ANOMALISA Regia di Charlie Kaufman e Duke Johnson | U.S.A. 2015 A cura di Nica Raffo

ANOMALISA

Regia di Charlie Kaufman e Duke Johnson | U.S.A. 2015

A cura di Nica Raffo*

Amonalisa Film Locandina

        Charlie Kaufman, aveva avviato in Se mi lasci ti cancello una riflessione sui rapporti umani e sull’amore, evidenziando la tendenza degli individui a confondere la crudeltà del destino con la propria incapacità ad accettarne l’imperfezione.

        Anche in Anomalisa, film d’animazione del 2015, il protagonista sente che qualcosa finisce perennemente con l’intralciare la sua personale ricerca della felicità.

       Michael Stone, autore di manuali per la gestione ottimale dei clienti, si sta dirigendo a Cincinnati per una conferenza.

       Sin dalla prima sequenza una vaga sensazione di disagio prende forma nello spettatore divenendo più nitida di pari passo con il delinearsi di un elemento determinante della narrazione: tutti intorno al protagonista hanno lo stesso viso e la stessa voce maschile, anche i personaggi femminili e i bambini. Il protagonista è l’unico ad avere una fisionomia ed una voce diversa ed insieme a questo dato, nello spettatore si fa strada l’impressione che egli sia afflitto da un qualche dolore, immerso in una specie di alone che sembra separarlo dal resto del mondo.
      Lo seguiamo prima all’uscita dell’aeroporto, mentre ascolta in cuffia The Flower Duet [1], duetto di voci femminili, qui cantato invece da due voci maschili; poi in albergo, al “Fregoli” [2]. In queste scelte narrative e nei connotati androgini dei pupazzi del film, identici nell’aspetto e nella voce, il riferimento al genere, improntato alla confusione, all’indifferenziazione e alla rigidità, visti i suoi rapporti con la formazione dell’identità, delinea sin da subito una qualità delle relazioni che presenta il nostro protagonista come un soggetto in estrema difficoltà nell’incontro con l’Altro.
         Michael trascorre tutta la vicenda ritenendosi diverso e temendo l’omologazione. Empatizziamo con lui quando sente il bisogno di confessare la propria pena ad una vecchia fidanzata, sperando che l’antico senso di intimità che lo univa a lei, possa creare ancora un ponte tra lui ed un altro essere umano; empatizziamo con lui tutte le volte che i personaggi con cui interagisce gli dicono che non hanno capito quello che ha detto, sottolineando quella sensazione di solitudine da lui emanata dal primo momento; parteggiamo per quest’uomo che appare diverso, isolato, unico, a differenza di tutti gli altri. Eppure siamo subito posti dinanzi ad una sensazione di straniamento.

       Si tratta di sensazioni costruite ad hoc nello spettatore, proprio con l’intenzione di creare una percezione ambigua di quanto si compie sullo schermo, a partire dalla scelta di realizzarlo in stop motion.

       Inoltre stiamo empatizzando con un cartone animato, anzi un pupazzo: la sua posizione nello spazio cambia attraverso lo scatto di una serie di fotogrammi di oggetti e disegni bidimensionali, addirittura al culmine di alcune scene lo vediamo perdere pezzi, scorgiamo gli ingranaggi che lo fanno funzionare.
       Se consideriamo il Sé come un processo associativo emergente, che sorge dalla disponibilità a relazionarci l’uno con l’altro ed al suo radicarsi nel corpo, il regista, con questi stratagemmi, riesce a tradurre in immagini quello che potremmo definire un Io poco coeso. La dolorosa impossibilità di un contatto vero e il senso di solitudine disperante ad esso associato, sono il risultato di poca integrazione tra le parti differenti del Sé, determinando modalità di creazione di significato abbastanza fisse e rigide e aspettative sul futuro conflittuali.
      L’esperienza del protagonista può essere accostata a quella di persone che chiedono aiuto e vengono in terapia perché vogliono proprio andare oltre questa sensazione di rigidità nel proprio modo di funzionare. Le loro previsioni limitanti, radicate nel passato, devono essere riviste ed aggiornate nel presente e chiedono di essere aiutati in questo.

       Possiamo considerare l’appuntamento del protagonista con la sua ex fidanzata un tentativo di questo genere. Attraverso l’incontro con questo amore del passato, Michael, perduta la capacità di assaporare la vita e di godere delle relazioni, vorrebbe ricontattare il se stesso di un tempo più felice.

      Chi intraprende una terapia spesso esprime il desiderio di tornare come prima, che significa voler continuare a fronteggiare la quotidianità, risolvere le nuove sfide che comporta, con gli strumenti che in passato hanno funzionato. La vita tende naturalmente a dissipare ordine in una continua tensione verso l’evoluzione, per questo occorre innanzitutto riconoscere che le strategie una volta funzionali, hanno perso il loro aspetto adattivo ed affinché questo possa accadere “il paziente deve prima di tutto rendersi conto che egli si difende, poi con quali mezzi si difende e infine contro che cosa si difende”, come diceva W. Reich, in Analisi del carattere nel 1933.
      Michael sembra ancora molto lontano da questo tipo di consapevolezza. Oscilla tra il sentirsi diverso dagli altri o solo contro tutti, una percezione del mondo permeata da vissuti paranoidei. Il ricorso alla proiezione, che caratterizza questi ultimi, è finalizzato ad attribuire all’esterno caratteristiche appartenenti alla propria persona, perché ritenute cattive o poco integrate: la percezione di minacciosità deve cioè essere spostata all’esterno, per difendersi dalla possibile disgregazione del Sé.
       L’indifferenziazione percepita all’esterno è quindi la proiezione di parti del Sé che vengono percepite come indistinte, poco sviluppate, proprio per mantenere un certo stato di omeostasi, una rassicurazione da livelli di minacciosità altrimenti insostenibili. In un mondo in cui tutti appaiono uguali, cosa potrebbe mai spingerci verso l’altro?
      Michael sembra piuttosto apatico, sino a quando non si imbatte nella diversità di Lisa, con la sua cicatrice sul volto e la sua voce da donna.

      Questo incontro gli farà dire “Tu ed io siamo le uniche persone al mondo”, attribuendo alle caratteristiche distintive della giovane, un’esistenza vera, un essere individuo differenziato dall’ammasso di piattume indistinto circostante. Una sintesi perfetta della condizione di chi è innamorato.

     L’amore consente di uscire da un certo modo di sentire e di pensare, di percepire l’amato come un essere assolutamente unico e irripetibile, di percepire gli abituali schemi attraverso i quali la nostra esperienza passata ci fa decodificare il presente, come luoghi soggetti a tutte le possibilità del divenire.

     Lisa diventa Anomalisa, perché diversa da tutti gli altri, quindi incantevole anomalia, in un sistema in cui l’ordinarietà del tutto, che si ripete uguale a se stesso, non lascia spazio al pulsare vitale.
       All’indomani di una tenera notte d’amore, la voce di Lisa perde però la sua connotazione femminile, esattamente mentre Michael inizia a sentirsi infastidito da alcuni piccoli insignificanti gesti di lei. Nel film tutti si adattano, tutti sono uguali, tranne lui, angosciato com’è dal fatto che l’adattamento equivalga alla perdita di parti di Sé, imbavagliato dentro un narcisismo patologico.

      Michael vorrebbe insegnare alla platea di gente accorsa ad ascoltarlo, ad empatizzare coi clienti, essendo assolutamente incapace di empatizzare con chiunque. Questa indisponibilità sfocia nella tendenza a semplificare, che appiattisce la realtà, sottolineata volutamente anche dai nomi delle donne della sua vita “Donna”, “Bella”.

       La solitudine, è a questo punto definitivamente intrinseca alla sua incapacità di accettare l’unicità e l’irripetibilità altrui, di poter partecipare alla complessità dell’accadere con i suoi conflitti e le sue ambiguità.

        Nella conferenza conclusiva, motivo del suo viaggio, gli sentiamo dire: “Che vuol dire essere umani? … Cercate per ogni persona con cui parlate un particolare che la renda unica e concentratevi su quello”.

       Cogliere il particolare che rende ciascuno speciale, da occasione straordinaria per incontrare autenticamente l’Altro, diviene a tutti gli effetti una prigione per il protagonista, che sembra vivere in una dimensione dove lo spazio e il tempo non rappresentano aspetti strutturali dell’esperienza.

        La percezione deve poter essere orientata nel tempo e nello spazio, per potersi sedimentare e tramutare in sentimento consapevole. Se non vi è percezione della freccia del tempo si è condannati a vivere il loop di un perenne presente o la schiavitù di un immodificabile passato, con il risultato di svilire la sorpresa per il fluire del sentire.

        Michael farà ritorno da sua moglie e suo figlio assolutamente avvinto dall’annichilente constatazione di essere di nuovo nella prigione, rifugio del suo Sé frammentato. Non è riuscito a uscire da se stesso, quel sentimento di fusione, che nel passato ha rappresentato la rassicurante percezione di essere speciale, non è approdato a un’esperienza successiva di maggiore integrazione: per poter tenere insieme i pezzi deve necessariamente mettersi al riparo dalla paura di perdersi nell’Altro.

        Ben diverso è quello che accade a Lisa, che tornando a casa, vive con tristezza la conclusione di qualcosa di bello e intenso mai vissuto prima, accompagnato però da un senso di gratitudine per quel che è stato e un sentimento di fiducia per quel che sarà. D’altro canto la gratitudine è davvero un lusso energetico, poiché comporta l’accesso a un sentire che non nega la sofferenza, non la teme per paura di andare in frantumi, anzi riconosce il dolore come innesto di trasformazione, accomodamento necessario al movimento della vita, nella sua cornice temporale in cui esiste un prima e un dopo, in cammino verso nuovi equilibri intelligenti.
       Impossibile non domandarsi se non sia forse questa la vera anomalia, in un mondo in cui essere connessi agli altri perde sempre più la propria connotazione di consapevolezza agganciata al corpo. Anomalisa è stato definito “il film più umano dell’anno nonostante sia privo di esseri umani”, forse proprio perché, parlare del corpo in sua assenza, permette di evidenziare in modo più efficace le dimensioni in esso contenute.

[1] Il riferimento al Flower Duet pone l’attenzione sul rapporto che intercorre tra la voce, intesa nei suoi aspetti sonori ed espressivi e la formazione – manifestazione dell’identità personale. La voce, più che la parola, racconta del sé: dice chi siamo o chi vorremmo essere; chi vogliamo presentare di noi o ch” vorremmo che gli altri vedessero o credessero che noi siamo.

[2] La sindrome di Fregoliè una malattia psichiatrica con delirio di trasformazione somatica, il paziente sente di essere perseguitato da una persona che modifica costantemente il proprio aspetto per non essere riconosciuta.

 

* Psicologa, Analista Reichiana

 

Pubblicato su Rivista di Psicoterapia Analitica Reichiana n. 1/2018 (Vai alla rivista)

 

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