LE SOMATIZZAZIONI DI ANNA

 

 ANNA’S SOMATIZATIONS 

DOI:  10.57613/SIAR13

 

Luana Lelii[*]

Abstract 

      In questo caso clinico, dove Anna manifesta principalmente dei dolori fisici che non hanno origine da un danno organico, illustro il mio lavoro con lei secondo l'approccio analitico reichiano (modello S.I.A.R.), nella lettura dei sintomi sui livelli corporei e nel lavoro terapeutico attraverso le attivazioni corporee.

 Parole chiave

      Somatizzazioni - approccio analitico reichiano -  modello S.I.A.R. – livelli corporei – attivazioni corporee.

 

Abstract
 
     In this clinical case, where Anna mainly manifests physical pain that do not originate from organic damage, I illustrate my work with her according to the Reichian analytical approach (S.I.A.R. model), by reading symptoms on body levels and in therapeutic work through bodily activations.
 
Keywords
 
     Somatizations - Reichian analytical approach - S.I.A.R. model - bodily levels - bodily activations.

 

 

     Anna è una ragazza di vent’anni, timidamente si accinge a chiedere aiuto, dopo un attacco di panico che l'ha portata in pronto soccorso in una tranquilla sera d’estate. È una ragazza ansiosa, viene da una famiglia che lo è altrettanto. Sembra essere relativa a questo la sua domanda esplicita, ma dopo le prime sedute anamnestiche, i colloqui si sono spostati prevalentemente su una serie di sintomi dolorosi a livello somatico.

     Da quando ha 16 anni ha spesso mal di testa, dai 17 anni un fortissimo mal di schiena l’accompagna, spesso soffre di capogiri ed ha un’imbarazzante (per lei), abbondante e costante sudorazione a mani e piedi.

 

La sua storia

     Anna è la prima di tre figli, nata sette mesi dopo un aborto spontaneo al terzo mese di gravidanza. Ha 20 anni, il fratello 17, la sorella 14. È carina, acqua e sapone, sempre in ordine, ha lunghi capelli ai quali tiene molto, di altezza media, ha qualche chilo in più, depositato sulle gambe tra il ginocchio ed i fianchi, questo la fa soffrire molto, lo vive come un gran problema.

     I suoi genitori sono persone umili, oneste, molto legate alla famiglia, sia all'attuale che alle originarie. La mamma ha 40 anni ma ne dimostra dieci di più, poi ne capiremo il motivo; timida, dimessa, forse ha un deficit cognitivo; il padre ha 50 anni, è un istrione, tende a prendere la scena. Anna è nata a termine con un parto cesareo, aveva il cordone ombelicale intorno al collo. Durante il parto la madre ha avuto un ictus ischemico, quando l’hanno riaccompagnata in camera non parlava e aveva perso l’uso di un braccio. La bimba uscirà dopo pochi giorni dall’ospedale, la madre rimarrà alcuni giorni in più, migliorando e recuperando un po’.

     Nel primo mese, mentre allattava, la mamma si è sentita male, stava per cadere con la figlia in braccio, fortunatamente non era sola. Fu ricoverata in ospedale per qualche mese e la bambina fu affidata ai nonni paterni che l’hanno accudita prevalentemente per il primo anno di vita. Anna racconta che il primo biberon le fu dato da una cugina del padre…

     È stata svezzata a 5 mesi, senza problemi, mangiava tutto, era una bambina molto buona, non dava fastidio… Ricorda di aver camminato da sola verso i 2 anni, dice che cadeva sempre (problemi di equilibrio oppure non si sentiva sicura?), Anna non ricorda molte cose della sua infanzia, anzi, quasi nulla, i suoi ricordi sono spesso vaghi e ha bisogno di chiedere ai genitori. A 7 anni ha un calo della vista importante di 5 decimi all’occhio sinistro.

     A 9 anni (a suo dire) inizia il suo calvario. La nonna che l’ha cresciuta muore, il padre perde il lavoro e contemporaneamente la casa, sono costretti a trasferirsi dal centro del paese ad una zona molto isolata. Quando Anna ha 11 anni, la sorella più piccola ha la prima delle crisi epilettiche che sconvolgono lei e la famiglia in maniera irreversibile; Anna era presente durante la crisi, ne rimase scioccata. Da allora lei veglia costantemente la sorella, giorno e notte. Nel frattempo, un’altra tragedia colpisce la famiglia: la cugina, sua coetanea e amica si ammala, ha la fibrosi cistica, l’anno successivo muore a 12 anni. È il periodo della scuola media, che lei definisce brutto periodo, le affiancano un insegnante di sostegno. In terzo superiore iniziano i mal di testa frequenti; dopo la diagnosi di epilessia della sorella, la famiglia si allarma, le fanno fare una risonanza magnetica che non mostra nulla di anomalo.

     In famiglia la malattia è il pane quotidiano, la madre fa frequenti controlli, è diabetica, spesso affaticata, la sorellina ha diagnosi di epilessia, il padre quest’anno ha avuto un infarto, gli hanno detto di essere stato miracolato. A casa di Anna, i famigliari si misurano quotidianamente la pressione, la saturazione, si fanno spesso il test glicemico per controllare. Il medico di fiducia viene contattato frequentemente e ogni tanto viene cambiato perché considerato non particolarmente attento. Le condizioni economiche non permettono esami frequenti a tutti, quindi fanno un po’ a turno, in base a chi in quel momento sente l’esigenza maggiore di essere controllato. In questa famiglia quello che si percepisce è l’ansia, l’angoscia; non emozioni di paura, di rabbia; le emozioni non emergono. Alla domanda che hai provato quando…? che provi, che senti? ottengo risposte evasive, uno sguardo interrogativo, come se volesse chiedermi: cosa vuoi sapere?

     Mi colpisce una cosa, Anna è molto dolce, educata, si preoccupa tanto per la famiglia, si sostituisce agli altri nelle incombenze, si carica di pesi che non le appartengono, parla in maniera affettuosa dei propri familiari, ma è capitato diverse volte di sentirla parlare con loro al telefono ed il tono è tutt’altro che dolce e premuroso: sembra risentito, un po’ dispotico, quasi maleducato. Quella rabbia che non esprime quando parla di loro, trova delle increspature per poter uscire, attraverso il sintomo e attraverso il linguaggio analogico.

 

Considerazioni cliniche

     I segni incisi di Anna sono tanti, per la sua giovane età ha subìto già molti traumi, iniziati prima della sua venuta al mondo, nell’intrauterino: viene concepita dopo un aborto della madre, in una situazione di grande ansia e poca sostenibilità di quest’ultima a dare alla luce un figlio; durante il parto la madre ha un ictus ischemico, questa situazione ci fa ipotizzare per Anna l'avvio di un tratto fobico e masochismo primario.

     Il masochismo primario di primo tipo, si sviluppa in un embrione-feto che esperisce una paura, un allarme da minacce abortive o da altri stressors. Questo piccolo Sé, quando è a buona densità[1], come nel caso di Anna, per una chiara legge di istinto di vita (tendenza intrinseca, innata, di un organismo a rimanere in vita), svilupperà il fenomeno del masochismo-narcisismo primario, legato all’unica direzione percorribile di sopravvivenza. Il piccolo embrione-feto, allarmato, passerà sostegno alla madre-utero, la proteggerà, la supporterà, semplicemente perché la sopravvivenza dell’Altro da Sé, in quello stadio, si riflette sulla sua; esso lotterà narcisisticamente e funzionalmente per continuare la propria vita! Questa reazione basica si riattualizzerà nel qui ed ora dell’adulto allarmato, in tutte le situazioni in cui l’Altro da Sé riceverà la proiezione materno uterina (Ferri, Cimini, 2012). Ciò vuol dire che nel momento in cui la persona sentirà minacciata la propria sopravvivenza psicofisica, adotterà un modello comportamentale atto a sacrificarsi masochisticamente pur di evitare un danno maggiore per la propria economia vitale, ovvero, pur di mantenere un’omeostasi funzionale al proprio equilibrio psicofisico, la persona metterà in campo un comportamento di sostegno all’Altro da Sé, pur se faticoso per se stesso, perché comunque  funzionale alla propria stabilità psicofisica.

IMG Lelii Opera di Mark KostabiOpera di Mark Kostabi     In Anna è presente anche un tratto di masochismo primario di secondo tipo che si verifica in una relazione madre-piccolo, con piccolo a buona densità ma che ha vissuto un allarme intrauterino e madre con valenza melancolico-fobica, una madre che si dona ma che di fatto trattiene e chiede, spesso con modalità seduttive e di bontà che mascherano il proprio bisogno: i risultati sono ovviamente coartanti e frustranti l’adgredior espansivo, affermativo, esplorativo del piccolo. La madre, di fatto, ostacola una separazione sana e il piccolo farà proprio il bisogno della madre, sovraccaricandosi con una pseudo donatività amplificata nei confronti della madre che appare down, fattori che gli impediscono un’aggressività diretta verso di lei. In definitiva, una pseudo donatività che cela una richiesta di liberazione, di separazione funzionale e di crescita sana (Ferri, Cimini, 2012).

     Anna nasce quindi con un grande allarme, con il cordone intorno al collo che la soffoca e con un parto cesareo, mentre la mamma rischia la vita (trauma di separazione primaria).

     Un parto naturale rispetta i tempi psico-biologici, un parto indotto probabilmente manifesta una difficoltà alla separazione primaria. È un bimbo ancora non pronto? È una madre che tende a trattenere? È uno stato reciproco d'eccessivo attaccamento? Tutto questo si può rivelare in un parto cesareo. L'esperienza del parto, proprio perché è un momento significativo di passaggio, può andare a colorare, influenzare, a determinare i successivi momenti di transizione della futura vita (per esempio cambiamenti di casa, fine della scuola, trasferimenti, separazioni). L’imprinting che si riceve in questa prima separazione può fare da stampo per tutti i futuri passaggi nella vita (De Bonis, Pompei, 2015). Anna ha una resilienza altissima, componente che ci fa escludere patologie gravi come psicosi o tratti borderline e ci rinforza la diagnosi di tratto fobico.

     Appena nata, viste le condizioni della madre, non viene accudita e nutrita da lei, bensì dalla famiglia paterna (attaccamento diffuso), quindi abbiamo un passaggio di campo precoce, dalla madre alla nonna e alla zia paterna. Un altro segno inciso importante è l’oralità insoddisfatta (difettuale) per la mancanza dell’allattamento materno. Anna non ha acquisito l’esperienza del sapore del latte attraverso l’olfatto, i neuroni specchio che si affinano nei primi mesi di vita non hanno trovato corrispondenza nello sguardo caldo e rassicurante della mamma. Il neonato umano alla nascita vede ma non guarda. È necessario per lui un punto di riferimento dove focalizzare lo sguardo che è il passo per apprendere a guardare; tale punto di riferimento dovrebbe essere il volto della madre. Un allattamento psicologicamente deficitario può essere la causa della miopia con la sua deficienza di accomodazione-convergenza (Navarro, 2000). Questo aspetto fa da piattaforma per il successivo calo della vista di Anna alle elementari.

     La fase successiva, quella muscolare, nel caso di Anna si attiva un po’ in ritardo, ricordiamo che ha iniziato a camminare a due anni (solitamente si muovono i primi passi intorno al primo anno di vita) ed era instabile, cadeva spesso. Questa fase è caratterizzata dal passaggio dall’alimentazione lattea a quella che prevede la masticazione, alla facoltà della prensione, all’acquisizione della stazione eretta, della deambulazione e del controllo sfinterico, nonché all’evoluzione del pensiero e del linguaggio. È la fase in cui la figura della madre (determinante e fondamentale nelle fasi precedenti) si sfuma e acquistano risalto il padre e l’intera famiglia (Nigosanti, 2107). Nel caso di Anna, il normale svolgimento di questa fase è saltato, aveva rinunciato precedentemente alla presenza della madre, per i problemi di salute di quest’ultima, dirigendo le sue attenzioni verso il secondo campo (nonna e zia) per il primo anno di vita; quando avrebbe dovuto affacciarsi al secondo campo si è ricongiunta con la madre che nel giro di pochi mesi è rimasta di nuovo incinta.

     Un altro segno inciso (collegato ai precedenti) è l’abbassamento repentino della vista a 7 anni (prima fase genito-oculare) di cinque decimi all’occhio sinistro mentre il destro perde un decimo scarso. Questo accade dopo la nascita di una sorellina e l’inserimento nella scuola elementare. In questo periodo ha una carenza vitaminica, un calo di energia, forse iponutrizione? Nella stessa fase subisce una serie di lutti, la perdita del lavoro del padre ed il trasferimento in un’altra casa.

     La prima fase genito-oculare va dalla prima erotizzazione genitale alla pubertà. Chiamiamo questa fase con questo nome particolare perché si caratterizza, da un lato dall’aumento significativo del quantum energetico del bacino, con interessamento quindi dei genitali (periodo edipico), dall’altro per una maggiore prevalenza della neocortex, che sposta gran parte delle energie verso l’alto (occhi) iniziando a sviluppare una coscienza di Sé più evoluta (Nigosanti, 2017). Il contesto familiare, in questo periodo, lo potremmo definire depresso, tutti i componenti fanno una grande fatica ad andare avanti. Le famiglie di origine, e soprattutto quella paterna, hanno una grande influenza sulla vita e sulle scelte di questo nucleo in perenne difficoltà.

     Difficilmente trapela un’emozione. Se fosse per Anna, in seduta si parlerebbe solo di sintomi fisici, dolori e visite mediche. Alla domanda: come stai? risponde con l’elenco dei malesseri suoi e della famiglia. Quando emerge qualche significato emotivo nei suoi racconti e provo a chiedere in merito, lei non capisce, non riesce a comprendere i nessi o quello che sente. Lei non si arrabbia, non è triste e neanche felice. Il dubbio di alessitimia è grande, le propongo la Tas-20[2] e ottiene un punteggio borderline (51). Inquadriamo questo risultato in un’ottica ampia perché essendo un test di autovalutazione richiede una qualche capacità di introspezione psicologica che in soggetti alessitimici è carente, inoltre Anna a livello cognitivo ha qualche difficoltà.

     Anna soffre di frequenti mal di testa, mal di schiena, e abbondante sudorazione agli arti. Rispetto a questi disturbi, secondo il modello S.I.A.R., possiamo asserire che i suoi livelli corporei dominanti sono: il primo (occhi) in sinergia con il settimo (bacino-gambe), il secondo (bocca) ed il quarto (torace-braccia). Ciò vuol dire che abbiamo l’attivazione del dolore nei livelli corporei corrispondenti alle fasi che maggiormente hanno ricevuto impritings negativi durante la sua crescita. Il primo livello (occhi) e il secondo (bocca), sono corresponsabili ad esempio del mal di testa. Nella cefalea da tensione il soggetto è una persona molto affidabile, con la testa sulle spalle, che vuole (deve?) essere il punto di riferimento per tutti, si fa carico delle responsabilità e a volte se le va a cercare (Cusani, 2008).

     Il primo livello (occhi) di concerto con il settimo ed il secondo è corresponsabile della miopia di cui soffre. La spiegazione di ciò è data dalla difettualità orale che non ha permesso l’accomodazione ed ha predisposto Anna ad una miopia che è arrivata in prima fase genito oculare, quando lo spostamento di energia verso l’alto (occhi) è stata compromessa dagli eventi di vita di quel periodo (edipo-pubertà).

     Il quarto livello (torace e braccia), appartenente alla fase muscolare quindi, è coinvolto nel mal di schiena, nei capogiri, nella sudorazione delle mani. In questa fase è predominante la ricerca dell’altro, si esce dal campo materno alla ricerca degli altri componenti della famiglia, in modo più autonomo, esplorativo. Il controllo e l’esercizio della muscolatura volontaria è il compito evolutivo di questa fase. La qualità della modulazione dell’ambiente, costituita dall’intera famiglia, contribuisce a sostenere uno sviluppo ottimale oppure determina un eccesso di organizzazione o, come in questo caso, una dispersione (De Bonis, Pompei, 2015). Anna non ha struttura, non ha la sostenibilità per sorreggere se stessa ed i pesi psicologici di cui si fa carico. Anna inizia la terapia per un attacco di panico finito in pronto soccorso che leggiamo come un suo mostrare il non farcela. È un periodo di passaggio (fine superiori), non ha limite, confine, si disperde. Gli arti (quarto e settimo livello) che sudano copiosamente sono una somatizzazione dell’ansia, forte tratto di Anna.

 

Il progetto

     Il lavoro con lei verte innanzitutto sulla costruzione della relazione e dell’alleanza per poi attivare un processo di desomatizzazione che consiste nel creare uno spazio relazionale in cui possa avvenire la traduzione dei messaggi corporei proposti, promuovendo una mentalizzazione delle emozioni non risolte. Attraverso la Vegetoterapia, l’acting da proporre in primis sarà convergenza degli occhi su un punto fermo luminoso: è un’attivazione di primo livello (occhi) di fase oro-labiale. È un acting indicato per l’approccio mirato al trattamento della giusta distanza relazionale tra il Sé e l’Altro da Sé ma anche degli smarrimenti con perdita dei confini del campo di coscienza dell’Io. Questo acting permette alla persona il rinnovato ingresso nel proprio campo di coscienza, nella propria soggettività, perché è attivante la corteccia prefrontale, mentre regola la distanza appropriata dall’oggetto, in rapporto alla propria sostenibilità relazionale. La persona può così esplorare il suo stile nelle relazioni diadiche, l’acting infatti raccoglie le possibili proiezioni emergenti dal profondo della sua storia. Questo acting è chiamato di convergenza perché, da un punto di vista psicodinamico, le due posizioni osservative, di destra e sinistra, si ricompongono nel focus dell’intero ed è proprio qui che fa ingresso psicodinamicamente lo spazio-tempo della soggettività. Tecnicamente è importante cercare il punto dove l’altro può convergere senza sforzo, partendo, con una penna-luce in mano all'analista, da una distanza di 20 centimetri, per poi scendere fino alla glabella, per poi precisare, quando e se si verifica, lo sdoppiamento visivo; dove l’altro converge è il punto di partenza dell’acting per questa indagine. Se ad esempio la persona non diverge gli occhi o lo fa molto in prossimità della glabella, ci informa che sostiene lo stress da contatto, benché troppo prossimo; se gli occhi invece divergono subito verso l’infinito, ci indicano che bisogna conservare una distanza tale da poter permettere la sua presenza soggettiva. Scopriamo così anche qual è l’occhio dominante che permette la visione maggiore e migliore, con tutto il corredo psicoemozionale, ovvero quanto esso inibisce l’altro occhio, quanto entrambi possono affacciarsi insieme nell’intero di una visione unitaria (Ferri, 2020). Questo acting è molto appropriato per i capogiri, dà un appiglio a cui aggrapparsi e non perdersi.

     Successivamente si può passare all’acting naso cielo ad oggetto stabile (penna luce). È anch’esso di primo livello (occhi) di fase oro-labiale, ha la funzione di far convergere la persona verso se stessa e la propria piramide nasale, sviluppa la capacità di ri-prendersi e tornare relazionalmente su di Sé, con la luce sempre ferma (a 30-40 cm) a rappresentare “l’oggetto parziale stabile e presente” (Ferri 2020).

     Una volta riacquistata la soggettività, acquisita la giusta distanza e la capacità di spostarsi relazionalmente da Sé all’altro da Sé si può passare ad acting di fase muscolare di quarto livello (torace-braccia) con battere le mani piatte sul lettino e dire io. Questo acting si pone in continuità con il processo di individuazione dell’Io pre-verbale, iniziato dai due precedenti. Se la convergenza sull’Altro da Sé e sul proprio Sé rappresenta lo starter della soggettività, dell’ingresso dell’Io nello spazio-tempo, l’Io-Soggetto in fase muscolare poggerà progressivamente sulla piattaforma striata, cosicché la mielinizzazione permetterà una sempre maggiore piramidalità, con i circuiti limbico-affettivi, che aumenteranno le vie di connessione con la corteccia prefrontale neopalliale. Il livello relazionale dominante in questo periodo è quello del torace: l’Io, con la sua entrata in muscolarità e l’acquisizione della voce, si fa particella che attraversa il torace e che, superando anche il collo, si affaccia all’altro dalla bocca. L’Io, durante questo processo, pur rimanendo particella vocale, si connette al Me, ridefinita da Ferri “soggettività toracica”. È un acting importante per quanto riguarda gli stati depressivi minori, quelli fobici e d’angoscia; fa aumentare ed esprimere la carica e recuperare l’autostima.

     Prima di iniziare le attivazioni corporee è necessario che io acquisisca la fiducia da parte di Anna; considerata la sua storia, l’attacco di panico, i capogiri, è una giovane donna che fa fatica a fidarsi e ad affidarsi, sarà fondamentale, prima di invitarla a sdraiarsi sul lettino, che abbia fiducia in me.

     Essenziale è il controtranfert che Anna provoca in me; il suo ripetere lamentosamente e continuamente i suoi disturbi fisici, la difficoltà a sostenere un’analisi introspettiva delle emozioni celate dietro il disturbo e il timore che mi accusi più o meno esplicitamente di non comprenderla non devono intrappolarmi. È possibile anche che abbandoni la terapia, questo mi può demotivare e farmi sentire inefficace, ho paura di annoiarmi senza nessun insight da parte sua.

     Allora che posizione assumere? Devo essere un vero e proprio trainer emozionale, aiutandola a dare nome all’emozione che emerge dal vivere gli acting nel corpo, in quei distretti corporei che racchiudono le sue antiche esperienze e le relative emozioni inespresse. Così si può avviare il sospirato processo di desomatizzazione e di diminuzione dell'ansia.

 

Lavoro terapeutico in itinere

     Anna è tutt’ora in terapia, abbiamo iniziato il percorso terapeutico due anni fa, con incontri a cadenza quindicinale (per la sostenibilità economica familiare), dopo un anno a causa del Covid abbiamo sospeso le sedute per tre mesi, mantenendo un contatto da remoto.

     Molte cose sono cambiate, ci è voluto tempo, ma con determinazione e costanza Anna ha fatto molti passi avanti. Dopo il periodo di estrema difficoltà della pandemia, dove le somatizzazioni ed i dolori fisici hanno avuto il sopravvento nella sua quotidianità, ora la situazione è completamente diversa. Da quattro mesi ha intrapreso un’esperienza lavorativa, ha ora il suo piccolo stipendio, è leggermente più indipendente e centrata su di sé.

     In seduta non parla mai di problemi di salute di sua iniziativa, ha qualche sporadico mal di testa, il mal di schiena che non le permetteva di trovare una posizione sulla poltrona è scomparso, talvolta però ha un mal di schiena dovuto alla postura che assume al lavoro; la sudorazione delle mani, nonostante faccia un mestiere che teoricamente dovrebbe amplificare questo problema (lavora in una stireria industriale), non è più centrale nei suoi pensieri, non prova più vergogna per questo. Non è soddisfatta della mansione che ricopre, è però contenta di avere un lavoro, di sentirsi utile e un po’ più indipendente.

     In questa fase, stiamo lavorando sul centrarsi, sia rispetto alla famiglia che al contesto sociale. Dopo le iniziali difficoltà ad affidarsi, a distendersi sul lettino, ai costanti giramenti di testa, alla produzione verbale scarsa di contenuti emotivi (era sempre concentrata sull’eseguire bene il compito o sopraffatta dalla sensazione di malessere), ad oggi l’acting di convergenza degli occhi su un punto fermo luminoso è ben tollerato, lei è rilassata e produce qualche contenuto emozionalmente significativo. Siamo ora in procinto di iniziare l’acting naso cielo ad oggetto stabile.

     Dal punto di vista affettivo, si è innamorata di un ragazzo, fa un po’ fatica a gestire il corteggiamento ma è un grande stimolo ad uscire fuori dalla sua confort zone. Ha fatto nuove amicizie, la sua vita sociale è migliorata.

     Un importante traguardo raggiunto riguarda il suo subire in silenzio con atteggiamento sottomesso (in passato) le critiche poco costruttive, le intromissioni nella sua vita e nelle sue scelte personali da parte di terze persone. Ora, quando lo ritiene opportuno, riesce a rispondere in maniera assertiva e qualche volta si è difesa in maniera decisa, con grande stupore da parte della sua famiglia che l’ha esortata ad avere un atteggiamento più docile. Finalmente qualche volta si arrabbia, a volte piange quando si sente sovraccarica.

     Qualche mese fa ha iniziato un percorso con una Nutrizionista, anche in quel contesto il padre prendeva la scena ed il suo spazio, lei è stata capace pian piano di riappropriarsene. Riesce a fare un’analisi di scena abbastanza puntuale. Ha fiducia nel suo percorso perché ne sente i benefici ed è motivata a continuare.

     Le sedute con lei ora passano in fretta, sono più dinamiche e dense di contenuti, che ora sono lontani dalla descrizione del dolore fisico o dalla cronistoria delle visite mediche sue e della famiglia, anche se una leggera preoccupazione di fondo rispetto ai problemi familiari di salute permangono.

     Il sintomo doloroso è intelligente, dà una possibilità di riscatto, di cura, di sopravvivenza, anzi, di vita laddove essa stia scivolando via in maniera silenziosa.

     Siamo abituati a prenderci cura dell’altro, il dolore ci impone di prenderci cura di noi. Il dolore fisico non suggerisce, ci obbliga a chiedere aiuto, a farci vedere all’altro ma soprattutto da noi stessi. Ci fa “mettere gli occhi” sul nostro funzionamento psicologico, dopo aver escluso la causa organica del malessere (dopo tanti accertamenti), ci fa rendere conto di come riversiamo il dolore psicologico in uno o più punti del nostro corpo, ci dà la possibilità di prendere atto del fatto che non viviamo le emozioni, che le elaboriamo in maniera disfunzionale dirigendole verso un apparato corporeo che, provocando dolore, dà un allarme, ci dà consapevolezza del fatto che qualcosa in noi non va.

     Il dolore nel corpo ha il senso intelligente di mostrarci il dolore interno, inespresso, nascosto, che a volte non conosciamo, oppure ci siamo talmente abituati da averlo silenziato, ma non nella sua potenza che prima o poi esploderà.

 

[1] Densità energetica o resilienza, indica la quantità-qualità dell’energia del Sé; essa si genera e si concretizza all’inizio della vita, nel big bang che dà origine all’embrione e che avrà come bagaglio un quantum energetico funzione delle variabili precedenti legate alla madre, al padre e alla qualità della loro relazione. Può essere molto bassa, bassa, media e alta. Essa è importante per l’insorgenza di disturbi più o meno gravi (Ferri, Cimini, 2012).

[2] La Tas-20 è un questionario auto-somministrato formato da 20 item e diviso in tre scale fattoriali: difficoltà a identificare i sentimenti, difficoltà a esprimere i sentimenti agli altri e stile cognitivo orientato all’esterno.

Si utilizza nella misurazione dell’Alessitimia.

Bibliografia

Cusani, M. (2006), Psicosomatica oculare. Genova: Edizioni La Lontra

De Bonis, M.C. & Pompei, M. (2015), (a cura di) Come sarà il tuo bambino? Dal concepimento inizia a formarsi il carattere. Roma: Alpes.

Ferri, G., Cimini, G. (2012), Psicopatologia e Carattere. L’Analisi Reichiana. Roma: Alpes

Ferri, G., (2020), Il tempo nel corpo. Attivazioni corporee in Psicoterapia. Roma: Alpes

Frigoli, D., Cavallari, G., Ottolenghi, D., (2000), La psicosomatica. Il significato e il senso della malattia. Milano: Xenia

Navarro, F., (2000), Somatopsicopatologia. Napoli: Idelson - Gnocchi

Nigosanti, G.A. (2017), Analisi Corporea in gruppo. L’approccio reichiano. Roma: Alpes

Paradisi, P. (2014), Elementi di Psicosomatica. Dai modelli interpretativi alla clinica. Roma: Alpes

Reich, W. (1973), Analisi del carattere. Varese: Sugarco Edizioni

[*] Psicoterapeuta reichiana Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – www.psicologalelii.it – Studio professionale: via Roma, 12 - Sant’Egidio alla V.ta (Te)
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