Numero 1/2014

Philomena

a cura di Luisa Barbato* 

 

Philomena è l’ultimo apprezzatissimo film di Stefan Frears, regista inglese che ci ha abituato a trattare temi sociali di grande impatto emotivo nelle sue pellicole. Philomena non smentisce questa tradizione, perché si occupa di questioni importanti e scomode: la maternità, la condizione della donna in Europa fino a pochi decenni fa, l’ambiguità della chiesa e la pressione che le norme sociali sanno esercitare su di noi, in qualsiasi latitudine e cultura.

Questo ultimo punto era molto caro a Wilhelm Reich che, dell’analisi dei condizionamenti sociali e della diffusione della peste emozionale, ha fatto uno dei pilastri del suo lavoro clinico.

altSi tratta della traduzione cinematografica di una storia vera, quella di una madre alla ricerca del figlio perduto, che Martin Sixsmith ha pubblicato nel 2009 nel libro "The lost Child of Philomena Lee" e che ha permesso a molte donne di riconoscersi e di raccontare le loro incredibili storie di vergogna e soprusi.

Il film è ambientato in Irlanda nel 1952, quando la giovanissima Philomena rimane incinta in seguito ad un incontro occasionale. La gravidanza le costa il ripudio della famiglia che l’affida alle suore del convento di Roscrea, uno dei luoghi noti come lavanderie irlandesi: istituti religiosi che ospitavano soprattutto ragazze madri, alle quali garantivano l'espiazione delle colpe e la redenzione dell'anima attraverso il duro lavoro. Partorivano sorvegliate dalle suore, senza alcuna assistenza medica, e se sopravvivevano potevano vedere i loro figli un'ora al giorno, fino a quando non venivano adottati da facoltose e cattoliche famiglie.

Così, quando Antony, il figlio di Philomena, compie tre anni, viene dato in adozione a dei ricchi americani, malgrado il dolore e l’opposizione di Philomena, che sembra destinata a condurre la vita miserabile del convento in un’Inghilterra ancora con grosse sacche di povertà post-bellica.

Non sarà così, e il film, con un salto temporale di mezzo secolo, ci porta al 2002 presentandoci una matura signora, Philomena (un’intensissima Judi Dench), infermiera in pensione che ha mantenuto intatta la propria dignità, seppur venata dal rimpianto per il figlio perso. Ma questo rimpianto non le ha ancora fatto rinunciare all'idea di avere notizie di suo figlio, di ritrovarlo, e inaspettatamente la vita le viene in aiuto tramite un giornalista, Martin (un bravissimo Steve Coogan) che è stato silurato dall'establishment di Blair e che accetta, pur con qualche perplessità, di aiutarla nella ricerca.

Il film racconta allora il viaggio che Philomena e Martin hanno realmente compiuto alla ricerca del figlio perduto di Philomena, dall'Inghilterra all'Irlanda e poi a Washington. Innanzi tutto l'istituto religioso in Irlanda dove le suore negano educatamente, ma fermamente, ogni informazione, anche se nei dintorni tutti sanno che i bambini erano stati venduti a coppie americane per 1.000 sterline e che i registri erano stati nel tempo bruciati, con l’eccezione dei documenti in cui le madri naturali firmavano l'impegno a non cercare i propri figli né a mettersi in contatto con loro.

Poi la coppia Philomena-Martin approda negli Stati Uniti dove finalmente le domande e le angosce di Philomena trovano delle risposte, anche se non a lieto fine come tanta filmografia americana ci ha abituato. Il figlio perduto viene ritrovato, ma sarà troppo tardi per riabbracciarlo, così il finale sarà amaro, ma venato di dolcezza e profonda consapevolezza.

Colpisce il fatto che la storia narrata sia vera e che il viaggio mostrato nel film sia avvenuto realmente, diventando un libro. Philomena ha infatti chiesto a Martin di scriverlo affinché tutti sapessero cosa accadeva in Irlanda negli anni ‘50/’60 e per dare speranza a tutte le donne che ancora oggi continuano a cercare i loro figli.

Questa sconvolgente storia è così diventata lo spunto per una serie di riflessioni, che si sovrappongono nei vari livelli narrativi: l’amore materno, la repressione delle norme sociali, il ruolo della Chiesa, il rapporto con la fede, la comunicazione tra livelli sociali e culturali differenti che, sembra suggerire il film, è sempre possibile quando è mediata dal cuore. Philomena include tutti questi elementi per regalarci un film di rara intensità e sensibilità. Ho esitato a lungo ad andare a vederlo, perché la storia mi sembrava una tipica storia strappalacrime, ma in realtà Frears riesce, partendo da una storia dolorosa, ad allargare lo sguardo ad una riflessione più ampia che tocca l’individuo e il suo rapporto con il sociale. Non da ultimo è il rapporto tra la visione della vita di Philomena, che rimane ancorata alla Fede, e quella di Martin che si appella costantemente alla Ragione.

Nella nostra visione post-reichiana è di grande interesse osservare come la repressione sociale, ovvero la dinamica peccato/senso di colpa, sia stata nei secoli, fin quasi ai giorni nostri, utilizzata dalla Chiesa per generare grande sofferenza negli individui, togliere loro la possibilità di scegliere e creare individui corazzati. Le rigide norme, la morale sociale coercitiva per citare una termine caro a Reich, permettono il perdurare della nevrosi, l’impossibilità per l’individuo di trovare una propria dimensione di felicità e integrazione. Questa osservazione era valida ai tempi di Reich, ai tempi di Philomena, ma rimane tuttora valida. Reich studiò approfonditamente il rapporto tra le norme sociali e la generazione delle nevrosi, lo fece in modo più articolato sulle classi sociali rispetto a Freud e dimostrò come le norme repressive costituite, la povertà delle classi meno abbienti abbiano conseguenze non solo sul loro livello di vita, ma anche sulla loro salute psichica.

E’ passato quasi un secolo da quando Reich faceva le sue osservazioni sulla base del consultorio psicoanalitico che dirigeva a Vienna e i dettami sociali sono cambiati. Non viviamo più in società gerarchicamente costituite e fondate su una morale repressiva validata dalla religione, ma la rarefazione del nostro vissuto sociale, il suo essere liquido, la mancanza di riferimenti certi ideologici, morali, comportamentali generano altri tipi di disagi, ma comunque nevrosi o psicosi delle quali si continua a soffrire.

La dignità di Philomena nel film di Frears rimanda a una dignità e un’accettazione propria di un individuo integrato, Philomena esce in qualche maniera indenne dai traumi causati dalle regole del tempo in cui viveva, conserva la sua integrità di donna e di madre. Spesso non è così, e la disfunzione delle relazioni intorno a noi mina gravemente il nostro centro psichico, la nostra capacità di essere nel mondo e di amare.

 

Il lavoro che Reich sviluppò per tutta la vita è stato proprio in questa direzione, verso il ripristino della nostra parte vitale più profonda, della nostra possibilità di pulsare con la vita e di ricollegarci così a tutto quello che ci circonda. Noi psicoterapeuti post-reichiani cerchiano di mantenere viva questa conoscenza e pratica clinica.

 


 * Psicologa, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R., Vicepresidente SIPAP

Share