Numero 2/2023

LEGGERE OGGI MACLEAN

 

Maria Chiara Rossi[*]

 

 

Abstract

 

        Il modello del cervello tripartito individua tre formazioni anatomiche principali: cervello rettiliano, cervello limbico e neocorteccia. Esse sono frutto di un’evoluzione ontogenetica e filogenetica determinata dall’interazione con l’ambiente e sono connesse con il comportamento dell’uomo che, soprattutto in situazioni traumatiche, è determinato da regioni cerebrali arcaiche.

        Le risposte difensive automatiche attivate da eventi minacciosi possono essere affrontate attraverso il lavoro sul corpo, che permette di agire su emozioni, pensieri e comportamento ed elaborare e integrare esperienze traumatiche.

 

    Parole chiave

Cervello tripartito – evoluzione – comportamento - trauma - lavoro corporeo.

 

Abstract

 

        The tripartite brain model recognizes three main anatomical parts: reptilian brain, limbic brain and neocortex. Such parts are the result of an ontogenetic and philogenetic evolution determined by the interaction with the environment and are connected with human behavior which, especially in traumatic situations, is determined by archaic brain regions.

        Automatic defensive responses triggered by threatening events may be addressed through body work that allows to: act on emotions, thoughts and behavior; process and incorporate traumatic experiences.

Key words

         Tripartite brain – evolution – trauma – body work.

 

 

     Il modello del cervello uno-trino o cervello tripartito è stato elaborato nei primi anni ’70 da Paul MacLean, un medico e neuroscienziato statunitense seguace di Walter Cannon e di Charles Darwin, e trova le sue basi negli studi della psicologia evoluzionista, che prende in considerazione il comportamento dell’uomo a partire da ciò che in termini di evoluzione sia stato per lui più o meno utile.

     In questo modello MacLean individua tre formazioni anatomiche principali che sono anche funzionali e che si sono sovrapposte, integrandosi, nel corso dell’evoluzione.

     La prima tra queste è il cervello rettiliano, di cui sono dotati anche i rettili, e che nell’uomo si sviluppa nella vita intrauterina. Questo rappresenta “il cervello più antico e costituisce la matrice del tronco cerebrale superiore”, comprendendo “buona parte del sistema reticolare, del mesencefalo e dei nuclei della base” (P. MacLean, 1973, pp. 5-6). Tale cervello è responsabile dei pattern di comportamenti innati e tipici per ogni specie, necessari alla sopravvivenza degli individui e della specie: quindi degli istinti legati alla nutrizione, alla lotta, alla fuga e alla riproduzione.

     Secondo MacLean “il cervello di tipo rettiliano che si trova nei mammiferi è fondamentale per le forme di comportamento stabilite geneticamente, quali scegliere il luogo dove abitare, prendere possesso del territorio, impegnarsi in vari tipi di parata [comportamenti dimostrativi], cacciare, ritornare alla propria dimora, accoppiarsi, [procreare], subire l’imprinting, formare gerarchie sociali e scegliere i capi” (P. MacLean, 1973, pp. 7-8).

     La seconda formazione anatomica prende il nome di cervello paleomammaliano o sistema limbico e comprende i bulbi olfattivi, il setto, il fornice, l’ippocampo, parte dell’amigdala, il giro del cingolo e i corpi mammillari. Esso si raffigura come uno sviluppo evolutivo che rappresenta un progresso dal momento in cui fornisce “ai mammiferi un quadro più preciso della situazione, in modo che essi possano adattarsi meglio al loro ambiente esterno e interno”. Tale cervello “svolge un ruolo importante nell’elaborazione delle emozioni che guidano il comportamento in rapporto ai due principi vitali fondamentali, quello dell’autoconservazione e quello della conservazione della specie” (P. MacLean, 1973, pp. 11-13).

     Il sistema limbico, che corrisponde nella scala evolutiva al cervello dei mammiferi, specie di quelli più antichi, è responsabile per le emozioni superiori, per la motivazione, così come per l’apprendimento e la memoria. Pertanto, l’emotività è legata a diverse strutture primitive di questo sistema che fornisce una maggiore flessibilità nel comportamento, integrando i messaggi interni ed esterni al corpo.

     Il cervello neomammaliano, invece, consiste nella neocorteccia. Questa è di formazione più recente, non è ancora completamente formata alla nascita ed è molto sviluppata negli uomini. Inoltre, a differenza della corteccia antica riceve le sue informazioni prevalentemente dall’ambiente esterno, attraverso segnali che le arrivano dagli occhi, dagli orecchi e dai recettori somatici.

     La neocorteccia è la sede del linguaggio, dell’autocoscienza, delle concezioni dello spazio, del tempo, della causalità e, in generale, di tutti quei comportamenti che richiedono un’intelligenza più elaborata per essere prodotti.

     

IMG Maclean

Questi tipi di cervello sono, secondo MacLean, “radicalmente differenti dal punto di vista chimico e strutturale” e dal punto di vista evolutivo “sono entità separate: ciascun tipo di cervello ha la sua intelligenza specifica, la sua specifica memoria, il suo senso del tempo e dello spazio e il suo tipo particolare di attività e di altre funzioni”. Pertanto, “sebbene i tre tipi di cervello abbiano fra loro estese connessioni e dipendano funzionalmente l’uno dall’altro, ci sono elementi che indicano come ciascuno sia in grado di funzionare con una certa indipendenza” (P. MacLean, 1975, pp. 79-80).

     Tre cervelli separati, quindi, che però devono fondersi e funzionare tutti e tre insieme come un cervello uno e trino.

     Tali cervelli, differenti e indipendenti, comunicano tra di loro in un rapporto gerarchico, dove quelli più evoluti sono in grado di controllare e inibire gli altri.

     MacLean, dunque, mette in evidenza il modello gerarchico alla base delle funzioni mentali dell’uomo, sottolineando che la nostra struttura mentale è il frutto di un’evoluzione ontogenetica e filogenetica.

     Nel tempo è stata proposta una modellizzazione della nostra attività mentale in senso relazionale. Autori come Panksepp hanno riaffermato che le funzioni mentali sono considerate il frutto di un’interazione costante e continua tra la struttura cerebrale e l’ambiente, sottolineando che la nostra mente sia stata organizzata in modo gerarchico grazie all’evoluzione della specie, tramite il costante influenzamento dell’ambiente agito nei confronti della stessa.

     A conferma di quanto detto, la caratteristica relazionale del nostro cervello è stata recentemente evidenziata dalla scoperta dei neuroni specchio, grazie alla quale si è potuto riconfermare che ogni interazione interpersonale ha una caratteristica relazionale.

     Possiamo, così, affermare che il cervello rettiliano, limbico e neocorticale sono interconnessi tramite processi dinamici psicobiologici e presentano una continua e costante relazione con l’ambiente.

     Il cervello rettiliano e quello limbico sono definiti da MacLean cervelli “animali”, mentre la neocorteccia, formazione anatomica più evoluta, è molto sviluppata nell’essere umano e può raggiungere un’estensione pari al 90% della superficie cerebrale.

     Per tale ragione e in base a quanto espresso da MacLean, secondo cui i cervelli più evoluti sono in grado di controllare e inibire gli altri, la neocorteccia dovrebbe essere la struttura cerebrale maggiormente utilizzata dall’uomo, tuttavia questo non sempre avviene, così come si può osservare prendendo in considerazione persone che hanno subito dei traumi. Queste, infatti, utilizzano in modo prevalente aree sottocorticali in quanto il terreno neurofisiologico comune alle esperienze traumatiche riguarda la disorganizzazione del cervello, che si manifesta con: interruzione di connessioni con l’area verbale, iperattivazione dell’amigdala e bassa attivazione della corteccia prefrontale.

     Un altro aspetto rilevante in tali casi riguarda l’entità del pericolo, poiché tanto più è grande la minaccia, tanto più arcaica è la zona cerebrale utilizzata per far fronte alla situazione.

     Le quattro risposte difensive automatiche che possono essere attivate da eventi minacciosi sono: l’attacco (fight), la fuga (flight), il congelamento (freezing) e lo svenimento (faint).

     Nel primo caso il soggetto in seguito all’evento mostra irritabilità, irrequietezza, abbassamento del tono dell’umore e la tendenza ad avere un atteggiamento difensivo; nella fuga si può assistere a comportamenti di evitamento, alla presenza di ansia e di paura; nel congelamento, di cui è responsabile il circuito dorso-vagale non mielinizzato, il soggetto reagisce nell’immediato con una vera e propria paralisi (immobilità tonica) e con distacco; mentre lo svenimento è una simulazione di morte non consapevole in cui si assiste ad una brusca ed estrema riduzione del tono muscolare, alla disconnessione fra i centri superiori e quelli inferiori e alla diminuzione del battito cardiaco. Il soggetto, in questa situazione, cade a terra come se collassasse, in quanto l’estrema paura determina la reazione di svenimento e, per mezzo dell’attivazione del sistema dorso-vagale, vi è un distacco dall’esperienza e sono possibili successivi sintomi dissociativi.

     Se, come negli sviluppi traumatici, le condizioni di attivazione del sistema di difesa perdurano a lungo, questa attivazione si trasforma da risposta evolutivamente adattativa in disadattiva, perché impedisce un normale esercizio della metacognizione e, in generale, delle funzioni superiori della coscienza, non permettendo l’integrazione di quella memoria traumatica che rimane, tuttavia, iscritta nel corpo.

     Le memorie traumatiche hanno una tipica struttura, in quanto sono non verbali e narrative, il soggetto rivive l’esperienza attraverso dei flashbacks, sono presenti memorie intrusive e sentimenti dolorosi che interferiscono.

     Dunque, può accadere che uno stimolo esterno di minore entità, ma che può rievocare l’evento minaccioso, possa determinare nel soggetto uno stato di iper o ipoattivazione che lo porta a diventare reattivo e disorganizzato.

     Tali stimoli vengono definiti trigger e provocano una riattualizzazione dell’evento traumatico, che inducono il soggetto ad uscire dalla propria finestra di tolleranza, ovvero quel range all’interno del quale le diverse intensità di attivazione emotiva e fisiologica possono essere integrate senza interrompere la funzionalità del nostro sistema.

     Persone che hanno vissuto dei traumi, anche evolutivi, modificano, restringendolo, lo spettro della finestra di tolleranza e ciò può determinare risposte disfunzionali anche per stimoli che per altri possono essere perfettamente tollerabili.

     Avviene, quindi, che i tre cervelli non siano più in equilibrio tra loro, ma che ci sia un utilizzo maggiore delle aree sottocorticali. Quindi, se vogliamo cambiare le reazioni post-traumatiche dobbiamo accedere al cervello emotivo e riparare il sistema di allarme, riportarlo al suo lavoro ordinario e ripristinare il giusto equilibrio tra i tre cervelli.

     Come precedentemente sottolineato, le memorie traumatiche sono non verbali e narrative e, per tale ragione, al fine di elaborare e integrare le esperienze traumatiche anche ad un livello cognitivo appare molto importante il lavoro sul loro contenitore, ovvero sul corpo.

     In particolare, questo permette l’elaborazione dei vissuti e dei sentimenti traumatici, la sperimentazione di un ruolo più attivo e l’acquisizione di una maggiore consapevolezza dei diritti personali. Inoltre, se è in gruppo, consente di ristabilire un vero contatto con se stessi, una relazione di fiducia con gli altri e offre uno spazio sicuro per spezzare la solitudine e la vergogna e per esprimere la sofferenza.

     Soltanto in un momento successivo può essere dato spazio all’elaborazione verbale, al fine di prendere consapevolezza di ciò che è accaduto e integrare corpo e mente.

     In conclusione, si può affermare che la teoria del cervello tripartito di MacLean presenta dei limiti legati alle numerose imprecisioni e ad una visione cerebrale rigidamente strutturata e caratterizzata da un rapporto gerarchico che non è più sostenibile dal momento che il mondo del pensiero e quello emotivo non sono separati e ordinati gerarchicamente, ma sono strettamente dipendenti e mutualmente influenti. Tuttavia MacLean ha sicuramente molti meriti. Tra questi quello di aver studiato il cervello in chiave evolutiva, di aver ricondotto la generazione delle emozioni alle aree più profonde dello stesso, di aver messo in evidenza che alcune tendenze comportamentali dell’uomo sono dovute a regioni cerebrali arcaiche (a dimostrazione di questo nei suoi studi adotta spesso modelli animali per comportamenti sessuali e sociali) e di aver sottolineato che il cervello è strettamente connesso con il comportamento dell’uomo.

     Infine, grazie a tale teoria si può meglio comprendere quali sono i processi alla base delle emozioni e dei comportamenti di persone che hanno vissuto situazioni di intenso stress, quali aree del cervello vengono da loro maggiormente utilizzate e quanto si possa andare ad agire sulle emozioni, sui pensieri e sul comportamento attraverso il lavoro corporeo.

 

 

Bibliografia

MacLean, P. (1973), A triune concept of the brain and behaviour. Toronto: Buffalo (tr. it. Evoluzione del cervello e comportamento umano. Studi sul cervello trino, Torino: Einaudi, 1984).

MacLean P. (1975), Emotions. Their Parameters and Measurement. New York.

Panksepp, J. (1998), The foundation of Human and Animal Emotion. Affective Neuroscience. Oxford University Press. New York.

Raven, Press (tr. it. Evoluzione del cervello e comportamento umano. Studi sul cervello trino. Torino: Einaudi, 1984).

Sitografia

https://www.neuroscienze.net/il-cervello-uno-e-trino/

[*]Psicologa, Allieva della Scuola Italiana di Analisi Reichiana. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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