sapere è esso stesso un discorso, ma, di una forma particolare, che consente sequenze linguistiche ben definite e che esclude ogni altra affermazione, ponendola nello spazio dell’irrazionale o del perverso.

[7] Il termine queer è intraducibile in italiano. Suoi possibili significati sono: strano, obliquo, eccentrico, deviato, finocchio. Il termine era utilizzato in modo dispregiativo verso ogni forma di sessualità altra rispetto all’imperante eterosessualità obbligatoria. Il movimento gay e lesbico ha fatto provocatoriamente proprio il termine: queer è l’altro terrificante che fa da specchio negativo alla pretesa naturalità dell’eterosessualità.

[8] Per i queer studies il genere non è descrittivo, non poggia sul dato naturale del sesso, ma ha un carattere performativo, nel senso che è il prodotto della ripetizione reiterata di convenzioni e pratiche sociali. Al contrario, però delle performance teatrali, in cui gli attori sono consapevoli della parte che rappresentano per copione, la performatività del genere risponde invece ad una logica discorsiva internalizzata. Il genere così inteso costringe gli individui a riconoscersi esclusivamente come uomini o come donne, escludendo ogni possibilità di identità di genere intermedie o diverse. Per ognuno di noi questo processo inizia già nella vita intrauterina o, almeno, al momento della nascita. In base alla configurazione dei genitali veniamo, infatti, assegnati alle due diverse e naturali tipologie sessuali, e conseguentemente sognati, nominati, toccati, guardati, agghindati, pensati e avviati attraverso gesti, espressioni, aspettative, richieste, verso l’assunzione di una determinata identità di genere. Ognuno di noi imparerà a pensarsi come un lui o una lei; imparerà a sentire, a esprimere determinati impulsi, emozioni, desideri sessuali, e, perciò stesso, a rimuovere quelli che non si armonizzano con l’identità di genere che siamo costretti ad assumere. E tutto ciò accade non soltanto apprendendo che cosa è maschile e cosa femminile, ma anche introiettando il contrasto, il rifiuto e il conflitto col genere che non siamo e non possiamo essere. L’altro genere diviene pertanto, inconsciamente, l’archetipo del diverso che devo temere, distanziare e rifiutare, forse proprio e a maggior ragione, perché avevo un tempo anche desiderato essere. (Mannella, 1/2014).

[9] Il corpo umano non è naturalmente e schematicamente sessuato in senso maschile e femminile né in termini cromosomici, né in termini ormonali, né in termini cerebrali, né in termini anatomici come attesta la realtà numericamente significativa degli intersessuati. (Baird, 2013).

[10] “Un bambino ogni 2000 nasce con genitali intersessuali per una dozzina di ragioni diverse. Esistono negli Stati Uniti più di 2000 reparti di chirurgia destinati ad effettuare ogni anno rassegnazioni chirurgiche di sesso”. (Baird, p. 111).

[11] Che il binarismo sessuale e di genere sia intriso di violenza appare palese anche dalla pratica della riassegnazione chirurgica che riguarda quegli individui che nascono con organi genitali intermedi. Il loro numero non è affatto esiguo come solitamente si pensa. Il retroterra culturale che guida i medici nella loro attività è il convincimento che esistano solo due sessi e generi distinti e che pertanto ne va della salute dei nuovi nati ristabilire l’ordine anatomico naturale. I criteri, poi, per decidere della riassegnazione sessuale sono maschilisti. Ricostruire una vagina è più semplice che ricostruire un pene perché la prima è caratterizzata dalla funzione passiva di ricevere il pene, mentre per quest’ultimo si richiede la capacità di provare sensazioni e partecipare attivamente all’esperienza del piacere sessuale. Oppure sono puramente quantitativi: il pene non deve misurare meno di 2,5 cm, mentre la clitoride non più di 0,9 cm. Le testimonianze degli intersessuali adulti denunciano la profonda violenza subita e la dolorosa esperienza della perdita di integrità della loro persona. Sempre più numerose sono oggi nel mondo le associazioni che si battono contro la pratica della riassegnazione chirurgica in età infantile, assimilandola alla pratica della mutilazione dei genitali femminili presente in tante parti del mondo, che pure è stigmatizzata dal civile mondo occidentale.

[12] Nonostante i corpi maschili e femminili presentino soprattutto elementi di identità, nel paradigma del dimorfismo sessuale essi sono invece visti e considerati come assolutamente diversi. Ma tale tesi quale sostegno trova nelle attuali ricerche scientifiche? Incominciamo ad esaminare la questione. La genetica ci dice che gli esseri umani hanno 23 paia di cromosomi situati nel nucleo di ogni cellula. Una coppia di essi definisce il sesso degli individui: se è composta da due cromosomi x l’individuo è donna; se invece la coppia cromosomica presenta un cromosoma x e un cromosoma y l’individuo è uomo. Ma nella realtà le cose non sono così semplici. Uomini e donne non hanno infatti tutti rispettivamente cromosomi xy ed xx, ma presentano svariate combinazioni cromosomiche. Tali casi non sono per niente eccezionali, ma sono così consuete che i comitati olimpici hanno smesso di ricorrere al test cromosomico per decidere in quale categoria – maschile o femminile - assegnare gli atleti. Anche dal punto di vista ormonale la differenza fra uomini e donne non è così chiara e assoluta. Intanto bisogna considerare che non esistono ormoni esclusivamente femminili (l’estrogeno) e ormoni esclusivamente maschili (il testosterone). L’androginia endocrinologica fu scoperta negli anni ’30 del secolo scorso suscitando non poco sconcerto. (Cattaneo, Vecchi, 2006). Occorre ancora considerare che “esistono molte donne che hanno nel loro flusso sanguigno livelli più alti di testosterone rispetto a molti uomini; inoltre, dopo i 50 anni, gli uomini hanno in media livelli più elevati di estrogeno nel sangue rispetto alle donne” (Connell, 2006, p. 75.). Anche dal punto di vista psicologico le differenze fra uomini e donne non sono così chiaramente definite tanto da poter giustificare la loro naturale e radicale dicotomia e, soprattutto sembrano dipendere da fattori culturali relativi ai diversi ruoli assegnati agli uomini e alle donne dal binarismo di genere. Dal punto di vista neurofisiologico i sostenitori del binarismo di genere sostengono la netta differenza dei cervelli maschile e femminile. Le ricerche hanno in effetti mostrato la realtà di differenze di genere nel funzionamento del cervello umano. Il cervello maschile presenta soprattutto connessioni di tipo intra-emisferico, che favorirebbero la connessione tra percezione e azione coordinata; il cervello femminile presenta invece una maggiore connettività tra i due emisferi, e questo favorirebbe la relazione fra l’elaborazione analitica delle informazioni (emisfero sinistro) e la loro comprensione intuitiva (emisfero destro). Nel complesso però i “due” cervelli non presentano un elevato grado di dimorfismo, non presentano esclusivamente caratteristiche maschili o femminili, ma risultano essere generalmente sovrapponibili. Nella realtà i cervelli umani sono unici, sono cioè “mosaici” di caratteristiche cerebrali “maschili” e “femminili”. Il nostro cervello, del resto, matura fino intorno ai 20 anni e non possiamo non tener conto delle influenze culturali di genere nella sua “differenziazione”.

[13] Con questo non voglio dire che per fare l’amore occorra essere innamorati. Fare l’amore può essere un modo particolare e profondo di conoscenza dell’altro. Ciò richiede la capacità di implicarsi nella relazione amorosa con un atteggiamento di rispetto e di curiosità - se non di meraviglia – per le caratteristiche individuali di quell’altro che ci sta di fronte e che provocano in noi fascinazione.

 

 

 

Bibliografia

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