Numero 2/2023

L’APPROCCIO TERAPEUTICO CON PERSONE GAY, LESBICHE, BISESSUALI

 

THE PSYCHOTERAPEUTIC APPROACH WITH GAY, LESBIAN OR BISEXUAL PEOPLE 

DOI:  10.57613/SIAR10

 

Marcello Mannella[*]

 

Abstract

     Il tema dell’articolo è il tentativo di delineare quali debbano essere i fondamenti di un approccio psicoterapeutico rispettoso ed efficace con persone gay, lesbiche o bisessuali. “Mi sembra che un tale atteggiamento possa essere sostenuto in modo convincente solo da un terapeuta che condivida la prospettiva teorica che l’omosessualità sia un normale punto finale dello sviluppo di alcuni uomini”. (Isay R.A., 1996).

Parole chiave

     omofobia internalizzata - minority stress - terapia gay affermativa - identità sessuale.

 

Abstract

     The topic of the article is the attempt to outline what the foundations of a respectful and effective psychotherapeutic approach with gay, lesbian or bisexual people should be. “It seems to me that such an attitude can be supported in a convincing way only by a therapist who shares the theoretical perspective that homosexuality is a normal end point of the development of some individuals”. (Isay R.A., 1996).

 key words

      Internalised omophobia – minority stress – affirmative gay therapy – sexual identity.

 

Necessità di una nuova epistemologia

     Il tema dell’articolo è il tentativo di delineare quali debbano essere i fondamenti di un approccio psicoterapeutico rispettoso ed efficace con persone gay, lesbiche o bisessuali. Credo che questo momento riflessivo e metodologico sia necessario non soltanto perché nei nostri studi sempre più frequentemente abbiamo a che a fare con persone che chiedono di essere aiutate ad accettare e a definire la propria diversa identità sessuale, ma anche perché il pregiudizio relativo al carattere patologico della diversità sessuale è ancora presente in un numero significativo di professionisti della salute mentale[1].

     Fra psicologi e psicoterapeuti è, ad esempio, molto diffuso il pregiudizio che le forme di orientamento sessuale diverse da quella eterosessuale siano causate da un qualche intoppo che ha impedito o deviato il naturale sviluppo psicosessuale. In tantissimi è ancora presente la vecchia convinzione psicoanalitica che in fondo gli omosessuali siano degli eterosessuali mancati, che la loro omosessualità altro non sia che una difesa nei riguardi di una eterosessualità carica di conflitti e di angoscia.

     E ancora oggi molti psicologi ne individuano le cause nelle dinamiche psicologiche familiari, nei particolari rapporti con le figure genitoriali durante la prima e la seconda infanzia[2]. Al contrario l’orientamento eterosessuale sarebbe naturale e dunque indipendente dai vissuti psicologici infantili. Quei conflitti precoci sarebbero anche la causa di quella problematicità mentale che li caratterizza e impedisce agli individui LGB di vivere una vita serena e dignitosa, di instaurare relazioni solide, armoniose e creative.

     Tali pregiudizi sono presenti e agiscono nel setting al punto che la prassi terapeutica, molte volte, non risulta poi così diversa da una terapia riparativa[3]. Inconsapevolmente tanti terapeuti sono portati a minimizzare la rilevanza dell’orientamento omosessuale, a rassicurare il paziente sul fatto che non sia omosessuale o che la sua diversità sessuale sia soltanto una fase momentanea. Pertanto, lo ostacolano a vivere e sperimentare la propria diversità sessuale; nutrono, la convinzione, e alimentano nel paziente la speranza, che il trattamento terapeutico possa ristabilita la naturale espressione eterosessuale. Nei fatti essi agiscono nel setting la propria omofobia internalizzata, colludendo e rinforzando quella del paziente.

     Queste teorie e questi atteggiamenti sono così profondamente radicati al punto da rendere veramente ardua la loro messa in discussione. Occorre una vera e propria rivoluzione paradigmatica, un cambiamento gestaltico profondo. È un processo estremamente impegnativo che richiede tempo, disponibilità intellettuale a praticare l’epochè, a mettere momentaneamente fra parantesi gli assunti ormai assimilati, che proprio per questo appaiono apoditticamente certi.

     I discorsi sull’identità sessuale del resto investono l’identità profonda e personale di ognuno e pertanto non è affatto semplice, neanche per gli addetti ai lavori, ripensare e ridefinire le proprie convinzioni, osservare e oggettivare i propri pregiudizi teorici.

     Ma, dunque, se non è affatto vero che le forme dell’orientamento sessuale diverse da quello etero abbiano la loro genesi in una qualche intoppo dello sviluppo psicosessuale, è però certo che il processo di definizione dell’identità sessuale per gli individui LGB abbia caratteristiche del tutto peculiari. In una società ancora fortemente eteronormativa, essi devono affrontare un percorso molto più accidentato e doloroso.

     La scoperta del proprio desiderio sessuale comporta generalmente confusione, disperazione, crollo dell’autostima, senso di inferiorità. È inevitabile che sviluppino sentimenti negativi di disgusto e vergogna avendo da tempo introiettato le immagini denigratorie della diversità sessuale. Non di rado tali sentimenti sono accompagnati da sintomi depressivi e pensieri di morte. Forte è anche il senso di colpa. Soprattutto gli omosessuali si sentono colpevoli nei riguardi dei loro genitori, per il dispiacere che sanno di provocare per avere tradito il progetto esistenziale che normalmente si pensa per i figli: sposarsi e dar loro dei nipotini.

     Pertanto, già molto provati per dover gestire lo stigma sociale[4], si sentono esclusi proprio da quella famiglia da cui fino a poco tempo prima si sentivano accettati e amati e del cui sostegno proprio in quel momento hanno un bisogno disperato. Nel migliore dei casi avvertono un sentimento contrastato e ambivalente: sentono cioè di essere ancora amati, ma nello stesso tempo colgono il cruccio che alberga nel cuore dei propri familiari a riguardo della loro stranezza.

     Molto più frequentemente, si trovano di fronte ad un muro di ostilità, incomprensione e rifiuto, e inevitabilmente sperimentano un profondo senso di isolamento, che si ripercuote negativamente sulla loro salute mentale. Può accadere allora che abbandonino la casa, che lascino la scuola, che siano soggetti a depressione e a tutta una serie di comportamenti degradanti e distruttivi come condotte sessuali squallide e pericolose, abuso di droghe, fino al suicidio.

     In Marta, ormai adulta, è ancora vivo il profondo dolore che aveva provato quando la madre, appresa la sua omosessualità, le aveva gridato che l’avrebbe preferita morta piuttosto che lesbica.

     Essi dunque, nel periodo evolutivo già normalmente problematico della pubertà, si trovano a vivere un surplus di angoscia e di stress. Bisogna insomma considerare la condizione di minority stress a cui vanno inevitabilmente incontro. Il minority stress è l’esperienza propria di chi appartiene ad una minoranza, è il disagio psicologico del tutto particolare che gli individui LGB si trovano a vivere a causa dei pregiudizi, dell’ostilità, delle discriminazioni, della violenza verbale e fisica, dovute alla dominanza del paradigma eteronormativo[5].

     La presa di coscienza del proprio desiderio sessuale (generalmente prima della pubertà), l’ “esplosione” dirompente dello stesso nella pubertà, piuttosto che essere accompagnati, come accade solitamente ai ragazzi eterosessuali - insieme ad ansie e difficoltà - da sorpresa, piacere, curiosità, eccitazione, voglia di sperimentarsi, di mettersi in gioco, danno luogo a confusione, angoscia, sconcerto, in quanto avvertono i propri impulsi e le proprie sensazioni differenti da quelli dei coetanei e si trovano a vivere l’impossibilità di rendere il proprio desiderio sessuale parte integrante della propria personalità.

     Inizialmente sperano che i propri impulsi perversi siano passeggeri e che lascino al più presto il posto al desiderio eterosessuale. Ma col tempo prendono coscienza della stabilità del proprio orientamento sessuale e allora arrivano a percepire anche se stessi come qualcosa di sporco, di immorale, di malato.

     Generalmente, si assiste ad una sorta di frattura, di scissione del sé: molte delle proprie energie sono impiegate a tenere a bada, a scotomizzare, le proprie sensazioni sessuali. A risentirne, inevitabilmente, sarà lo sviluppo complessivo della personalità, che non di rado si sviluppa in modo parziale, o risulta bloccata perché si rimane fissati lì, al tentativo di incistare e tenere a bada la propria affettività sessuale. È facile che l’intera sfera affettiva sia messa tra parentesi e che ci si identifichi con immagini fantasmatiche e riparatrici di sé.

     La crescita affettiva di Carlo si era pressoché bloccata, congelata, all’età di 11 anni, quando – avendo comunicato ai genitori dei suoi giochi erotici che avvenivano da tempo con un compagno -  aveva avvertito il loro sconcerto e disgusto. La sua personalità si era fratturata. Una parte di sé, quella cosciente, pubblica, con cui si identificava, conduceva una vita normale, da eterosessuale, l’altra, nascosta, dissociata, continuava a vivere il suo desiderio omosessuale: guardava filmini porno omosessuali, si masturbava costruendo fantasie omoerotiche.

     Luigi, ad un certo punto del percorso terapeutico, ricorda quanto fosse stato negativamente decisivo per lo sviluppo della sua personalità il commento disgustato del padre alle sue amicizie e al suo modo effeminato di comportarsi - “ma che sei frocio?” gli aveva brutalmente domandato - e come da allora avesse cominciato a un’attività sessuale etero compulsiva.

 

Il coming out

     Non è dunque affatto raro che gli individui LGB maturino nel tempo la necessità di rivolgersi ad uno psicoterapeuta. La scelta dello psicoterapeuta è fondamentale. Non costituisce un prerequisito il suo orientamento sessuale, né il possesso di un particolare armamentario tecnico. Vale sempre il principio dell’alleanza terapeutica, ma in questi casi, bisogna essere consapevoli che presupposti necessari perché possa determinarsi sono la conoscenza delle problematiche specifiche degli individui LGB e il convincimento, non solo intellettuale ma profondamente assimilato, circa la legittimità delle diverse forme di orientamento sessuale.

     Soltanto se l’atteggiamento del terapeuta è di profonda e autentica accettazione può infatti accadere che il paziente possa esprimere fino in fondo le sue ansie e paure. Soltanto così, nell’interazione profonda col terapeuta, egli potrà elaborarle e pervenire all’accettazione del proprio desiderio sessuale e riuscire finalmente a costruire un’immagine positiva di sé.

     Francesco mi ripete più volte quanto fosse stato importante, per elaborare i suoi pensieri omofobici e per incominciare a costruire un’immagine positiva di sé, l’atteggiamento terapeutico non giudicante e di accettazione.

     La presa in carico di pazienti LGB richiede al terapeuta una consapevolezza e un’attenzione particolari. Sebbene, infatti negli ambiti scientifico e accademico l’omosessualità non sia più considerata un disturbo mentale fin dalla fine del secolo scorso, è facile che la forte implicazione emotiva propria della relazione terapeutica, riattivi e faccia emergere in loro schemi cognitivi tradizionali caratterizzati da un giudizio negativo nei riguardi delle diversità sessuali.

     I terapeuti capaci di assumere una posizione di serena e completa accettazione delle diversità sessuali sono solitamente persone esse stesse LGB. Ma nulla esclude che anche tali terapeuti possano avere problematiche non risolte di omofobia internalizzata che finiscono inevitabilmente col riverberare nel lavoro terapeutico.

     Insomma, “A guidare il lavoro terapeutico con un paziente gay deve essere la convinzione dell’analista che l’omosessualità sia un fatto normale e naturale. Mi sembra che un tale atteggiamento possa essere sostenuto in modo convincente solo da un terapeuta che condivida la prospettiva teorica che l’omosessualità sia un normale punto finale dello sviluppo di alcuni uomini” (Isay, 1996, p.115).

     Soltanto tali terapeuti saranno in grado di portare avanti quella che è definita la terapia gay affermativa (GAT).

     Non si tratta di orientare – in un senso o nell’altro - la sessualità del paziente, ma della capacità del terapeuta di essere sereno di fronte ad ogni possibile orientamento e a mettere in atto tutte le strategie possibili affinché da sé possa individuare e scegliere la forma del proprio desiderio sessuale. La prassi terapeutica deve essere improntata ad un’ottica costruttivista. Non bisogna avere aspettative o, peggio, spingere il paziente in una direzione. Sarà quest’ultimo che in maniera autopoietica costruirà la propria identità, senza essere costretto a comprendersi e definirsi in base a modelli precostituiti.

     Un’attenzione e una cura particolari vanno riservati al linguaggio, solitamente strutturato intorno alla dominanza del paradigma eterosessuale. Occorre che nel rivolgersi al paziente il terapeuta non dia per scontato il suo orientamento sessuale. La cura e la scelta del linguaggio è indicativa dell’atteggiamento di accettazione e risulta determinante ai fini dell’alleanza terapeutica.

img Mannella senza didascalia     Come immaginiamo possano sentirsi i pazienti LGB di fronte al consueto domandare: “c’è l’hai il ragazzo/a?”, “sei sposato/a?”, “hai dei figli?”. È inevitabile che essi si ritraggano sentendosi esclusi e giudicati, rivivano nei fatti il dolore del rifiuto genitoriale e perdano fiducia nella relazione terapeutica. È invece inclusivo usare espressioni del tipo: “Hai avuto, o hai in questo momento una relazione sentimentale?”, “Convivi? Hai una relazione stabile?”, “Ti prendi cura di qualcuno?” (Rigliano, Ciliberto, Ferrari, 2021).

     Lorenzo racconta di aver interrotto un precedente lavoro analitico agli inizi, quando il terapeuta, non sapendo ancora della sua problematica legata all’orientamento omosessuale, gli aveva chiesto delle sue esperienze sessuali con le donne. Ciò lo aveva reso impacciato e fatto sentire anormale.

     Le ricerche ci dicono anche che è preferibile l’uso di alcune espressioni al posto di altre, ormai consuete e apparentemente neutre. Ad esempio è preferibile l’uso del termine orientamento sessuale a quello di omosessualità e quelli di gay e di lesbica al posto del termine omosessuale. Il termine omosessualità è carico di significati negativi, quando un tempo tale orientamento sessuale era considerato patologico, e rimanda ad una categoria stabile e univoca laddove le omosessualità sono molteplici e sfumate, come del resto molteplici e sfumate sono le espressioni dell’eterosessualità.

     I termini gay e lesbica al posto di omosessuale invece non rimandano esclusivamente ad un particolare comportamento sessuale, ma implicano il sentirsi parte di una comunità, dunque esprimono un aspetto identitario. È buona regola comunque indagare il significato particolare che assumono tali espressioni nell’esperienza di vita dei singoli individui.

     Anche i termini “preferenza sessuale”, “tendenza” e “scelta” per indicare l’orientamento sessuale sono da evitare. Il primo termine svaluta l’orientamento omosessuale risolvendolo ad un gusto, quasi una sorta di sensazione, sì piacevole ma non un aspetto essenziale e costitutivo dell’identità profonda dell’individuo. Il secondo è carico di implicazioni negative e rimanda all’espressione popolare che allude a individui che hanno un orientamento sessuale perverso. L’ultimo è fuorviante perché l’orientamento sessuale non è una scelta, non è un atto cognitivo deliberato, ma il risultato – come abbiamo visto – di un processo in gran parte precognitivo e implicito che impegna il sé nella sua totalità fin dalla prima infanzia.

     Se il lavoro terapeutico è svolto positivamente i pazienti LGB cominciano piano piano a integrare il proprio orientamento sessuale nella propria struttura di personalità. All’iniziale rifiuto e disperazione – rifiuto e disperazione che possono presentarsi in maniera ricorrente durante il percorso terapeutico, anche quando il paziente sembrava essersi ormai avviato verso l’integrazione del suo desiderio sessuale – gradualmente si sostituisce un atteggiamento positivo.

     L’individuo mostra un’accettazione sempre più convinta dei propri impulsi sessuali, testimoniata da un aumento dei contatti e delle amicizie con persone che condividono lo stesso orientamento e dal crescente desiderio di svelare a quelle più significative (parenti, amici, colleghi di lavoro) la sua nuova identità.

     Il paziente insomma procede nel processo di coming out interiore, condizione necessaria perché possa accadere e sostenere il coming out esteriore.

     L’espressione fare coming out (abbreviazione dell’espressione coming out of the closet: uscir fuori dal ripostiglio/armadio) è l’atto attraverso cui gli individui LGB trovano la forza e la serenità di dichiararsi, di uscire da una condizione di colpa e di segretezza[6]. È una svolta decisiva nella loro vita.

     Il coming out esteriore, rispetto al coming out interiore, segna un ulteriore movimento. Non è soltanto indicativo del compimento del processo di accettazione di sé, ma è espressione della volontà delle persone LGB di affermarsi come soggetti sociali. Il coming out esteriore attesta la raggiunta consapevolezza della legittimità delle proprie esperienze, dei propri pensieri, delle proprie emozioni. Fare coming out è un atto politico; è contestare fattivamente la pratica discorsiva eteronormativa.

     “Da un punto di vista antropologico possiamo paragonare il coming out a un rito di passaggio che richiede a un gay o a una lesbica di mettere in discussione i principi appresi sull’eteronormatività, di decostruire gli stereotipi sull’omosessualità e di imparare a gestire la propria diversità. Svelare il proprio orientamento sessuale agli altri è il risultato di questo percorso che esita nella rottura di un tabù sociale”. (Graglia, 2009, pag.113). 

     Il processo del coming out non è un fatto scontato, dura anni e molti individui LGB decidono nella loro vita di non venir mai allo scoperto. Sicuramente non è mai un atto compiuto a cuor leggero, ma inevitabilmente vissuto con apprensione perché espone al rischio di reazioni negative di sconcerto, di rifiuto e non di rado ostili. Può anche succedere che si decida di non rivelare a tutti il proprio orientamento sessuale, che si proceda in base alla valutazione costi/vantaggi, né che venga compiuto nei molteplici contesti in cui si svolge la vita della persona. Così come appare chiaro che è profondamente condizionato dai contesti familiare e sociale in cui l’individuo ha vissuto. Esso è tanto più sofferto e difficile quanto più tali contesti sono caratterizzati da un atteggiamento omofobico[7].

     Fare coming out non è nemmeno un fatto esente da problematicità. Non sempre rispecchia una scelta consapevole e positiva, espressione della crescita psicologica e dell’avvenuta accettazione della propria condizione sessuale. Il coming out esterno, cioè, non sempre è indicativo dell’avvenuto coming out interno.

     “[…] il fatto che sia un atto ‘volontario’ non implica necessariamente che si tratti di un atto pensato e non di un agito. In ambito clinico è importante comprendere, insieme all’utente, i significati che rivestono l’atto del coming out e poterne valutare le conseguenze. Per esempio, dichiararsi gay ad un gruppo di bulli omofobi potrebbe rappresentare un atto di coraggio, ma anche la ricerca di una ‘punizione’ per un’omosessualità conflittuale; oppure, dichiararsi gay in maniera indiscriminata e ‘aggressiva’ potrebbe indicare un disagio ‘risolto’ con una certa dose di reattività. Altra cosa sono quei coming out che rispecchiano un’intenzione autentica di condividere i propri aspetti identitari e le proprie esperienze. (Lingiardi, Nardelli, 2014, p.65).

     Come clinici dunque bisogna essere consapevoli dei reali progressi compiuti dal paziente nell’elaborazione dell’omofobia internalizzata e nell’accettazione del proprio orientamento sessuale. Bisogna essere consapevoli delle sue motivazioni profonde, della sua sostenibilità o meno a venir fuori, della sua resilienza a far fronte alle inevitabili difficoltà e aggressioni. Le reazioni, soprattutto agli inizi, da parte dei propri familiari sono, ad esempio, generalmente particolarmente ostili e solo col tempo tenderanno ad attenuarsi, lasciando il posto alla volontà di capire.

     Vale – a maggior ragione in questi casi - il principio terapeutico di precauzione, cioè di accompagnare la persona a sperimentare gradualmente e in situazioni in qualche misura protette il processo di coming out. Magari iniziando con il migliore amico o con il gruppo di amici con i quali da tempo vi è un rapporto di affetto e di fiducia, oppure con un professore o un adulto, dei quali si sono intuite la disponibilità e l’apertura mentale.

     Di grande aiuto è anche la frequentazione di individui o gruppi che vivono l’esperienza dello stesso orientamento sessuale che consente di non sentirsi soli, diversi e malati, e di acquisire progressivamente il sentimento e la coscienza della propria diversa normalità. Gli amici o il gruppo vengono così a costituirsi come una nuova famiglia capace di colmare il vuoto affettivo e il sostegno che molte volte vengono a mancare da parte della famiglia originaria.

     Il processo del coming out è dunque un processo individuale, che segue strade personali e diverse a seconda della propria storia, condizione sociale ed esperienze personali.

 

[1] Negli ultimi anni numerosi Ordini regionali degli psicologi hanno portato avanti delle indagini volte ad acclarare le posizioni teoriche e gli atteggiamenti dei professionisti nei riguardi degli orientamenti sessuali diversi da quello etero. Su un campione complessivo di 3000 psicologi e psicoterapeuti, “il 25% degli psicologi consultati dichiara di non sentirsi affatto preparato, il 60% di avere una preparazione parzialmente adeguata e solo il 15% di sentirsi adeguatamente preparato. Inoltre, stando a queste ricerche, gli psicologi che sentono di non avere una preparazione adeguata tendono più degli altri a orientare il proprio intervento clinico nella direzione di una ‘modificazione’ dell’orientamento (omo)sessuale, in particolare se è il/la paziente a farne richiesta. Un approccio antiscientifico, questo, che non solo non tiene conto dei risultati di anni di ricerche sui fallimenti delle cosiddette ‘terapie riparative’, ma anche trascura l’influenza dell’omofobia sociale e interiorizzata sulla concezione che l’individuo ha di sé, acuendo il pregiudizio sociale e la sofferenza individuale”. (Lingiardi, Nardelli, 2014, p. IX).

[2]  “Le evidenze empiriche non supportano l’ipotesi secondo la quale le esperienze infantili influenzerebbero l’orientamento sessuale. Le teorie del trauma evolutivo o di disfunzioni nei rapporti familiari non hanno trovato alcun riscontro scientifico. L’orientamento sessuale dei genitori sembra avere un modesto impatto su quello dei figli: gay e lesbiche crescono infatti in famiglie eterosessuali e la maggioranza dei figli cresciuti in coppie lesbiche e gay è eterosessuale. L’ambiente di crescita influisce invece sull’espressione della sessualità e su come si impostano le relazioni affettive”. (Graglia, 2009, p. 28).

[3] Il primo atteggiamento terapeutico nei confronti dell’omosessualità è stato quello cosiddetto della terapia riparativa (rivolta cioè a riparare i danni verificatisi durante lo sviluppo psicosessuale che avrebbero causato l’orientamento sessuale patologico) volta a curare e trasformare l’omosessuale in eterosessuale, che ha dominato per tanto tempo la pratica psicoanalitica. In tempi recenti la terapia riparativa è stata riproposta e riformulata da Nicolosi. (Nicolosi,  1991).

[4] Uno studio internazionale “ha indagato la diffusione del pregiudizio nei confronti di quattro gruppi sociali (omosessuali, musulmani, ebrei, migranti) chiedendo: “Vorresti avere come vicino di casa, una persona appartenente a questi gruppi?” Aggregando tutti i paesi la percentuale più elevata di risposte negative si è avuta per gli omosessuali e i musulmani”. (Graglia, p. 73).

[5] Esso consta di tre momenti. Innanzitutto bisogna considerare l’omofobia internalizzata, cioè l’assimilazione di quei pregiudizi e il disprezzo per la propria diversa sessualità, che li conduce fino al punto di negarla o addirittura nutrire sentimenti negativi nei confronti di persone gay o lesbiche. Lo stigma percepito. La personale sensibilità all’ambiente, ai suoi pregiudizi, che può portare tali individui ad adottare strategie atte a negare o evitare il proprio desiderio sessuale; il vivere dunque in un costante stato di allarme di poter essere identificato come gay o lesbica. Infine, le reali esperienze di discriminazione e dileggio acute o croniche. Il minority stress non di rado conduce a manifestazioni come sindromi depressive, difficoltà sessuali, pensieri di morte e tentativi di suicidio, esponendo questi individui ad un rischio patologico maggiore.

[6] Comunemente questo processo viene indicato con l’espressione fare outing. Ma fare outing è un’espressione impropria perché indica il fatto che a rivelare, per svariati motivi e senza il suo consenso, l’orientamento sessuale di una determinata persona è un terzo.

[7] Fare coming out ha una ricaduta positiva sulla salute mentale degli individui LGB, che solitamente soffrono di disturbi d’ansia o depressione per la loro condizione di segretezza. Secondo alcuni studi gli omosessuali non dichiaratisi hanno probabilità maggiori – tre volte superiore – di ammalarsi di cancro, di malattie polmonari, di malattie infettive.

 

 

Bibliografia

Graglia, M. (2009), Psicoterapia e omosessualità. Roma: Carocci Faber.

Isay, R. A. (1996), Essere omosessuali. Milano: Raffaello Cortina editore.

Lingiardi V., Nardelli N. (2014), Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche, gay, bisessuali. Milano: Raffaello Cortina editore.

Rigliano, P., Ciliberto, J., Ferrari F. (2012), Gay e lesbiche in psicoterapia. Milano: Raffaello Cortina editore.

Nicolosi, J., Reparative Therapy of Male Homosexulity, Jason Aronson, Northvale (NJ), 1991.

[*] Psicologo, Psicoterapeuta, Didatta S.I.A.R., Membro dei Comitati Scientifico e Direttivo della S.I.A.R., Membro del board scientifico della collana CorporalMente dell’Editrice Alpes, Membro della redazione della Rivista PsicoterapiaAnaliticaReichiana. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Indirizzo professionale: Via Valadier, 44 -00193 Roma
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