Numero 1/2018

THE SQUARE

Regia di R. Östlund | Svezia 2017

A cura di Luisa Barbato*The Sqare locandina Film.jpg

 

       The Square è il film dello svedese Ruben Östlund che ha vinto la Palma d’Oro a Cannes 2017.
       
       Christian, il bravissimo Claes Bang, è il direttore del un museo di arte contemporanea di Stoccolma. Padre divorziato, con due figlie, si dedica anche a iniziative umanitarie.
       Il film si apre con una sequenza in cui accade che Christian venga derubato di smartphone e portafogli mentre cerca di evitare in strada una lite tra una coppia, vittima quindi di una truffa molto comune.
 
       Interdetto di fronte all'accaduto, forse travolto lui stesso dalle conseguenze di tanto altruismo, Christian elabora uno stratagemma per riprendersi il maltolto, che lo porta ad accusare direttamente del furto un'intera classe sociale - immigrati, disoccupati, piccoli delinquenti - rappresentata da un palazzo dormitorio dove dovrebbe trovarsi la refurtiva e dovrebbero abitare, quindi, i presunti ladri.
 
       Questa strategia funzionerà persino troppo bene e terrà Christian talmente occupato da fargli perdere di vista il surreale lancio pubblicitario della nuova installazione del museo: The Square appunto. Si tratta di un intervento urbano concettuale che smantella una sezione quadrata del porfido della piazza antistante il museo e ne riempie il profilo con un materiale luminescente, creando così un quadrato di quattro metri per quattro che rappresenta uno spazio virtuoso. "Un santuario di fiducia e altruismo, al suo interno tutti condividiamo uguali diritti e doveri", come recita una targa posizionata accanto al Quadrato che invita i visitatori a riscoprire concetti come l’altruismo e a ricordare i loro doveri allo sguardo degli altri.
 
        Un'opera reale, per così dire, che lo stesso Östlund aveva installato nel 2014 nella cittadina di Värnamo. Nel contempo Christian sta organizzando per l’evento una campagna pubblicitaria notevole che però si spinge oltre i limiti. Si tratta di un video, che diventa subito virale, in cui una bambina indigente è lasciata dentro al Quadrato a disperarsi mentre si avvinghia a un gatto, strapazzandolo, finché non esplode.
 
        Il video pubblicitario crea indignazione e notevoli critiche a Christian che si trova così travolto su più fronti: il rapporto con i presunti ladri dei suoi averi, rappresentati da un ragazzino non appartenente alla sua classe sociale patinata che lo viene a cercare e a rimproverare, e l’indignazione dell’opinione pubblica per il video troppo provocatorio.
 
       Ma, più in generale, è l’effimera costruzione della sua vita che viene scompigliata, vita simboleggiata dalle opere d’arte contemporanea che il film ci propone continuamente come sfondo alle spesso surreali scene del film.
 
       Si tratta di cinema freddo, quasi gelido, in cui il protagonista si muove nella fragilità delle costruzioni intellettuali e artistiche contemporanee, cui fa da contrappeso la presenza ricorrente dei poveri, degli indigenti, degli emarginati che popolano Stoccolma, così come ogni altra città contemporanea europea.
       Di fronte a tutta questa massa silenziosa, simboleggiata dalla bambina che esplode nel video, si palesa la crisi della responsabilità, dell’egualitarismo e della solidarietà che il Quadrato vorrebbe rappresentare.
 
       Ma questa crisi nella comunicazione, la freddezza e l’egoismo della cultura contemporanea occidentale sono talmente pervasivi che sembra non ci sia via di uscita. Tutto ciò è ben rappresentato nella magistrale scena clou del film in cui, durante il diner placé dei trustees del museo, viene organizzata una performance a sorpresa realizzata da Oleg (il bravissimo Terry Notary), un artista convinto di essere una scimmia.
 
      Oleg irrompe nella cena di gala, seminudo, portando tutta l’istintività animale, l’assenza delle buone maniere e l’impulsività che sembrano escluse dalla cultura artistica e borghese contemporanee. Ma la performance va fuori controllo, o forse è voluto così, non lo sappiamo, fino ad arrivare alle estreme conseguenze, quando solo la possibilità di uno stupro scuote le coscienze dei presenti.
 
       Questi ultimi fino ad allora erano stati in piena crisi di responsabilità, subendo le angherie di Oleg, ma decisi fino alla fine a non immischiarsi, mostrando quella passività ben pensante che tanto caratterizza la cultura occidentale contemporanea di fronte ai drammi attuali del nostro mondo globalizzato. La figura del bestione Oleg non si limita tuttavia solo alla sequenza della performance, ma è presente di sottofondo un po’ in tutto il film.
 
        Lo vediamo ritratto in vari filmati come sfondo nelle sale del museo o nelle stanze dove si svolgono le riunioni di lavoro. Oleg potrebbe simboleggiare il rimosso, tutto ciò che viene escluso dalla cultura e dall’arte contemporanee, tutto quello che non includono le nostre costruzioni mentali. È l’istintività senza freno, l’animalità dimenticata, la pulsionalità, il reale lacaniano, il mito del godimento assoluto e deregolato. Come dire che, se ci allontaniamo dal corpo come essere pulsante, vibrante, se perdiamo la nostra integrità di esseri umani, non rimane che il divario tra l’intellettualità fredda e narcisistica, spesso rappresentata dall’arte contemporanea, e l’istintività che ogni tanto prende il sopravvento in maniera selvaggia.
 
        Questa oscillazione costituisce il vero rischio del nostro vivere sociale. Nel film manca infatti la mediazione delle emozioni e del corpo. I personaggi sono come astratti, persi nei loro ruoli e nella loro eleganza patinata. Anche i rapporti sessuali sono ginnici, privi di contatto, non lasciano segni. Non si riesce ad uscire dalla prigione del proprio narcisismo.
 
Quando in analisi reichiana si parla di integrità psico-fisica, ci si riferisce al vecchio concetto dell’uomo genitale di Wilhelm Reich, concetto mitico e un po’ idealizzato, che nel pensiero contemporaneo reichiano decliniamo come integrazione tra il piano fisico, quello emozionale e quello cognitivo. In un percorso di analisi del profondo, le divisioni interiori che il film drammatizza così bene vengono sanate permettendo ai vari piani di esprimersi e di comunicare.
 
         Nel film l’irrompere delle emozioni segna nel protagonista una crisi personale, l’affondare nel caos e nella disperazione. Il contatto con il bambino povero, che reclama il proprio onore infangato dalla lettera accusatoria del borghese colto, lo mette a contatto con tutto il suo narcisismo e aridità. Christian non sa come uscirne, se non auto-giustificandosi, riappellandosi quindi al proprio narcisismo, alla propria struttura e infine umiliando il bambino.
 
         Ma il contatto con le emozioni può essere molto di più, può segnare il rivivere la storia della propria vita, finalmente far affiorare tratti caratteriali dimenticati, lasciarsi andare al fluire della paura o del dolore o della vergogna o altro, in piena consapevolezza, accettando, lasciando scorrere nella presenza della propria energia.
 
         Allora iniziamo ad essere integri, ad esprimere una cultura non intellettualistica, a guidare la nostra pulsionalità in modo intelligente.
       
         Allora iniziamo ad essere consapevoli, allora possiamo aprirci a piani più elevati di aspirazione e spiritualità cui l’arte dovrebbe tendere e che costituiscono l’unica vera possibilità per un cambiamento della coscienza individuale e collettiva. L’emergenza contemporanea che il film sottolinea ha bisogno di un vero Square, ossia di una spazio interiore in cui far comunicare i nostri diversi livelli di funzionamento alla luce di una auto-consapevolezza più profonda.
 
Psicologa, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R., Vicepresidente S.I.P.A.P.
Share