LE ASSAGGIATRICI
di Rosella Postorino
Feltrinelli editore, 2018
Recensione a cura di Marina Pompei
Siamo in Germania durante l'ultima guerra, Rosa Sauer è stata obbligata a diventare una delle dieci assaggiatrici: ragazze tedesche che devono mangiare il cibo preparato per Hitler, filtri umani contro un possibile avvelenamento del Führer. Rosa non si sente nazista, non ha approvato la scelta del marito di arruolarsi; ma sottrarsi all'ordine ricevuto avrebbe significato mettere in serio pericolo la sua vita e quella dei suoceri che la ospitano in campagna, dopo il bombardamento della sua casa a Berlino.
Vivono tutti e tre, senza averlo potuto prevedere, vicino alla “tana del lupo”, il nascondiglio segreto di Hitler. E lei entra nella tana del lupo, ogni giorno si nutre per non farlo morire. Potrebbe morire lei per un gioco del destino.
Da bambina giocava con la possibilità di morire: appallottolava fili da cucito e li ingoiava, sperimentando il confine tra la vita e la morte.
Questo è uno dei suoi segreti di bambina, insieme ad un altro: di nascosto ha morso la manina tenera del fratellino neonato; nessuno si è accorto dell'origine del pianto acuto del piccolo. Colpe per cui non sentiva rimorso.
Un altro segreto più tardi, nei giorni della guerra: diventa l'amante del tenente delle SS a cui sottostavano le assaggiatrici. Suo marito è dichiarato disperso e lei dice sì al desiderio di chi tiene in pugno lei e le sue compagne.
Senso di colpa deontologico e vergogna per azioni che sente riprovevoli, ne è consapevole.
Suo padre, ora morto, non avrebbe mai accettato il suo adeguarsi alla situazione, il suo essere al servizio di Hitler; lui non si era piegato. Lei si dice: “Non c'era alternativa, questo è il nostro alibi”.
Sua madre, uccisa dalle bombe, avrebbe giudicato senza possibilità di appello il suo aver tradito il proprio marito.
Al confine tra il consapevole e il non consapevole c'é l'azione quotidiana di nutrirsi di piatti ricchi e sani mentre a casa e in paese la fame si fa fatica a tenerla a bada.
Ma c'è ancora altro sottostante in questa stratificazione del senso di colpa: le sue occhiaie le aveva vissute sempre come un presagio: “Poi incontravo le mie occhiaie nello specchio e la rabbia si appassiva in sconforto. (…) Erano state un avvertimento, quelle occhiaie, e io non avevo saputo coglierlo, per anticipare la sorte, sbarrarle la strada.”
Un senso di colpa l'aveva sempre accompagnata e non ne conosceva l'origine.
Da analisti della psiche, o meglio, del corpomente, possiamo trovarne invece l'origine in quanto leggiamo all'inizio del capitolo 4. “Sono nata il 27 dicembre 1917, undici mesi prima che finisse la Grande Guerra. Un regalo di Natale a festa finita. Mia madre diceva che Santa Klaus si era scordato di me, poi mi aveva sentita strillare sulla slitta, infagottata nelle coperte che nemmeno mi si vedeva, ed era ripartito per Berlino controvoglia: erano appena iniziate le sue ferie e quella consegna fuori programma era una seccatura. Meno male che se n'è accorto, diceva papà, quell'anno sei stata il nostro unico regalo.”
Per il papà un regalo, per la mamma una dimenticanza e poi una seccatura.
Quell'utero allarmato per la guerra, la poca sostenibilità della madre ad accogliere una neonata, hanno prodotto un imprinting nella memoria implicita di Rosa: il suo corpo, non la sua mente, le dice di essere nata fuori tempo, fuori luogo, è questa la sua colpa inconscia.