LA RAGAZZA GECO
THE GECKO GIRL
DOI: 10.57613/SIAR15
Eleonora Tabarrini[*]
Abstract
In questo lavoro si illustra il trattamento di un caso di zoofobia. L’intervento si è avvalso di tecniche mutuate dalla vegetoterapia carattero-analitica e segue il modello sistemico complesso della S.I.A.R. L’eziologia della fobia viene collocata nel tempo intrauterino, durante il quale il Sé sperimenta un allarme che diviene segno inciso, inscritto nel corpo, e pattern stabile di personalità e di relazione. Importanti sono le incursioni del circuito dorso-vagale che nella situazione di minaccia-allarme divengono prevalenti, silenziando le risposte adattative più evolute del ventro-vagale. La natura simbolica del sintomo fobico, non solo dà senso a qualcosa di apparentemente illogico ma fornisce una mappa puntuale e concreta della narrazione della storia della persona.
Parole chiave
Fobia - psicoterapia analitica reichiana - psicoterapia corporea – intrauterino - terapia immaginativa – simbolo.
Abstract
In this work, we describe a case of zoophobia and its treatment. The therapy makes use of some character-analytic techniques (actings), according to the S.I.A.R. complex-systemic model. Phobia etiology is connected with intrauterine time, when the Self experiences an alarm that becomes, as embodied sign, a personality and relational trait. Dorsal-vagal complex raids are massive and become quite stable during alarm and threat situations, silencing more adaptive and evolved responses. The symbolic nature of the phobia symptoms not only makes sense of something apparently illogical but also draws a precise and real map of the personal narration.
Key words
Phobia - reichian analytical psychotherapy - body psychotherapy – intrauterine - imaginative therapy – symbol.
In questo lavoro si espone il trattamento terapeutico di un caso di Fobia Specifica, più precisamente, un caso di zoofobia.
Il modello S.I.A.R. colloca l’eziologia delle fobie nel tempo intrauterino, ascrivendola a un eccesso di primo campo (madre-utero) che crea una compressione-coartazione del Sé e della sua motilità, della sua possibilità di espansione e di autoaffermazione. Vi è, da una lato una buona densità di base, una relazione oggettuale primaria con buona resilienza ma, contemporaneamente, un allarme, un’oppressione, una contrazione che, a seconda della quantità, dalla qualità, della persistenza nel tempo e della frequenza, produrranno una fissazione e un tratto intrauterino fobico. Nel caso delle fobie specifiche, la piattaforma presoggettiva intrauterina costituisce il terreno per cofissazioni prevalenti successive, relative a fasi evolutive più tarde. Secondo questa ipotesi eziopatologica, dunque, il Sé sperimenterebbe, in una fase molto antica della sua esistenza, un’oggettiva impotenza in relazione a un’azione subita o anche soltanto minacciata dall’Altro da Sé e risponderebbe producendo allarme, contraendosi, diminuendo la sua motilità, la sua espansione e, eventualmente, fornendo protezione e sostegno alla madre-utero ossia passandole funzionalmente energia, per non morire (masochismo primario).
Le minacce in questa fase possono essere di vario tipo: minacce d’aborto, parto distocico, o semplicemente non sintonico con i ritmi e i tempi del bambino, humus umorale o fisiologico della madre perturbato. Ogni distonia può trasformarsi in una minaccia di separazione che, in questo delicato continuum biologico-relazionale, può assumere la portata di una castrazione, ossia di un impedimento massiccio dell’espressione vitale e dell’espansione dell’intero Sé, un annichilimento della sua pulsazione energetico-esistenziale. La fobia appare dunque come l’espressione oltresoglia di un tratto caratteriale fobico intrauterino e cioè dell’esperienza di un allarme sperimentato precocemente dal Sé che diviene segno inciso, inscritto nel corpo, e pattern stabile (latente o dominante) di personalità e di relazione.
Ritornano alla mente le parole di Freud (1925) sull’esistenza di un “fattore biologico antichissimo e preindividuale” che fa sperimentare al bambino una “impotenza motoria”, ma anche quelle di Reich (1933) in cui il sistema che sperimenta una minaccia si contrae e questa contrazione genera paura e angoscia.
La teoria polivagale di Porges (2018) chiarisce i meccanismi somatoviscerali e neurali coinvolti nella risposta a un evento fortemente stressante o minaccioso in chiave filogenetica e ontogenetica. Il circuito dorso-vagale (D.V.C.) è il più antico, è presente in tutti i vertebrati, non è mielinizzato, ed è responsabile della reazioni di difesa come l’immobilizzazione, la sincope, la finta morte, la brachicardia e tutte le reazioni fisiologiche atte all’abbassamento del dispendio metabolico. Il circuito ventro-vagale (V.V.C.) è più evoluto, è presente nei mammiferi ma non nei rettili e svolge diverse azioni fondamentali nella regolazione dei circuiti più antichi e nella modulazione della comunicazione relazionale e sociale. Più precisamente, il V.V.C esercita un’azione di freno modulatore sia sul sistema nervoso simpatico (che regola le risposte di attacco-fuga, e l’innesco della risposta stress attraverso l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene), sia sul circuito dorso-vagale, promovendo, attraverso l’innervazione degli organi sopradiaframmatici, l’omeostasi viscero-somatica e la regolazione del ritmo cuore-respiro.La componente somato-motoria di questo circuito, innerva altresì i muscoli del volto e del collo, agendo come regolatore della mimica facciale, dei meccanismi di suzione e deglutizione, della vista, della percezione e della produzione dei suoni e svolgendo un ruolo fondamentale per la formazione della relazione, l’accudimento, il senso di sicurezza e reciprocità, la socialità e lo sviluppo armonico di tutte le funzioni esecutive superiori. Sempre secondo questa teoria, esiste una gerarchia filogeneticamente ordinata per cui i sistemi autonomici reagiscono partendo dal più evoluto al più antico; quindi, in situazioni di forte allarme, minaccia vitale, stress, trauma, questa modulazione e prevalenza funzionale del vagale mielinizzato viene meno, lasciando emergere l’attività degli altri due sistemi deputati alle risposte di difesa. È proprio alla fine del tempo intrauterino che avviene la mielinizzazione del circuito ventro-vagale che si completerà durante tutta la successiva fase oro-labiale (Ferri, 2020).
Possiamo quindi inscrivere il tratto fobico intrauterino ancor più precisamente nel tempo e nel corpo e leggerlo come il prodotto di una distonia del circuito ventro-vagale a seguito di una minaccia/allarme di separazione-castrazione che genera una prevalenza fasica del sistema simpatico e del circuito dorso-vagale. Tale prevalenza fasica, può divenire una modalità di risposta cronicizzata e latente (un tratto caratteriale appunto), pronta ad elicitarsi in situazioni che riprodurranno frattalicamente sulla freccia del tempo soggettivo quell’allarme presoggettivo. La fenomenologia delle manifestazioni fobiche, infatti, risulta una chiara espressione di una iperattivazione dei due sistemi autonomici deputati alla difesa, con rispettive manifestazioni viscero-somatiche e comportamentali che possono avvicendarsi: tachicardia, tremori, sudorazione, vasocostrizione centrale e vasodilatazione periferica, condotte di fuga e di evitamento, se prevale l’attivazione simpatica; brachicardia, senso di venir meno, vertigini, ottundimento, derealizzazione, immobilizzazione e persino svenimento, nel caso prevalga il circuito dorso-vagale.
Abbiamo visto fin qui gli aspetti psicodinamici, relazionali, corporei, psicofisiologici, del sintomo fobico; lo abbiamo inoltre collocato nel tempo evolutivo ontogenetico e ne abbiamo osservato le stratificazioni filogenetiche emergenti. Ma la fobia ci investe e ci affascina innanzitutto per la sua apparente illogicità, per l’enorme sproporzione e staratura che intercorre tra il vissuto soggettivo di pericolo e la minaccia reale. Questo salto quantico, questa condensazione antinomica è resa possibile dalla valenza simbolica dell’oggetto fobico. Nell’oggetto, infatti, viene trasposto il conflitto, l’esperienza traumatica e relazionale antica che si riedifica nel qui ed ora, assumendo una forma simbolica che allude e rimanda ad un altrove che è altro dall’oggetto stesso. Entriamo nel mondo delle immagini.
“Mai l’umanità ha mancato di immagini potenti, apportatrici di magica protezione contro la paurosa realtà delle profondità psichiche; le forme dell’inconscio furono sempre espresse mediante immagini protettrici e guaritrici e in tal modo ricacciate nello spazio cosmico, ultrapsichico.” Jung (1954)
Spesso si considera la produzione immaginale come qualcosa di completamente distante e distinto dai sensi e dai processi corporei, operando, di fatto la solita scissione mente-corpo. Eppure già Jaspers (citato da Widmann, 2004) postulava che ci fosse un continuum tra percezione e immaginazione e Jung stesso (1967) ancorava il suo concetto di immagine archetipica ad un substrato filogenetico e istintuale che, attraverso l’immagine, avrebbe attivato modifiche del vissuto e del comportamento dell’individuo, indirizzandolo. Tali modificazioni psicofisiologiche elicitate dall’esposizione a un’immagine archetipica, sono state documentate in uno studio pilota (Tabarrini, 2006) e vengono costantemente sperimentate da chi utilizza l’immaginazione come strumento terapeutico.
Ruggieri (1997, 2011) ipotizza che esista un rapporto di circolarità tra periferia corporea e rappresentazioni corticali, di modo che l’una (tensioni ed attività dei muscoli) modifichi le altre (processi cognitivi, emotivi, immaginativi) e viceversa. In diversi esperimenti egli indaga le relazioni tra percezione, immaginazione e azione e giunge alla conclusione che i processi percettivi e immaginativi convergano sulla medesima rappresentazione corticale la quale, a sua volta, regolerebbe il funzionamento dell’individuo a diversi livelli funzionali, attivando pattern di risposta gerarchizzati e integrati, dal biologico al cognitivo.
Possiamo pensare dunque al simbolo come a qualcosa di estremamente concreto, radicato nella fisiologia corporea, rappresentazione transmodale, ad elevata complessità, che raccoglie e rimanda ad un’ampia varietà di eventi psico-corporei e identitari. Il simbolo, alludendo ad un complesso di significati e di eventi plurimi, si caratterizza per la sua ambiguità, esprime una totalità e, in quanto tale, è spesso paradossale poiché congiunge e condensa concetti opposti: “I simboli sono tentativi naturali di riconciliare e di riunire gli opposti all’interno della psiche”, affermava Jung.
Il Caso Clinico
Francesca, così chiameremo la nostra paziente, è una ragazza di 45 anni che non dimostra affatto l’età che ha, sembra più giovane di almeno dieci anni. Curata nell’aspetto e nel vestiario, ha un’andatura allo stesso tempo maestosa e traballante. Arriva nel mio studio evidentemente agitata e, con gli occhi sbarrati e fissi, mette subito le cose in chiaro:
- considera assurdo di essere in uno studio di una psicologa, ma il suo è un problema assurdo: una fobia dei gechi che, negli ultimi anni, è drammaticamente peggiorata e le impedisce di vivere in quanto, al calar della sera, lei “si trasforma”, “impazzisce”, stando malissimo e mettendo in atto comportamenti folli che coinvolgono purtroppo le persone a lei più vicine (famiglia e amiche). Di questo prova una profonda vergogna e si sente molto in colpa.
- Vuole assicurarsi che io non sia il tipo di terapeuta che, per guarirla dalla fobia, a poco a poco finirà per avvicinarle dei veri gechi, fino a metterglieli in mano.
La rassicuro rispetto alla sua ultima condizione: non sono “quel tipo di terapeuta”, anche se, lo vedremo poi, non ho potuto mantenere la parola data. Mi racconta minuziosamente tutte le condotte di evitamento, il panico che la paralizza, le fughe, il salire al buio le scale prima di rientrare in casa mentre parla al telefono con le amiche, il dormire con le finestre sigillate in piena estate, il dover evitare tutti i muri da geco e il condizionare le uscite di tutto il gruppo. Mi racconta il suo forzarsi e mettersi alla prova tutte le sere e il suo fallire miseramente, tanto che pensa di essere in procinto di diventare pazza e di avere quasi il “potere di materializzarli”. Conclude dicendo di “non voler più vivere di notte”.
Mi colpisce che il suo parlare, lento, forbito e corretto, dilaghi per tutto lo spazio-tempo della seduta: Francesca ha un enorme bisogno di buttare fuori e di scaricare un eccesso di attivazione e, contemporaneamente, si tutela da me, mi tiene fuori, tende a fare tutto lei. I miei pochi interventi verbali devono essere brevi, precisi, quasi fugaci ma efficaci, non troppo profondi ma non troppo banali: mi sento un geco.
Oltre a questo sintomo oltresoglia della fobia, Francesca riporta una grande difficoltà ad abbracciare e a farsi abbracciare, fin da quando era piccola. Nel corso della terapia emergerà, inoltre, che ogni tanto Francesca è soggetta a svenimenti inspiegabili che, nel tempo, ha imparato a “trattenere”: sente che stanno per arrivare da una specie di “fruscio” nelle orecchie e li previene.
Il primo segno inciso che possiamo rilevare, è nel come del passaggio del parto: un parto cesareo vissuto dalla madre in modo molto allarmato, al punto che è stata necessaria una sedazione. L’allarme materno ha sicuramente caratterizzato questo delicato momento di separazione – approdo dal dentro al fuori, innalzando i livelli di noradrenalina, e condizionando con la paura un’uscita e un distacco già di per sé privi del contenimento del canale del parto. Da questo possiamo derivare un tratto fobico intrauterino.
Il secondo segno inciso è il mancato allattamento al seno e la difficoltà di Francesca a nutrirsi: non mangiava quasi nulla. Presumibilmente la madre ha una bassa energia che non le consente di produrre latte e da questo possiamo dedurre anche una difficoltà nel sostenere la seconda gravidanza e la seconda figlia, delegando di fatto due vicine di casa, e mantenendo un canale preferenziale con il primogenito. Le due signore, che chiameremo E&E perché è con questa forma monadica che Francesca le nomina sempre, erano cugine e, non sposatesi, avevano deciso di vivere insieme. E&E, oggi entrambe decedute, erano un punto di riferimento grandissimo per lei e per suo fratello, che passavano la maggior parte del tempo a casa loro.
Da bambina, Francesca ha grandi problemi con il sonno e i genitori, disperati, trovano l’escamotage di metterle nella culla cinque o sei ciucci cosparsi di miele che lei autonomamente, già dai primissimi mesi, mette in bocca e scambia, trovando un po’ di consolazione e addormentandosi. Questo dato è rilevante perché diverse sedute più in là, con un po’ di vergogna, mi racconta che lei, ovunque vada o le capiti di dormire, deve avere con sé sotto il cuscino sei fazzoletti di stoffa, sempre quelli, che, ormai logori, lava e rilava; aggiunge che non sarebbe nemmeno pensabile dormire senza. Solo nel momento in cui mi racconta questo, collega con grande stupore i ciucci con i fazzoletti. Il racconto del sistema dei ciucci fa emergere una grande solitudine e una mancanza di contatto e presenza fisica, tutta la paura e il terrore di vivere di notte; una mancanza di abbracci e una richiesta implicita di passare velocemente dalla fase oro-labiale a quella muscolare, gestendo i ciucci da sola e autoconsolandosi. Non è un caso, infatti, che Francesca fatichi a mangiare, a masticare: lo svezzamento e la masticazione sanciscono il passaggio dalla fase orale a quella muscolare; questa difficoltà si mostra anche nella precoce paura di camminare che la porta a raggiungere la stazione eretta un po’ più tardi del solito. Questo dato è rilevante, non tanto in senso assoluto, ma in relazione alla precocissima e forzata muscolarità che la neonata mostrava gestendo da sola i ciucci.
Il terzo segno inciso è dunque nel passaggio dalla fase oro-labiale a quella muscolare. Da questi segni incisi si può inferire la presenza di un tratto orale rimosso e una copertura muscolare a sostegno della rimozione.
Il quarto segno inciso è nella relazione con il padre. Nel raccogliere informazioni dai genitori, scopre che la sua nascita è stata desiderata anche se il padre voleva comprarsi una moto e non ha potuto farlo; inoltre, entrambi i genitori erano convinti che fosse maschio: tutto era pronto per “lui”, corredo e nome ma nulla era pronto per lei, tanto che rimane tre giorni senza nome. Il padre, dunque fa di Francesca la sua “moto mancata” già dall’intrauterino. La pensa e la vuole maschio, la vuole forte e “pilastro” come lui e la lega in una relazione edipica fatta di idealizzazione e di esclusività. Sembra che Francesca sia chiamata a sostenere il progetto narcisistico paterno, oltre che la scarsa energia materna. Questo comporta una cofissazione in fase genito-oculare uno e la formazione di un tratto isterico; è presente, inoltre, un masochismo primario di secondo tipo e forse anche di primo, da richiesta di sostegno da parte della madre fin dall’intrauterino e anche un masochismo secondario, indotto dall’imbrigliamento seduttivo del progetto paterno.
La densità nel complesso è buona, con cadute selettive e situazionali in cui irrompono il terrore fobico e gli svenimenti.
Francesca mostra una combinazione di livelli corporei prevalenti di primo (occhi), secondo (bocca), quinto (diaframma/plesso solare) e sesto (pancia); anche se nella relazione sono principalmente agiti e presenti il primo (gli occhi sbarrati, ipervigili e tristi), il secondo (la bocca protrusa, contratta e spesso meta di autocontatto che, mentre profonde fiumi di parole, testimonia la sua grande oralità insoddisfatta) e il quarto (torace e spalle e mani ipercontratti e mobili allo stesso tempo). L’area cerebrale maggiormente palesata è la neocortex che però lascia il posto al rettiliano negli accessi di fobia, con una attivazione dell’amigdala e del locus coeruleus. Il sistema limbico sembra quasi congelato, attivamente inibito.
Francesca mostra quindi un transfert ambivalente, con domande implicite contraddittorie che potrebbero suonare così: “includimi, rassicurami ma senza invadermi, senza annullarmi. Avvicinati, ma non troppo, fai sì che sia sempre io a tenere il controllo di dove stiamo andando. Vedimi e, attraverso il tuo sguardo, fammi vedere e sentire me stessa”. Il mio controtransfert, come già detto, mi portava a sentirmi un po’ geco e a fare degli avvicinamenti veloci ma fortemente aderenti, per poi ritirarmi e lasciarle tutto lo spazio e il controllo di cui necessitava. Questo implicava una mia posizione che oscillava da un secondo campo strutturante a un primo campo accogliente, entrambi mai invadenti o troppo incidenti. Posso dire che, come progetto generale, i miei silenzi attenti e partecipati e i miei occhi sempre presenti avrebbero tessuto la qualità e la bontà della relazione terapeutica più dei miei interventi e delle mie interpretazioni.
Come progetto mirato vegetoterapeutico, dunque, ho ritenuto necessario e prioritario re-informare e ristrutturare la relazione e il contatto con il primo campo materno, rendendolo presente, includente, rispecchiante e non richiestivo. Ho proposto quindi, come attivazioni incarnate sovradeterminate, acting che ripercorrono la fase oro-labiale, di primo livello, coinvolgendo gli occhi. Sono passata poi al tempo intrauterino, al fine di lavorare sul tema dell’inclusione e del passaggio dentro fuori. Solo da ultimo ho proposto un lavoro sul secondo livello, la bocca, per lavorare sulla rimozione del tratto orale.
Come lavoro immaginativo ho proposto delle visualizzazioni semistrutturate sul contatto con la propria parte bambina, con l’archetipo del Puer, al fine di riconoscerla, legittimarla in tutti i suoi bisogni e integrarla. L’analisi dei sogni, che la paziente portava numerosi e ricchi, ha costituito una parte importantissima della terapia sia perché in questo tipo di lavoro Francesca si sentiva “brava e al sicuro”, sia perché effettivamente i sogni hanno spesso punteggiato e orientato gli altri lavori.
Le prime sedute si incentrano principalmente sulla fobia e sulle minuziose descrizioni e racconti che riguardano i gechi. Provo a indagare quali caratteristiche del geco la turbino maggiormente. Lei risponde che le fa impressione principalmente il movimento “a scatti”, il fatto che le sembri eccessivamente “cicciotto”, quasi come se si stagliasse in rilievo e le venisse addosso e, in ultimo, la posizione delle “braccia” e delle “gambe” eccessivamente aperte.
La prima attivazione che scelgo è l’acting della convergenza degli occhi su un punto fermo luminoso perché è mirato allo stabilire la giusta distanza tra il Sé e l’Altro da Sé e, inoltre, interviene sulla componente di smarrimento e di perdita di confini che Francesca sperimenta durante le crisi di panico dovute alla fobia. Arriva a capire diverse analogie tra i gechi e alcune sue parti che tende a rimuovere. Collega, ad esempio, il movimento a scatti che tanto la terrorizza all’ictus della madre e a tutta l’impotenza e la paura di perderla che aveva sperimentato qualche anno fa ma che non si era mai consentita di elaborare. Collega inoltre la posizione degli arti superiori dei gechi alla “faccenda degli abbracci” e il disgusto nel vederli così “corposi” alla sensazione tattile che potrebbe diventare troppo “sostanziosa” nel dare o ricevere un abbraccio. Per la prima volta riesce a stabilire una connessione tra questo suo rifiuto di contatto e quella bimba nella culla, di notte, che “doveva fare tutto da sola”, che non aveva altre braccia tranne le proprie per autoconsolarsi. Passano circa tre mesi e la fobia va meglio: riesce ad accendere la luce quando sale le scale e riesce ad aprire le finestre e a sentirsi sicura con il solo filtro della zanzariera. Comincia a guardare i gechi, da lontano, e non è più costretta a scappare o a cambiare locale ma chiede sempre alle sue amiche di “confermare” quello che sta vedendo, chiede loro un rispecchiamento, la funzione mirror che le è mancata: “Come lo vedete? È cicciotto? Perché io non lo vedo più così cicciotto…, lo vedo quasi schiacciato, aderente alla parete”. Francesca è contenta di questo e, anche se non si sente ancora tranquilla, sente che può gestire meglio la sua paura.
A questo punto della terapia, però, accade qualcosa di inaspettato. Siamo nel mezzo di una seduta, quando vedo Francesca sbarrare gli occhi e guardare con ansia un punto dietro di me: “C’è un geco…” mi dice con un filo di voce esitante. Mi giro e vedo che nella parete alle mie spalle c’è effettivamente un piccolo geco, immobile, come lei. Le chiedo che cosa posso fare per aiutarla, lei mi dice che non lo sa, è incredula e spaventata. Le dico che posso prenderlo in mano e metterlo fuori dalla finestra ma che non posso ucciderlo. Lei mi dice che va bene prendo il geco senza difficoltà (fortunatamente ho una simpatia per questi animali) e lo libero fuori dalla finestra. Cerco di rassicurarla e le chiedo come si sente, mi dice con un po’ di rabbia mista a incredulità che la cosa più forte è che: “sono entrati nell’unico luogo in cui mi sentivo al sicuro, questo posto era mio!”, e poi “te lo avevo detto che li materializzavo!”. Accolgo la sua rabbia e le rimando, altresì, che se è accaduto questo, in questo luogo, forse c’è un senso e che il senso potrebbe essere nel confermare la direzione che la sua terapia sta prendendo: il riconoscere, accogliere e integrare le sue parti-geco.
Nella seduta successiva mi racconta che, uscita dallo studio, si è seduta su una panchina del parco e ha pianto tantissimo, a singhiozzi, come non faceva da anni, tanto da spaventarsi perché non riusciva a smettere. Era un pianto, però in qualche modo liberatorio, non sapeva spiegarmelo. Mentre “era in quelle condizioni”, ha chiamato una sua amica e le ha chiesto di venirla a prendere e di riaccompagnarla a casa. Le rimando che finalmente si era sentita di poter chiedere e che di questo dovevamo forse ringraziare il geco. Riesce a sorriderne e mi dice che, in fondo, era stato anche bello poter chiedere e che sentiva che qualcosa in lei era cambiato.
Dopo qualche seduta, riesco ad introdurre un altro acting: il naso-cielo ad oggetto luminoso in movimento. Scelgo questo acting perché i temi di separazione e individuazione sono preminenti in questa fase della terapia e perché ci possiamo ora consentire di accedere a quel limbico silenziato, con una maggiore sicurezza di non perdersi e passare dalla minaccia esterna-geco alla minaccia interna più nucleare e fonte della proiezione: la paura di abbandono. Durante l’acting sente che la lucina “si allontanava troppo” e, ogni volta, “desiderava che tornasse”, sperimentando un vissuto di “distanza incolmabile”. Associa immediatamente la morte di E&E, anche se è chiaro che stia in realtà sperimentando frattalicamente anche un altro abbandono e un’altra distanza, quella della e dalla madre. Durante questa fase della terapia, Francesca porta una lunga serie di sogni in cui comincerà a rappresentare e a contattare la rabbia sottostante la rimozione orale; ciò le consentirà di superare la formazione reattiva connessa all’eccesso di disponibilità e preoccupazione per i genitori e per il fratello e di elaborare la solitudine e l’abbandono sperimentati nel lì ed allora, di consentirsi infine di riscoprire i suoi profondi bisogni di vicinanza e di contatto anch’essi scissi, resi minacciosi e proiettati sulle “braccia” del geco.
Più avanti riusciamo a sperimentare un altro acting, che è stato molto importante e che ha favorito la possibilità di sentirsi inclusa e sostenuta senza sentirsi invasa o minacciata. L’acting è mani piatte sui padiglioni auricolari ed è una attivazione che ci può portare nel profondo, al primo snodo di separazione dal dentro al fuori, al passaggio nel canale del parto; un passaggio di separazione, però, con il confine ed il contatto delle mani che creano aderenze tra i padiglioni auricolari e i palmi delle mani: “in questo acting si può attraversare […] la separazione-individuazione con il vissuto dell’essere insieme nel contatto-definizione” (Ferri G., 2020). Francesca piange ma non mostra segni di ansia o non sostenibilità. Al termine dell’esperienza mi racconta di aver sperimentato una “pace dei sensi”, di essersi sentita al sicuro e di aver goduto con pienezza del momento presente; racconta, inoltre, di aver sentito come se le mani la proteggessero ovunque e non solo sulle orecchie e poi di aver sentito come una sorta di scioglimento piacevole e leggero.
La fobia, dopo circa cinque mesi di terapia, è quasi del tutto sotto controllo e le sue reazioni di panico le sembrano lontanissime, come se non le appartenessero più. Intanto la sua vita è “sempre la stessa” anche se lei “si sente completamente diversa”: si innescano le prime contrarietà con le sue amiche e al lavoro perché lei non è più disponibile ad annullarsi come prima. È felice di questo, seppure un po’ amareggiata nel constatare una sostanziale non reciprocità in alcune relazioni che forse aveva sopravvalutato. Inizia a dire dei no anche in famiglia, provando inizialmente un forte senso di colpa.
Possiamo vedere come, nella storia di Francesca, il bisogno orale frustrato dal primo campo sia stato prima rimosso, producendo una copertura muscolare e poi spostato sulle figure di E&E e, contemporaneamente, dirottato sul secondo campo paterno, producendo una copertura isterico-fallica. Decido di non lavorare sulla copertura e di spendermi le rare e preziose occasioni di inserimento proponendo un altro acting: il movimento di suzione introiettivo associato all’inspirazione sincronica con la bocca. Le lascio dunque il sostegno della sua parte muscolare, che l’ha salvata, “messa in piedi nella culla” e tirata via dalla frustrazione e dall’insufficienza affettiva in quella fase della sua vita. Il movimento è molto faticoso, procede quasi a scatti per la grande tensione; Francesca racconta che sentiva la mandibola serrarsi in protrusione ed era “pesante”, come se volesse raggiungere, contattare qualcosa ma non ci riuscisse, inoltre sentiva soltanto la testa e il viso, come se il corpo non avesse la presenza del tatto. Abbiamo, attraverso questo acting, l’esperienza viva e vera di quella madre mirror che è mancata o è stata insufficiente, lontana, principalmente nella sua funzione di contatto epidermico, di holding e di handling e, nello stesso tempo, la possibilità di ristrutturare quel pattern disfunzionale. Infatti, dopo lunghi anni passati a rimuovere il suo corpo e la sua sessualità, precludendosi qualsiasi possibilità di una relazione con il maschile, Francesca comincia a sentire un minore astio verso “gli uomini in generale” e ad aprirsi alla possibilità dell’esistenza di un uomo che la possa sostenere, come in un lungo e complesso sogno in cui lei fa finta di cadere e un uomo la risolleva. Inoltre, Francesca si consente di “dimenticarsi i fazzoletti” e di lasciarli gradualmente sempre più nel cassetto e sempre meno sotto il cuscino. Mi dice che questo cambiamento è arrivato senza nessun proposito volontario da parte sua e con un’estrema naturalezza e tranquillità. Dopo circa otto mesi di terapia, Francesca ha gli occhi, le braccia e le gambe per pronunciare le parole “relazione” e “innamorata”; dei gechi non si parla quasi più.
Da questo lavoro, a mio parere, si può osservare come davvero il Sé sia un sistema complesso e indiviso allo stesso tempo; come l’unità e l’identità funzionale dei vari livelli (corporei, emotivi, psichici, cognitivi, energetici), ovvero la Mente Enattiva di Tratto, sia accessibile e riorganizzabile da più portali di accesso (la periferia corporea, il lavoro sui sogni e sui simboli, il lavoro sull’immaginario), sempre strettamente interconnessi e reciprocamente organizzati e organizzanti.
BIBLIOGRAFIA
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[*] Psicologa, Psicoterapeuta Reichiana, Arteterapeuta Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Via Flaminia 19, Roma; Largo Cavour 10, Civita Castellana (VT).