Numero 2/2019

L’ USO DEL CINEMA NELLA FORMAZIONE DEGLI PSICOTERAPEUTI

 

Giuseppe Ciardiello[*]

“… Un corpo in apparente condizione di riposo, di non attività, è strutturato da un insieme di gesti appena accennati che non si sviluppano spazio-temporalmente in azione esplicita ma che in nuce sono presenti a dare forma all’espressività. Quindi un corpo viso è un insieme integrato di gesti ad alto significato relazionale! … abbiamo non solo una gerarchia di gesti, ma anche almeno due livelli di attività: gesti che appena accennati costituiscono la struttura espressiva dell’Io nel corso della sua storia in qualche modo cristallizzati, e gesti attuali di differenti livelli e significato.

(V. Ruggieri)

Abstract

        Quando ci si sottopone ad una proiezione cinematografica, nell’organismo degli spettatori si attivano alcuni processi neurofisiologici che li fanno sentire totalmente coinvolti. Alcuni di questi processi, la proiezione, l’identificazione, l’identificazione proiettiva, la dissociazione e la disidentificazione, oltre che accompagnare la visione di film, sono anche quelli maggiormente attivi nella pratica psicoterapeutica e che oggi le neuroscienze designano come incarnati. Proprio perché sperimentabili durante la visione cinematografica, questi processi possono essere meglio compresi utilizzando il cinema come strumento sia ludico sia didattico.

Parole chiave:

apprendimento formale, informale, non formale, empatia, atto motorio, simulazione incarnata

Abstract

During a movie show, some basic neurophysiological processes are activated in the audience’s bodies, which make them feel totally engaged. Some of these processes, such as projection, identification, identity projection, dissociation and detachment, not only occur with the viewing experience, but are also primarily found in psychotherapy practice, and today are considered from neuroscience as ingrained. Such processes, because applicable during the viewing experience, can be better understood by employing movies as both recreational and didactic tools.

Key words:

Formal learning, informal, not formal, empathy, motor action, embodied simulation.

 

     L’inciso all’inizio di questa presentazione racconta del substrato fisiologico di comportamenti che, realizzandosi individualmente, fungono da autosegnalazioni per i meccanismi neurologici centrali cerebrali che svolgeranno, a loro volta, i processi riferiti nel corso del presente lavoro. Sono praticamente la base fisiologica dei processi intersoggettivi che, realizzandosi in una circolarità soggettiva dell’organismo, centro-periferia, contribuiscono a dargli una forma e un carattere.

     La vita di ogni organismo si svolge sotto la spinta della tensione ad apprendere e, per quanto riguarda l’essere umano, fin dal concepimento vengono accumulate complesse informazioni che, integrandosi con quelle preesistenti, sono di volta in volta utilizzate per meglio modulare la relazione con il contesto (l’altro da sé).

    Questa forma di apprendimento è automatica e, come tale, oltre che avvenire in ogni contesto quotidiano, si realizza senza sforzo, inconsapevolmente e in maniera congeniale alla dinamica organismica.

    Questo tipo di apprendimento può essere definito implicito e caratterizza particolarmente la modalità ludica. Il gioco, il divertimento e la convivialità producono un apprendimento informale che, opportunamente utilizzato, può contribuire a dare una forma comunicabile ad un sapere che già si conosce ma non si sa di sapere o non si sa mettere in parole. In questo articolo si discute dell’utilizzazione del media cinematografico.

Le modalità didattiche in Psicoterapia

     Le scuole di psicoterapia prevedono l’apprendimento di nozioni generali e specifiche che, mirate al paradigma da cui la scuola stessa discende, presentano un proprio punto di vista clinico.  … si basano su uno sforzo conscio di costruzione di una teoria della interazione terapeutica, altrimenti la terapia non potrebbe essere riprodotta né insegnata. Naturalmente essa esisterebbe, ma non potremmo parlarne, e l’analista dovrebbe basarsi solo sulle proprie intuizioni idiosincratiche su come condurre un trattamento”. (Gallese, Migone, Eagle, 2006, pag. 570).

     Per quanto riguarda i metodi di insegnamento adottati, la maggior parte delle scuole si avvalgono di metodi formali, trascurando spesso le modalità alternative.

     I diversi metodi d’insegnamento possono essere così sintetizzati:

  • Apprendimento formale: si tratta di quell’apprendimento che avviene in un contesto organizzato e strutturato (in un’istituzione scolastica/formativa), è esplicitamente pensato e progettato come apprendimento e conduce ad una qualche forma di certificazione;
  • Apprendimento non formale: è l’apprendimento connesso ad attività pianificate ma non esplicitamente progettate come apprendimento (quello che non è erogato da una istituzione formativa e non sfocia normalmente in una certificazione, ad esempio una giornata di approfondimento su un problema lavorativo nella propria professione);
  • Apprendimento informale: le molteplici forme dell’apprendimento mediante l’esperienza risultante dalle attività della vita quotidiana legate al lavoro, alla famiglia, al tempo libero, non è organizzato o strutturato e non conduce alla certificazione (ad esempio un’appartenenza associativa).

     Malgrado la consuetudine, in linea teorica oggi le procedure di insegnamento che si avvalgono  di ambienti appositamente deputati non sono più considerate molto valide perché l’apprendimento è visto come un processo che si estende sia in una dimensione verticale (l’intero arco dell’esistenza: lifelong learning) sia in una dimensione orizzontale (tutti gli ambiti della vita: lifewide learning). Si ritiene quindi che:  “L’espressione completa diventa allora lifelong lifewide learning con cui tempi e spazi dell’apprendimento si allargano sino a comprendere ogni ambito di vita ed ogni tempo del soggetto” (Batini, 2006, Pratika).

     Ciononostante però nella realizzazione pratica l’apprendimento informale e non-formale non godono di tutta l’attenzione che meriterebbero e si tende a restare fedeli ai metodi tradizionali. Forse perché meno dispendiosi in termini di investimento energetico, di spazio e di tempo.

     Al contrario nella nostra esperienza didattica, realizzatasi nell’ambito della psicologia clinica insegnata presso la Scuola Italiana di Analisi Reichiana, il cinema, che può essere considerato uno degli strumenti ludici per eccellenza, dato che accompagna le persone dall’infanzia all’età adulta, si è rivelato come lo strumento più versatile e utile per l’osservazione dei processi relazionali in corso e nell’esercizio dell’individuazione degli elementi che, nell’individuo e nelle relazioni, possono facilitare la formulazione di ipotesi diagnostiche e prognostiche.

 

L’esperienza dell’apprendimento

     Il cinema può essere usato come mezzo per aumentare la sensibilità ad osservare alcuni aspetti psicologici e clinici (Linguiti, 2004. Metz, 1993)

     Nel riproporre storie in forma visiva, nello spettatore si attivano aspetti psicologici primari, come l’identificazione e la proiezione, sui quali è possibile educarsi ed esercitarsi a portare l’attenzione. Alla base di questi meccanismi ci sono gli stessi processi che attivano nell’organismo gli atti[1] corrispondenti alle sensazioni ed emozioni rappresentate dai personaggi proiettati sullo schermo.      Questi meccanismi, automatici e inconsapevoli, permettono di capire le intenzioni dei personaggi e stimolano le interpretazioni soggettive.

     I processi psicofisiologici che si attivano e realizzano la comprensione degli atti, si avvalgono dell’ormai famosa Simulazione Incarnata in cui, quanto più tali processi si avvicinano alle preferenze personali dei singoli spettatori, preferenze dettate dalle diverse esperienze cumulatesi negli anni e capaci di stratificarsi e cristallizzarsi in posture e modalità di azione, tanto più si riproducono, negli spettatori stessi, diversi gradi di empatia (Gallese, Migone, Eagle, 2006).

     Attraverso questi processi il cinema insegna divertendo in quanto la comprensione delle scene avviene per una riproduzione inconsapevole, nell’organismo degli spettatori, delle stesse finalità e scopi dei personaggi rappresentati sullo schermo per il tramite della riproduzione dei rumori, dei suoni, dei colori, dei movimenti dei personaggi, dei loro gesti, dei movimenti del volto e finanche delle labbra (nell’espressione verbale). Così ci si immedesima e ci si sperimenta anche in situazioni distanti dalla propria quotidianità.

     Poiché diverte e induce una sorta di esperienza, anche se a livello subliminale, queste particolarità del cinema possono essere usate come veicolo di apprendimento informale.

     Oltre allo sperimentare eventi nuovi per l’apprendimento di opportune strategie, può essere privilegiata l’attenzione ad elementi particolari così da esercitarsi a relazionarsi anche con tipi di persone diverse da quelle solite. Si può imparare ad essere cauti in alcune situazioni e con alcune persone ma anche a fidarsi di altre. Si può imparare ad individuare pericoli potenziali, ad ideare strategie alternative per certe situazioni, si può imparare a meglio distinguere le cose amate da quelle temute e, a seconda dell’importanza che i gesti e i comportamenti dei personaggi rivestono per gli spettatori, ci si può anche esercitare a cogliere alcuni aspetti di se stessi che, se contestualizzati, e a seconda degli scopi per cui si vuole evidenziarli, possono diventare materia di indagine e discussione.

     Insomma, con il cinema ci si può facilmente educare all’autosservazione.

 

La disidentificazione

     Il fatto di poter dire che “… la scoperta dei neuroni specchio non è la scoperta di un nuovo fenomeno clinico, ma solo dei possibili meccanismi neurali che possono far luce su fenomeni clinici già noti” (Gallese, Migone, Eagle, 2006, pag. 548), può farci ipotizzare che le sequenze di riproduzione automatica nell’organismo dei terapeuti siano riconducibili ai processi che conosciamo sotto il nome di transfert e controtransfert. Infatti, alla luce della teoria dei neuroni specchio, la cosiddetta comunicazione inconscia “… potrebbe risiedere nell’attivazione neurale della simulazione incarnata: paziente e analista potrebbero inconsciamente cogliere, in modo continuo e reciproco, sottili stimoli dell’altro attivando pattern neurali condivisi.” (id. pag. 559).

Cattura

     Di tali processi, che sono anche alla base dell’empatia, si ribadisce l’inconsapevolezza e, ragionando in termini di critica cinematografica, si può adottare una citazione specifica per dimostrare la similitudine che si può cogliere tra una posizione analitica e una spettatoriale: “Dietro molte teorie (si nasconde) un amore per il cinema così radicato e pervasivo, così totalizzante, da rappresentare un limite per un’elaborazione corretta del discorso scientifico … (l’analisi) necessita sempre di un certo distacco tra autore e oggetto di indagine… (anche se) prima di analizzare un testo bisogna averne provato il piacere.” (Linguiti, 2004, pag. 44-46).

     Dunque, processi organismici analoghi possono essere presupposti sia quando si svolge un’attività terapeutica sia quando si assiste ad una proiezione filmica. Processi che è necessario conoscere e saper governare per realizzare, in ambedue gli ambiti, un certo distacco: “Per essere un buon analista bisogna salvare almeno qualcosa del proprio lato di spettatore normale per poi, mediante il disincanto, tornare analisti e consolidarsi, in seconda analisi, compiutamente analisti.” (id., pag. 46). In ambedue i casi è necessario prendere le distanze dall’oggetto osservato e attivare un processo di disidentificazione.

     Questo atteggiamento distanziante resta difficile da apprendere sperimentalmente perché necessita di momenti particolari in cui la motivazione analitica superi il coinvolgimento emotivo. Però può essere descritto verbalmente facendo riferimento a quelle esperienze soggettive di momenti di auto osservazione. Al contrario, la tecnica cinematografica ne consente una sperimentazione immediata specialmente quando il soggetto del film è lo spettatore stesso: “Un elemento che rinforza questo processo di riflessione su di sé è infatti rappresentato dal fatto che non è necessario indicare all’utente che il prodotto espressivo è da considerarsi come un riflesso del suo mondo interno; questa acquisizione è già attiva di per sé…” (Manghi, pag. 48-49).

     A questo punto potrebbe essere azzardata una speculazione!

     Poiché questi processi avvengono per un’attivazione automatica dei neuroni specchio attinenti alle diverse aree cerebrali per le diverse funzioni (Gallese, Migone, Eagle, 2006), e poiché l’organismo è naturalmente fornito di questa dotazione neuronale fin dalla nascita in maniera adattabile, si potrebbe ipotizzare che anche per questi processi, come per tutti gli altri analoghi processi cerebrali, esista una plasticità che ne consentirebbe lo sviluppo a condizione che vengano[2] esercitati. Inoltre si potrebbe ipotizzare anche il fatto che, se per il loro sviluppo, e perché siano reattivi, è necessario il costante esercizio, allora potrebbe essere possibile anche imparare a inibirli o disattivarli. E se fosse verificata questa osservazione allora si potrebbe anche dare un senso più sociale, piuttosto che genetico, a disturbi quali l’autismo. Ciò potrebbe suggerire una spiegazione evolutiva della capacità di utilizzare l’empatia in maniera specifica e mirata come accade, per esempio, in diverse esperienze professionali in cui è necessario apprendere a non lasciarsi coinvolgere dal dolore e dalla sofferenza ed è necessario imparare a disattivare i processi alla base dell’empatia. Avviene per esempio nella professione chirurgica[3], ma è probabile che si realizzi in tutte le altre professioni che avvicinano al dolore e alla sofferenza mentre, al contrario, nelle personalità psicopatiche, che normalmente non attivano l’insula all’esposizione del dolore altrui, l’esercizio al neurofeedback le rende più sensibili al riconoscimento della paura in sé e negli altri (Le Van Quyen, 2016, pagg. 111-112).

Il gioco didattico col cinema

     Tornando al nostro discorso, anche negli allievi delle scuole di psicoterapia che assistono ad una proiezione cinematografica, si attivano i processi appena descritti. Si identificano e proiettano nei personaggi, godono e soffrono empaticamente, inconsapevoli dei processi di simulazione incarnata che producono i sentimenti che vivono.

     Nell’ambito della Scuola S.I.A.R. si è cercato di approfittare di questi processi suggerendo, durante la visione di un film, di prestare particolare attenzione al dettaglio delle interazioni e dei movimenti spaziali dei personaggi, dei loro movimenti corporei e relazionali, all’espressione dei volti e agli scambi dei personaggi coinvolti nelle singole scene con l’intento di arrivare a formalizzare la descrizione di caratteri personologici e relazionali.

     La richiesta di particolare attenzione ai dettagli relazionali nasce dalla convinzione che, anche questa semplice prescrizione, consente di realizzare uno degli scopi fondamentali della Scuola che è quello di offrire uno spazio di esercizio in cui coltivare e affinare la propria capacità diagnostica e prognostica avvalendosi della propria esperienza fenomenologica.

     All’atto pratico gli allievi/spettatori impegnati nel compito di osservatori, non tardano a scoprire che, prestando attenzione ai propri vissuti, proiettivi e identificativi, si crea una tensione inedita nella loro dinamica ludica.

     Avvertono quasi subito uno spontaneo atteggiamento discriminante, rispetto ad un atteggiamento di semplice fruizione, che introduce alla possibile disidentificazione dai personaggi e dalla storia.

     Si può dire quindi che, mentre durante una normale proiezione cinematografica nello spettatore si realizzano dinamiche di cui non è sempre consapevole, il contrario si può realizzare in ambito didattico dove, gestendo opportunamente il processo dell’attenzione, si può stimolare un atteggiamento di autosservazione di quei processi che avvengono per preferenze e identificazioni personali.

     Tale posizione, che evidentemente si avvale del processo di disidentificazione, introduce e permette l’ulteriore esercizio dell’atteggiamento mèta. Permette cioè una posizione osservativa capace di tenere d’occhio contemporaneamente se stessi mentre si guarda l’altro da sé cinematografico.

     In effetti già durante i primi incontri di cinema si possono osservare frequenti tematiche che potrebbero confermarne la validità per l’esercizio dell’autosservazione.

     Per esempio accade che la richiesta di osservare contemporaneamente sia lo spettacolo sia la parte di sé che guarda lo spettacolo, non è gradita alle parti (dell’Io) spettatrici. Gli allievi avvertono un senso di falsificazione dell’esperienza, che rende difficile anche l’individuazione dei vissuti personali, se debbono distogliere l’attenzione dalla storia in corso. È come se le istanze personali si ponessero a metà strada tra la comprensione e il coinvolgimento dell’evento rappresentato rendendo impegnativo l’una cosa e l’altra.

     È sicuramente la forza dell’abitudine che rende difficile disidentificarsi dall’esperienza cui si sta assistendo anche se, paradossalmente, in realtà questo processo è normalmente attivo nella vita quotidiana. Anche se inconsapevolmente, il processo di disidentificazione è attivo nella vita normale ogni volta che si può, in qualità di spettatori, assistere in tutta tranquillità ad eventi e situazioni che sappiamo essere anche molto traumatici. Per esempio le scene di guerra dei reportage, gli eventi descritti dagli innumerevoli documentari e, non ultime, le persone coperte di stracci, che sempre più frequentemente si incontrano ai margini degli stazionamenti dei mezzi pubblici, dopo le prime impressioni lasciano perfettamente tranquilli se non proprio indifferenti.

     Allo stesso modo i processi dissociativi e disidentificativi sono quelli che permettono il tranquillo svolgersi dei sogni e garantiscono alla parte dell’Io dormiente di star solo sognando[4].

     È evidente allora che, anche quando si partecipa attivamente e con empatia ad un evento, una parte della propria personalità non arriva a fondersi totalmente nell’esperienza ma si sperimenta quella discrepanza che permette di conservare il proprio senso d’identità[5].

     È probabile allora che l’impressione di cui sopra, di distorsione vissuta dagli allievi quando sono invitati a porre attenzione ai propri processi interiori, sia data dalla disabitudine alla consapevolezza della presenza mentale piuttosto che a un conflitto dei processi in corso. Disabitudine che, in quanto tale, può essere recuperata ponendoci attenzione ed esercitandosi opportunamente.

Attenzione, consapevolezza e presenza mentale

     Anche se diversamente e variamente definibili, e spesso anche sovrapponibili, le dimensioni dell’attenzione, della consapevolezza e della presenza mentale sono riconducibili anche ai processi cerebrali che permettono il passaggio dalla sensazione alla percezione. Cioè, a parità di integrità delle vie nervose, si percepisce uno stimolo più facilmente quando si presta attenzione alla sensorialità, quando cioè si è attenti alla stimolazione.

     Ciononostante, pur essendo consapevoli della percezione e attenti e presenti alle sensazioni, non sempre si è in grado di descrivere i processi che ne permettono la rappresentazione. Questo perché sono processi primari che appartengono alle condizioni prelinguistiche dell’organismo che, in linea con la speculazione precedente relativa alla plasticità neuronale, non avendo sperimentato la necessità della loro descrizione verbale nel corso di idonee esperienze evolutive, può lasciare queste dimensioni fuori dalla capacità di rappresentazione simbolico/verbale (Siegel, 1999, pag. 165).

     Si tratterà allora di recuperare questa capacità auto/attentiva specie in ambito analitico e terapeutico dove la capacità di sapersi raccontare è il presupposto essenziale per l’esercizio riparativo e contenitivo del vissuto controtransferale.

     Si può ricapitolare quanto detto dicendo che nella normalità della visione cinematografica l’attenzione è maggiormente rivolta alle situazioni più familiari e che  l’interpretazione degli atti, rimandando a storie personali, non lascia molto spazio per l’autosservazione, che diventa possibile solo in momenti successivi all’accadimento degli eventi, quando cioè subentra l’autocritica e il giudizio.

     Tutto ciò rende di estrema importanza il recupero di questa capacità in ambito clinico dove è indispensabile osservarsi, mentre si interagisce, e comprendere tempestivamente le dinamiche in corso.  

 

L’arte dell’apprendimento

     Per rendere l’abitudine alla proiezione e all’identificazione meno estranianti, nella nostra esperienza didattica si è rivelato ricco di svolte performanti la poliedricità del mezzo cinematografico.

     È ormai di comune conoscenza il fatto che alcune esperienze meditative insegnano a restare consapevoli dei propri processi di mentalizzazione sensoriale e percettiva durante il realizzarsi di un’esperienza. Tale atteggiamento di consapevolezza permette di separare le emozioni vissute dall’oggetto che le produce e rendersi conto di quanto, molto spesso, i vissuti emotivi (paura, paranoia, gioia, rabbia, ecc.), siano la conseguenza di costrutti mentali e proiezioni fantastiche piuttosto che reazioni ad oggetti reali. Una volta osservate le emozioni, questa volta senza oggetto, si scopre l’evidente assenza delle sensazioni (segnali periferici) che può portare finanche alla comprensione degli inneschi emotivi soggettivi responsabili dei processi che le generano. In questi casi si può arrivare a comprendere l’importanza della cura dell’emozione, per esempio della paura, piuttosto che dell’oggetto di cui si è convinti sia l’origine (Naranjo, 1999).

     Il cinema si è rivelato in grado di produrre informalmente, e in maniera automatica, questo tipo di esercitazione.

     Nella pratica dell’attività didattica, viene proposta la ripresa video di una seduta terapeutica simulata in cui due allievi interpretano i ruoli complementari di paziente e terapeuta.

     Successivamente la scena è rivista al rallentatore e/o accelerata.

     Tale espediente consente implicitamente di porre attenzione ai distinti vissuti sperimentati sia da spettatori sia da interpreti e così cogliere un netto discrimine tra i processi di identificazione e quelli di disidentificazione. Questo discrimine si pone come base per indurre una maggiore e più efficace consapevolezza delle sensazioni, delle emozioni e dei pensieri diversi per le diverse condizioni e produrre un’automatica posizione mèta.

     Per gli esiti riscontrati nel corso dei diversi anni, si può affermare che l’impiego di questo strumento in ambito clinico didattico si è rivelato molto utile sia per lo sviluppo dell’attenzione ai dettagli delle interazioni in corso sia per l’esercizio dell’attenzione ai propri vissuti.

     Molto spesso, per il fatto che i vissuti in prima persona appartengono a modalità ordinarie di interazione, diventano praticamente invisibili al soggetto agente. Ma, dato che il vissuto si esprime anche attraverso una serie di manifestazioni corporee, il semplice fatto di potersi rivedere come si è visti dagli altri, con i tremori, gli intercalari, i gesti ridondanti, le contrazioni involontarie, i movimenti rigidi e le automanipolazioni, si può diventare più consapevoli di sé nell’immediato dell’esperienza visiva e, ancora una volta, arrivare a discriminare le azioni che attengono al ruolo o alla funzione di spettatore da quelle di interprete.

     Inoltre è possibile ipotizzare che la generalizzazione dell’esercizio della presenza mentale alle dimensioni di ruolo e funzione, possa portare alla crescita della sensibilità nel distinguere i diversi, e spesso sovrapposti coinvolgimenti, vissuti nei ruoli e nelle funzioni di allievo, di operatore, di amico, di analista e di terapeuta.

     In sintesi si può dire che tutto questo lavoro fornisce anche una decisa rivalutazione delle attività ludiche, dei giochi, del divertimento, del piacere in quelle attività d’insegnamento della psicoterapia e dell’analisi, che necessitano di pratiche esperienziali piuttosto che nozionistiche anche per gli aspetti più specificamente cognitivi che le riguardano. Inoltre si potrebbe generalizzare fino a sostenere che, da questo punto di vista, tutti i giochi possono essere usati come strumenti di formazione e apprendimento. Il cinema in particolare, se opportunamente usato, si rivela essere una miniera di strategie tecniche capaci di insegnare anche a vedere ciò che normalmente è solo guardato. L’auspicio di questo lavoro è quello di poter contribuire ad educare i futuri terapeuti ad estendere a tutte le attività quotidiane lo stesso atteggiamento originariamente riservato didatticamente alla visione di film autoprodotti: coinvolgersi osservandosi.

… Alla fine è curioso e sorprendente scoprire che quello che si apprende usando il cinema come strumento didattico, in fondo in fondo è molto simile a ciò che si cerca di insegnare agli allievi terapeuti nel corso di tutto l’iter didattico. Questi devono imparare ad essere terapeuti piuttosto che a svolgerne le funzioni.

… che è proprio quello che accade in una seduta terapeutica in cui si può osservare solo essendo-ci.


[1]  Mentre il movimento è la dislocazione di più parti corporee come aprire e chiudere una mano, l’atto motorio consiste nell’utilizzare quei movimenti per compiere un’azione, per conseguire uno scopo motorio come afferrare, rompere e manipolare un oggetto. La ricerca ha dimostrato come indipendentemente dall’arto scelto per compiere l’atto motorio, l’attivazione dei neuroni premotori, i neuroni destinati al controllo degli atti motori, ha come comune denominatore non il movimento in sé, quanto lo scopo dell’atto, il suo finalismo. (Tomassini, 2015)

[2] “Singer & Frith (The painful side of empathy, Nature Neurosci., 8:845-846, 2005), … hanno sostenuto in modo convincente che certi atteggiamenti mentali possono influenzare la responsività del sistema dei neuroni specchio” (Gallese, etc., 2006)

[3]  ‘Dato che quando è necessario sono perfettamente capaci di empatizzare con gli altri, si presume che la minore risposta sia dovuta al fatto che i medici esercitano un controllo cognitivo sulle proprie emozioni. Poiché devono fare cose spiacevoli e dolorose ai propri pazienti, i dottori ci si abituano e reprimono (imparano a reprimere e a disattivare i processi di simulazione incarnata) la loro normale reazione empatica. (Maibon, pagg. 62/65, N. 1326, 27 sett./3 ott. 2019)

[4] ‘L’empatia, a differenza del contagio emotivo, comporta la capacità di esperire ciò che gli altri provano ed essere al contempo capaci di attribuire queste esperienze agli altri e non a se stessi.’ (Gallese e altri, 2006, pag. 558)

[5]  “Il rispecchiamento empatico… è congruente con lo stato mentale dell’altro senza esserne una simulazione o una duplicazione… il termine rispecchiamento è fuorviante, perché è solo in qualche modo congruente e in sintonia con l’altro… neppure il sistema dei neuroni specchio è un vero e proprio specchio, se non altro perché sono attivi meccanismi inibitori che impediscono di portare avanti l’azione osservata. (Id. pag. 562)

 

 

Bibliografia

Bertetto, P. 2006 (a cura di), Metodologia di analisi del film. Bari: Laterza ed.

Guizzardi, A., Neuroni Specchio, arte e cinema, in PsicoterapiaAnaliticaReichiana, 1-2018

Gallese, V., Migone, P., Eagle, M.,N., La simulazione incarnata: i neuroni specchio, le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi, Psicoterapia e Scienze Umane, 2006, XL, 3: 543-580.

Le Van Quyen, M. (2016),  Il potere della mente. Come il pensiero agisce sul nostro cervello. Bari: Dedalo ed.

Linguiti, F. e Colacino, M. (2004), L’inconscio cinema. Lo spettatore tra cinema, film e psiche. Effatà ed.

Heldi, Maibon, (Ott. 2019), Psicopatici come noi in Internazionale, pagg. 62/65, N. 1326, 27 sett./3

Manghi, D., (2003), Vedere se stessi. La psicoterapia mediata dal vide’.  Milano: Franco Angeli ed.

Metz, C., (1993), Cinema e psicoanalisi. Venezia: Marsilio.

Naranjo, C., (1999), La via del silenzio e la via delle parole. Portare la meditazione della psicoterapia. Roma: Astrolabio ed.

Siegel, D.,J., (2001), La mente relazionale. Neurobiologia dell’esperienza interpersonale. Milano: Raffaello Cortina Ed. (orig. 1999)

Tomassini, L. L’unico elemento reale. Il cinema sotto la pelle, Tesi dell’anno accademico 2014/2015 presentata al RUFA (Rome University of Fine Art)

[*] Psicologo, Psicoterapeuta, Analista Reichiano
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