Numero 1/2014

Dall'adulto al bambino
Alla ricerca delle tracce infantili

Marilena Mazzolini*

 

“La Sig.ra Darling non esce spesso a cena perché, quando i bambini sono a letto, preferisce sedersi lì accanto e mettere in ordine le loro menti, proprio come fossero cassetti. Se Wendy e i suoi fratelli riuscissero a rimanere svegli, potrebbero vederla mentre sta piegando e rimettendo a posto tutti gli oggetti della mente che si sono sparpagliati durante il giorno: meditare su alcune delle cose che contengono, domandarsi di una dove mai avranno potuto trovarla, fare dolci scoperte e altre meno dolci, premersi una cosa contro la guancia e metterne in fretta via un’altra. Quando si svegliano al mattino, le cattiverie con le quali sono andati a dormire non sono, ahimè, scomparse, ma stivate ben in fondo al cassetto, mentre in cima, meravigliosamente esposti, stanno i pensieri più belli pronti per il nuovo giorno”. (Barrie, 2003, pag.37)

It is a joy to be hidden, and disaster not to be found. Donald W. WinnicottIt is a joy to be hidden, and disaster not to be found.
Donald W. Winnicott
Francesco è un bambino grazioso, di carnagione e capelli chiari, ha una corporatura esile. Nel suo viso, dai lineamenti regolari, è visibile una cicatrice alla radice del naso, esito degli interventi e dei traumi subiti nella prima infanzia. Incontro Francesco tre volte, e mentre in ognuno degli incontri ci accingiamo a giocare, davanti ai miei occhi si concretizza la medesima scena.

La cesta dei giochi posta al centro del lettino presente nella stanza, guadagna, in un modo che ogni volta mi appare misterioso, il bordo del lettino stesso e, quando meno me lo aspetto, cade rovinosamente sul pavimento sparpagliando i giochi per tutto il tappeto. È un delizioso bimbetto di 3 anni e mezzo, e lo incontro per una valutazione peritale. Una valutazione sul danno psicologico/esistenziale, in quanto il danno fisico sarebbe stato comunque valutato da altro collega.

La nascita di Francesco è stata una nascita traumatica, in quanto il piccolo è caduto dalle mani dell’ostetrica che aiutava il parto.

Durante tale caduta Francesco ha ricevuto un colpo alla radice del naso e la frattura del parietale con relativo ematoma epidurale, per quest’ultimo è stata necessaria un’operazione chirurgica e sono stati effettuati, con regolarità, i necessari controlli mediante T.A.C. Francesco ha, inoltre, subito un intervento chirurgico all’età di otto mesi essendogli stato diagnosticato un glioma in sede nasale. L’intervento è stato di tipo otorinolaringoiatrico, anziché neurologico.

Anche in questa circostanza, l’ospedalizzazione e le pratiche mediche hanno suscitato nel bambino e nei suoi genitori ansie di danneggiamento piuttosto intense, che sono andate ad aggravare le paure ed i timori preesistenti. Inoltre, i genitori riferiscono che il bambino, all’età di 6 mesi, è caduto dal lettino, lussandosi la spalla.

Terminata la valutazione non ho mai più avuto modo di incontrare Francesco, ma nonostante questo buco che si costituisce inevitabilmente come una mancanza di notizie e di dati, ho sentito che questo caso poteva aiutare a ragionare sulla trasformazione nello sviluppo degli eventi traumatici, ma soprattutto sulla costruzione di percorsi simbolici che accompagnano la crescita e che si depositano come nuovi prodotti nella mente dell’adulto.

Mi è apparso immediatamente evidente che la traumatica caduta di Francesco, avvenuta alla nascita, nel momento in cui ancora la mente non ha ancora un assetto ed un funzionamento, potesse aiutare a guardare le trasformazioni avvenute già nel breve tempo di vita del bambino.

È finanche troppo evidente che la caduta misteriosa ed improvvisa della cesta con i giochi ed il relativo sparpagliamento degli oggetti posti al suo interno possa rappresentare per Francesco quella dolorosa caduta ed il relativo stato somatico che ne è conseguito.

Un andare dolorosamente in pezzi. Ma non saremmo analisti se non ci interrogassimo sull’evento caduta intorno ai sei mesi di vita del bambino, quella brutta lussazione alla spalla, da dove sarà esitata? Certo l’incuria ambientale appare drammatica e su molti versanti extra ed intrafamiliare.

Ma, mentre osservo il bambino e rimango spettatrice inerme del ripetersi della vicenda traumatica per la quale in quest’occasione non troverò parole, ma diventerò mera osservatrice, non posso non cogliere l’evoluzione che il bambino sta già tentando di proporre e che per essere meglio elaborata dovrà in qualche modo essere ripercorsa in una futura analisi.

La caduta con relativa lussazione della spalla ai sei mesi è stata la ripetizione, seppure meno violenta e catastrofica, del primo trauma. La caduta della cesta per quanto misteriosa, improvvisa ed aliena al bambino stesso che non sembrava procurarla attivamente, ma come già accaduto per la caduta dalle mani dell’ostetrica e dal lettino, sembrava subirla, ebbene questa caduta si configura come quell’embrionale tentativo della mente di dare senso ad eventi iscritti nel soma, eventi precoci non affrontabili da un’organizzazione mentale in quanto questa non è ancora presente.

Ma questa scena evoca domande: dove si depositano quelle prime esperienze traumatiche, quelle che Winnicott definirebbe agonie primitive, che non a caso l’analista descrive come una sensazione di cadere in un vuoto infinito?

Le possiamo intercettare nella lunga ed interminabile sensazione di precipitare senza trovare mai un atterraggio, come può accadere spesso nella condizione di sonno/sogno? Quella sensazione di essere in una sorta di caduta libera senza contatto e carica di solitudine?

Ma soprattutto cosa e quanto si trasforma di questi primi eventi?

Sono interessata a riflettere non solo sul lavoro speleologico di un analista che è alla ricerca di quanto sta sotto la superficie e ben attrezzato di strumenti efficaci, si inabissa strato dopo strato nella psiche del paziente, ma anche su quanto e come gli eventi e le esperienze infantili si trasformino già durante lo sviluppo stesso e su cosa rimanga nell’adulto anche in relazione al rimaneggiamento che le varie tappe di sviluppo del soggetto hanno messo in gioco.

Sono interessata innanzi tutto a porre alcuni paradigmi che penso siano ovvi ai più, quelli che per tutti noi sono considerati concetti primitivi, ovvero qualcosa che non necessita una descrizione, spiegazione o definizione in quanto patrimonio comune e di base della nostra materia.

Le esperienze infantili sono parte integrante della biografia dell’individuo, e parte integrante della storia di ogni persona.

E fino qui non penso di affermare niente che non sia noto e condiviso, ma il punto su cui mi vorrei fermare a riflettere è come e cosa intanto ne fa la mente infantile in crescita di queste esperienze, che verranno consegnate alla struttura adulta di personalità non per come sono state all’origine sperimentate, ma per come lo sviluppo in età infantile le ha già a suo modo ridisegnate.

Confesso che ciò mi sembra cosa ardua, infatti mentre l’occuparsi di un bambino o di un adolescente consente di lavorare su di un campo ancora in evoluzione, ma sufficientemente vicino agli eventi, l’età adulta consegna il rebus dell’organizzazione di personalità.

Mentre penso a questo mi consento di continuare ad associare metafore ed immagini e mi viene in mente il mio viaggio di quest’estate in Islanda.

È stato come entrare in una macchina del tempo ed andare ad osservare la terra come poteva essere qualche milione di anni fa, una terra giovane, attiva e straordinariamente vitale.

Ecco: tornare in Europa è come lavorare con l’adulto, si entra in contatto con un ambiente in cui la tragedia e la magnificenza del trasformarsi continuo e violento è già alla spalle; mentre in quella terra giovane tutto è in divenire, ma anche più facilmente decodificabile.

Allora l’interrogativo per Francesco, che oggi sarà probabilmente un giovane adulto, è: cosa ne avrà fatto dell’antica caduta avvenuta al parto? Ma soprattutto, e sembrerà assurdo, a me preoccupa cosa abbia potuto fare della sua caduta a 6 mesi.

Sarà avvenuto, come spesso nella clinica abbiamo avuto modo di constatare, che il secondo e più lieve trauma si è configurato come più catastrofico di quello originario e devastante?

Vorrei che ripensassimo al concetto di trauma in Freud, ma soprattutto per come Baranger ce l’ha descritto.

Il trauma diventa tale solo quando la mente se ne è potuta impossessare come tale e lo ha assunto dentro di sé.

Il trauma cade sempre fuori dalle funzioni dell’Io, perché non sarebbe trauma senza l’annichilimento delle funzioni dell’Io stesso, quando queste ci sono, ma quando come per Davide, l’Io è ancora di lì da venire, il trauma cade nel soma. E ancora però dobbiamo aggiungere che il trauma sarà tale solo quando la mente in apres-coup lo renderà trauma.

Ovvero solo a posteriori. Di qui il senso del titolo di questo mio lavoro: il bambino che ognuno di noi è stato non esiste finché l’adulto che noi siamo non lo riconosce e gli consegna in qualche modo uno statuto di esistenza.

Vedendo un adulto spesso siamo costretti a riflettere come il bambino che quell’adulto è stato non sia ancora psichicamente integrato; questo non significa che quel paziente non abbia avuto infanzia, ma solo che parte di una serie infinita di vicende infantili è rimasta fuori dall’Io, ma anche dalle funzioni integrative della psiche stessa, ed appare depositata negli assetti residuali somatici, ma anche a volte sull’ambiente circostante.

È il paziente che quando viene in seduta fa da subito pensare che per quella persona sarà più importante il setting, l’ambiente, piuttosto che la relazione stessa.

Sono quei pazienti che, a vari livelli d’integrazione e/o di non integrazione, noi possiamo andare a ritrovare nelle considerazioni di Searles sul paziente borderline o nei saggi di Winnicott sul paziente che non ha ancora raggiunto la relazione d’oggetto e vive ancora solo una relazione con l’altro inteso come ambiente e non come persona.

Sono quei pazienti per i quali, a vari livelli ed in modi diversi, ci troviamo ad esercitare, consapevolmente od inconsapevolmente, una relazione di accudimento ambientale. Quelli per cui l’interpretazione diviene come la famosa minestra troppo calda da ingoiare che ci descrive in un passaggio clinico il formidabile Antonino Ferro nel lavoro analitico con una sua paziente adulta.

Ma, oltre a questi pazienti particolarmente sofferenti, ancora in una condizione primitiva della mente, la statuto infantile del paziente si presenta sempre all’arrivo ed al commiato in seduta.

Ci sono dei momenti elettivi nella seduta in cui noi non abbiamo dinnanzi a noi un adulto, qualsiasi sia il livello di organizzazione e di strutturazione del paziente, ma sempre e solo il bambino che quel paziente è stato. Tra questi momenti penso siano topici l’inizio e la fine dalla seduta, ma anche i silenzi ed i fuori campo analitici.

È lì che si insinua la parte più sofferente, ma anche quella infantile, o perlomeno i residui inelaborati delle vicende infantili.

Poiché, però, la psiche di un adulto non esita solo da ciò che di infantile rimane inelaborato, ma soprattutto, si spera (altrimenti il paziente che abbiamo di fronte sarebbe veramente grave) da ciò che delle vicende infantili il bambino elabora e trasforma secondo le tappe di sviluppo ed i passaggi evolutivi.

Dato per scontato che l’infanzia sia un cardine nella formazione dell’individuo, quello che mi interessa approfondire è che cosa e come quell’infanzia è stata utilizzata da quella persona e come le vicende infantili vengano continuamente rimaneggiate dall’adulto che abbiamo davanti, durante i cicli della vita, ma anche e soprattutto durante i passaggi a valenza traumatica della vita adulta.

Vorrei per il primo passaggio, ovvero come lo sviluppo infantile stesso rimaneggi i traumi inscritti nel tempo dell’infanzia, riportare un passaggio clinico relativo alla valutazione testologica di Francesco.

Francesco è stato accompagnato ai diversi incontri dalla mamma alla quale appare molto legato e dipendente, come peraltro fisiologico per l’età stesa del bambino. Il bambino, però, ha mostrato una spiccata difficoltà a separarsi dalla mamma, difficoltà resa manifesta dal suo pianto, con cui esprimeva il sentirsi preda di intensi sentimenti abbandonici.

Ha in bocca il ciuccio che sembra non riuscire a soddisfare appieno una funzione consolatoria.

Avvia il disegno della balena eseguendo una forma circolare, che divide a metà, mediante una linea dall’andamento incerto, che non separa nettamente il cerchio. Accanto esegue due piccoli segni e commenta: “La balena vuole fare la battaglia e batte... sul culetto”. Così dicendo traccia con il colore azzurro un piccolo cerchio. Poi aggiunge: “Un sacco con i fiori... lo sto facendo proprio per te (rivolgendosi alla mamma), così non me lo rubano.” Si alza e consegna il foglio in cui ha eseguito questo disegno alla mamma.

Tuttavia, Francesco ha una ridotta capacità di attenzione e di concentrazione e dovrò desistere dal proporgli ulteriori disegni, giacché la sua attenzione si concentra sul temperare le matite, attratto dalle scorie che si producono e dalla necessità di operare delle differenze tra i diversi oggetti presenti sul tavolo, non tutti suscettibili di essere sottoposti alla stessa operazione. Questi processi psichici sembrano affaticarlo e Francesco si volge alla madre assumendo un comportamento che, se da un lato, ha un carattere regressivo di ricerca di un contatto sensoriale (chiede che la mamma gli accarezzi i piedi), dall’altro, ad ogni sua interruzione, reagisce con un linguaggio adultomorfico ed imitativo, così scurrile e triviale da disorientarmi. Mi è davvero difficile mettere insieme questo bambino così esile, minuto e bisognoso, con le bestemmie e le parolacce che profferisce e rivolge alla mamma. Quest’ultima, dal canto suo, è imbarazzata e disorientata, chiede suggerimenti.

Al secondo incontro traccia sul foglio un cerchio e poi lo ripassa con insistenza, commentando si tratti di un cuore. “È per mamma... è di mamma... tu non hai fatto niente stronza... hai capito? Tutto bianco a questo disegno... Cosa vuoi di più? La merda? Un pulmino rosso? Me lo ha regalato papà... quello stupido... anzi quello stronzo...”.

La rabbia di Francesco mi sembra da ricondurre ad una intensa conflittualità interna. Il bambino teme di investire il nostro rapporto, quasi possa tradire la mamma e perdere l’intimità e la fusione con lei. La sua rabbia segnala lo spavento di compiere i processi separativi, condizione che lo spinge ad attaccare in fantasia il proprio padre, che percepisce ugualmente minaccioso e di ostacolo alla fusione con la figura materna.

Ma la fusione con la madre perduta bruscamente e doppiamente, dopo la tragica caduta, come lo sta condizionando e come le spinte evolutive lo aiutano o lo ostacolano nella rivisitazione psichica di un trauma di cui non si conosce l’esistenza se non per la sua dolorosa presenza?

La separazione necessaria per il pieno compimento dello stadio anale, e l’avvio alle tappe successive, viene caricato di angosce di perdita e di morte, e si esprime nel turpiloquio violento e disorganizzante, ma anche nella pseudo-identificazione con l’adulto e con l’aggressore.

Quale sarà l’Edipo? Quale resa emotiva all’oggetto potrà mai sviluppare questo bambino quando vivrà la sua intimità di adulto? quale coppia? gli sarà necessario il controllo ed il dominio dell’oggetto che l’analità gli consente e gli sostiene? potrà accedere ad una dimensione di maggior integrazione con l’altro?

Quando rivedo Ludovico, anni 19, sono emozionata e felice. E’ stato mio paziente in una psicoterapia a tre sedute a settimana per circa 4 anni.

Era venuto da me con una diagnosi effettuata presso un Reparto della Neuropsichiatria Infantile che recitava Disturbo generalizzato dello sviluppo, aveva solo 3 anni e qualche mese. Pochi incontri per rendermi conto che dietro all’assenza di aggancio dello sguardo, tratti autistici e disturbi del comportamento, il bambino era affetto da un disturbo specifico del linguaggio.

Era così sofferente che non abbiamo potuto avviarlo nell’immediato ad una riabilitazione logopedica, in quanto i tratti di isolamento e le sporadiche, ma disturbanti stereotipie precludevano qualsiasi riabilitazione perché impossibile stabilire con lui una relazione.

Un anno di lavoro a tre sedute a settimana e, come in un domino, le difese simil-autistiche venivano giù una dopo l’altra, tanto da consentirci dopo neanche 8-9 mesi di avviare la riabilitazione logopedica, di cui il bambino si è giovato enormemente.

Ludovico ha finito le scuole superiori e non ha mai avuto bisogno di altri interventi.

La mamma me lo riporta perché, finite le scuole superiori, dovendo recarsi in vacanza con un gruppo di amici in un viaggio in Europa, Ludovico ha sviluppato delle ansie intense al limite di un attacco di panico per cui non si sente in grado di volare.

La mamma mi racconta che durante la primavera Ludovico ed i suoi amici, un simpatico ed affiatato gruppo di ragazzi che suonano e amano l’arte, hanno subìto qualche atto di bullismo da coetanei, da allora Ludovico ha sviluppato importanti crisi di ansia.

Vengono a trovarmi con l’idea fiduciosa che troveremo insieme una soluzione, come avvenuto in passato.

Quando lo rivedo, Ludovico mi racconta le sue ansie e nella voce che fatico a riconoscere in quanto ormai diventata adulta, sento una gutturalità del tono delle parole, che rimanda al disturbo del linguaggio ed ai lunghi anni di riabilitazione.

Ma sostanzialmente Ludovico è sufficientemente integrato, lo sguardo a tratti si allontana, ma io so per averli conosciuti da vicino che quelli sono i residuati delle antiche problematiche infantili.

Mi chiedo cosa potrò fare per lui in questo nuovo incontro e allora decido di parlare con il medico di base e far portare a Ludovico con sé un blando ansiolitico, da usare al bisogno, per sopportare l’ansia del volo e superare quei brutti momenti, una boccetta con sé e via in vacanza, d’altronde siamo ormai a luglio. Saprò dalla mamma che Ludovico è andato in vacanza e se l’è potuta godere, se capisco bene ha portato con sé l’ansiolitico, ma non lo ha mai usato.

D’altronde la funzione analitica in adolescenza a volte può essere anche quella di non impegnare nuovamente l’adolescente in un lavoro di dipendenza e fornire invece un piccolo aiuto, che però non contrasti il compito adolescenziale relativo allo svincolo.

Vorrei riflettere su come, nel momento in cui sottoposto a nuovo evento stressante e dovendo trovare una risposta psichicamente utile, in Ludovico la difesa simil-autistica e la pervasiva sintomatologia connessa ad un’ipotesi di disturbo dello sviluppo si siano potute trasformare, già all’interno del solo tempo dello sviluppo infantile, in un sintomo a caratura nevrotica come la fobia del volo.

Quali potranno essere le soluzioni future per Ludovico quando, una volta adulto, la vita gli consegnerà altri momenti di passaggio e/o di stress?

È il limite del nostro lavoro che ci è utile spesso per risignificare, raramente per fare prognosi.

Vorrei riflettere sul senso che avrebbe avuto invitare, a differenza di come ho scelto di fare, il paziente ad una nuova tranche di analisi. L’analisi di un adolescente, a mio avviso, deve essere sempre molto seriamente motivata.

Infatti l’analisi esercita per i bisogni adolescenziali un’incidenza forte e per certi versi contro-evolutiva che trova una sua giustificazione nei casi di importante necessità, comunque se seriamente richiesta dal soggetto.

Per Ludovico posso immaginarmi invece la ripresa di un’analisi in età adulta, quando un bravo collega, attento anche alle sue vicende infantili, lo aiuterà, dopo averne ricercato gli esiti e le tracce, a formularne una nuova iscrizione, consegnando all’uomo una nuova storia con un diverso significato.

Riprendo il senso dell’esordio: Peter Pan, il bambino che non voleva crescere, è il rappresentante della nostra parte infantile, quella che ostinatamente rimane ancorata alla condizione bambina e che non vuole, ma soprattutto non può crescere, pena la perdita della creatività e della ricchezza della fantasia.

Ma la Sig.ra Darling, la nostra parte adulta per lo più presente in tutti gli adulti, a volte rappresentata dal lavoro analitico, conduce durante il sonno dei bambini quell’attento lavoro di rêverie, di trasformazione, quel lavoro che è deputato anche al sogno, ma che nel lavoro come analisti ben conosciamo.

Ecco, in questo lavoro un analista dovrà, una volta guardati con attenzione i pensieri più brutti e dolorosi, tirar fuori dalla parte più profonda del cassetto i pensieri più belli per il nuovo giorno.

 

Bibliografia
  • Baranger, W., Baranger, M. (2011), La situazione psicoanalitica come campo bi personale. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Barrie, J. (2003), Peter Pan, il bambino che non voleva crescere. Milano: Feltrinelli Editore.
  • Ferro, A. (1992), La tecnica nella Psicoanalisi infantile - Il bambino e l'analista: dalla relazione al campo emotivo. Milano: Raffaello Cortina ed.
  • Searles, H., F. (1988), Il paziente Borderline. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Winnicott, D.,W. (2002), Sviluppo affettivo e ambiente – Studi sulla teoria dello sviluppo affettivo. Roma: Armando Editore.

 * Psicoterapeuta dell'età evolutiva, Presidente SIpSIA


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