Numero 1/2019

 UN COLLO IN RICERCA

 

Antonella Messina[*]

Aldo Virgilio[†]

 

Abstract

        La biografia, il viaggio, gli aspetti organizzativi, logistici, legali, linguistici, sociali e religiosi, nonché gli influenzamenti magici, entrano a far parte del lavoro di preparazione di un setting etnopsicoterapeutico ambulatoriale. L’approccio etnopsicoterapeutico include la consapevolezza  e la gestione dello spaesamento culturale della paziente e delle figure di cura. I processi di guarigione si confrontano con la memoria corporea e gli apprendimenti culturali e religiosi.

 

Parole chiave

        Accoglienza – migrazione - mediazione culturale – etnopsicoterapia - influenzamento magico – corporeità - setting.

 

Abstract

        Biography, travel, organizational logistical, legal, linguistic, social and religious aspects, as well as magical influences, become part of the work of preparing an ethno-psychotherapeutic outpatient setting. The ethno-psychotherapeutic approach includes awareness and management of the cultural disorientation of the patient and the caregiver. Healing processes are confronted with body memory and cultural and religious learning.

 

Keywords

        Welcoming – migration - cultural mediation – ethnopsychotherapy - magical influence – embodiment - setting.

 

 

Accoglienza di una giovane donna ghanese

     L’articolo racconta la storia di una terapia iniziata da 20 mesi ed ancora in corso presso l’ambulatorio di psichiatria transculturale di Catania.[1] L’intento è di condividere, tramite la narrazione di un caso clinico, una ricerca sugli snodi terapeutici, etnopsichiatrici e corporei, relativi alla salute di chi migra. In questa storia, come spesso accade nell’interazione con uomini e donne in migrazione, gli accadimenti del viaggio, gli aspetti organizzativi, logistici, legali, linguistici, sociali e religiosi, divengono parte integrante della situazione medica e psicologica della persona ed entrano a far parte del setting e della costruzione di un progetto appropriato e mirato di psicoterapia. Saranno evidenziati: 1) gli aspetti metodologici di costituzione del gruppo di lavoro; 2) la costruzione del progetto psicoterapeutico in relazione agli aspetti biografici, religiosi e simbolici incarnati nel corpo, nel vissuto e nella domanda di cura della paziente; 3) gli snodi terapeutici caratterizzanti.

 

Profilo

     Al suo arrivo in ambulatorio, nel 2017, F. è una donna di 21 anni; apprendiamo che proviene da un piccolo villaggio del Ghana. Il padre è deceduto sei anni prima. Della madre F. non ha notizie, poiché è andata via quando lei aveva 3 anni. La religione del padre è musulmana. La religione della madre è cattolica. La scolarizzazione è assente del tutto: F. non sa leggere e scrivere, parla la lingua twi. Lavorava in Ghana come raccoglitrice di peperoncini e cercatrice d’oro. Dei parenti sono viventi la madre, una seconda moglie del padre e 4 fratelli che vivevano con il padre e la seconda moglie, poiché loro figli. Si registrano come patologie di lunga durata HIV +, scoliosi e cifosi.

     Annotazioni: la giovane donna preferisce essere chiamata F. dalla terapeuta (il nome fa riferimento alla religione cattolica della madre) e A. dallo psichiatra (il nome fa riferimento alla cultura musulmana del padre).

 

Narrazione dell’evento traumatico ed influenzamento magico

     Le date della narrazione sono probabili ma non certe a causa delle difficoltà di F. nel collocare temporalmente i fatti. F. inizia la narrazione partendo dalla morte del padre, 6 anni prima, quando lei ha 15 anni; costui aveva sposato due donne e viveva al momento della morte con la seconda moglie, poiché la madre di F. (prima moglie) lo aveva abbandonato quando F. aveva 3 anni.

La moglie di questo uomo, rimasta vedova, aveva con sé F. ed altri 4 figli nati dal matrimonio tra lei ed il padre di F. Dopo numerosi maltrattamenti psicologici e fisici (punizioni ed umiliazioni) rivolti a F., questa donna (detta da F. la “matrigna”) decide di dare, in cambio di denaro, F. ad un uomo molto anziano. F., che conviveva con il fidanzato, si oppone in ogni modo. Un giorno questo uomo anziano la segue nei campi di peperoncino, dove F. lavora, abusa sessualmente di lei nelle acque di un lago da cui gli abitanti attingono l’acqua e la costringe ad andare a casa con lui per vivere insieme. F. riesce a scappare e va a denunciare l’abuso alle autorità. Costoro la allontanano e non prendono in carico la denuncia. F. torna a casa e per qualche mese la sua vita prosegue regolarmente.

La matrigna dopo qualche tempo indica a F. un altro uomo anziano da sposare ed anche in questo caso F. si oppone; a questo punto la matrigna organizza un incontro, nella propria casa, tra F. e questo signore così che lui possa (in cambio di soldi dati alla matrigna) stare con lei. F. subisce un’altra violenza sessuale. Anche in questo caso le autorità non intervengono (non è chiaro se la donna torna di nuovo alla polizia) e F. chiede aiuto ad un pastore religioso. Il pastore asserisce che F. e l’uomo che ne ha abusato la prima volta, sono colpevoli di avere inquinato le acque del lago con i liquidi corporei generati durante l’atto sessuale.

L’uomo che ha abusato è oramai (quando F. è in ambulatorio da noi) divenuto senza senno ed è considerato il pazzo del villaggio; F. (a detta di tale religioso) per lavare la colpa di inquinamento delle acque, dovrà partecipare ad un rito a lei dedicato in cui sarà necessario uccidere un montone.

 

Frammenti narrativi del viaggio

     Per motivi che F. non ricorda con chiarezza, si ritrova in un viaggio verso la Libia in compagnia di un uomo (forse un altro cui la matrigna ha venduto F.). A questo punto i sintomi, insorti dopo la prima denuncia ricusata, legati al tremolio delle mani ed alla contrazione della schiena, diventano importanti e fastidiosi e colpiscono il collo. Da quel momento il collo di F. sarà rivolto ed abbandonato all’indietro, fuori dal suo controllo e causa di difficoltà nel camminare e nello stare in equilibrio. Da qui si interrompe anche il filo narrativo di F.

Il racconto diviene frammentato, confuso, soggetto a continue rivisitazioni mnemoniche. F. ricorda di avere iniziato il viaggio verso la Libia e di avere trovato lavoro in Libia facendo le pulizie.

immagine MESSINA prima foto foto di Alessandra MeliFoto di Alessandra Meli

Anche in questo luogo si susseguono abusi, umiliazioni di cui F. ha ricordi opachi, incerti e frammentati. Forse sia lei che l’uomo che la accompagnava (come sedicente marito) vivono per un tempo imprecisato all’interno delle prigioni libiche. Forse “il marito” riesce a trovare dei soldi o forse scambia la loro libertà con il lavoro gratuito suo e di F. Costui ad un certo punto affida F. ad una donna che vive in Libia e di tanto in tanto va a trovarla. Non sono chiare ed al momento ricostruibili le dinamiche per cui F. arriva in Italia con un barcone nel Giugno 2017. Si presume che vi siano stati altri abusi sessuali e che la giovane donna non fosse in grado di gestire e programmare da sola il proprio viaggio in Italia.

 

La storia dell’approdo e l’arrivo in ambulatorio

     Dopo lo sbarco, F. è accolta nella struttura di permanenza breve di una ONG. La psicologa di tale struttura registra in F. in quel periodo, amnesia sulla memoria di breve durata, amnesia selettiva sulla memoria dei fatti traumatici accaduti, vuoti temporali sulla propria storia, difficoltà nell’organizzazione del linguaggio, balbettio, difficoltà nel mantenere l’equilibrio.Il collo è totalmente abbandonato e rivolto all’indietro, F. è limitata da tremori e oscillazioni del corpo. I medici che la visitano durante i primi 20 giorni di permanenza in Italia registrano: un focolaio pneumonico, shock settico con epatite acuta ed alterazione del sensorio, epatocolangite, crisi ipoglicemica, versamento ascitico, anemia acuta, iperlattacidemia, acidosi metabolica, disordini idrolettrolitici, pancreatite acuta. Non registrano cause organiche relative al disturbo del collo se non la distonia tonico clonica. Gli esami relativi alla sifilide danno risultato negativo. F. è inviata  presso l’ambulatorio di psichiatria transculturale con la diagnosi di disturbo dissociativo somatico.

 

La domanda: riprendersi il collo

     La domanda esplicita di F. è fare in modo che il collo possa tornare sotto il proprio controllo evitando di oscillare di continuo all’indietro: si evidenzia che quando il collo si rivolge all’indietro anche le gambe all’altezza delle ginocchia si incrociano e stare seduta o camminare diventa per F. difficoltoso. F. è costretta a cercare sedie che immediatamente dietro abbiano una parete, così da poggiare il collo al muro. Per camminare si comporta così: solleva le braccia, incrocia le mani dietro la testa, con le stesse blocca la testa da ambo i lati portando le dita sino alle tempie. Nel fare ciò la bocca si storce verso sinistra e gli occhi fissano il vuoto.

 

Altri segni sul corpo

     Il diaframma è contratto, il torace irrigidito in posizione inspirata, il bacino contratto e si nota un blocco della mobilità della colonna vertebrale all’altezza diaframmatica e delle ultime vertebre prossime alla zona sacrale. È presente un tremore alla bocca, al collo, alle braccia ed alla voce. Una delle gambe, la destra, all’altezza del polpaccio, diverge verso l’esterno, mentre le ginocchia tendono a convergere. Dalla posizione distesa, le gambe sono solide ed in grado di scalciare energeticamente e in modo coordinato. Le radiografie hanno confermato una saldatura delle vertebre della zona sacrale ed una cifosi alla zona sotto-diaframmatica. Alla visita ortopedica ed alla successiva visita osteopatica sono confermati: scoliosi destro-convessa del rachide al passaggio dorso lombare, lieve scoliosi sinistro-convessa al passaggio cervico-dorsale. Accentuazione della lordosi del rachide cervicale. Minima anterolistesi di C6 e C7. Modesta accentuazione della cifosi del rachide dorsale. Modico raddrizzamento della lordosi del rachide lombare. Lieve anterolistesi di L5 su S1. Emisacralizzazione articolata a destra L5. Lieve sovraslivellamento della linea bisiliaca a destra di circa 3mm. Nessuna di queste difficoltà sembra essere alla base del disturbo al collo di F.

 

La domanda, il rito e l’influenzamento magico

     Poiché le acque in cui F. subì l’abuso erano acque femmine, ovvero abitate da spiriti femminili, e poiché F. le inquinò con i propri liquidi durante l’abuso, una maledizione la colpisce e le impedirà di avere dei figli. F. chiede di essere aiutata nello sciogliere questa maledizione. Fatto ciò, il collo tornerà dritto e lei potrà essere madre. Per la liberazione da tale maleficio, la donna ritiene sia necessaria l’uccisione di un montone a lei dedicato, poiché così le disse un sacerdote del villaggio. L’uccisione potrebbe essere effettuata anche in un luogo diverso dal Ghana, ma servirebbe comunque la presenza di un celebrante riconosciuto in possesso dei poteri di esecuzione del rito. Al momento non si hanno notizie della presenza di figure simili in Sicilia.

 

Campi di accoglienza. Lo Sprar

  1. con l’aiuto di alcuni operatori, nei primi giorni di arrivo in Italia, ha fatto richiesta di permesso in Italia. Ciò le consentirà di abitare in uno Sprar, struttura di accoglienza per richiedenti asilo. F. a differenza di altri ospiti, non esce mai dalla struttura, se non in compagnia di un operatore. A fatica accetta di andare a scuola ponendo la condizione di essere accompagnata da altre ospiti.

 

Viaggi di andata e ritorno: tra primo e secondo campo

     La struttura cui F. è stata assegnata si trova in una località distante oltre 60 Km dall’ambulatorio di psichiatria transculturale; per venire in ambulatorio compie un percorso in auto in compagnia della psicologa della struttura e del mediatore culturale. Questo viaggio costituisce per F. l’unica occasione settimanale e cadenzata per uscire dalla struttura che la ospita ed incontrare il mondo della città e della sua terapia.

 

La mediazione linguistica: una comunicazione bidirezionale fuori dalla dimensione nosografica, dentro l’esperienza di vita

     Per le sedute è stato necessario individuare un mediatore, così da tradurre in italiano le affermazioni di F. e raccontare alle figure di cura il clima culturale in cui nascono le affermazioni di F. Al contempo viene richiesto al mediatore di tradurre le nostre parole e di introdurre le modalità culturali italiane. Ad esempio, è stato importante e necessario, spiegare a F. chi sono uno psicologo o uno psichiatra, cosa è il luogo in cui si trova e che in Italia è prevista la possibilità di guardarsi negli occhi mentre si parla (cosa invece ritenuta irrispettosa in Ghana).

Dal punto di vista logistico è stato necessario che il mediatore fosse disponibile negli orari dell’ambulatorio e potesse coordinarsi con la struttura dove F. risiede.

Non sono molti i mediatori della lingua twi parlata da F. e per quanto sarebbe stato più appropriato (per F. e per il mediatore) dati i racconti di abusi, la presenza di una donna, non è stato possibile rintracciare una mediatrice. Questo provoca tuttora qualche disagio, specie quando si trattano tematiche relative alla sessualità. Le sedute hanno una durata di un’ora e 15 minuti. Dentro questo tempo abitano i tempi delle parole di F. che vengono tradotte in italiano, le parole della terapeuta che vengono tradotte in lingua twi, le spiegazioni sull’utilizzo dei farmaci, le spiegazioni del mediatore sul clima e le credenze culturali, le narrazioni relative a modi di fare e di convivere in Ghana ed in Italia.

La fase di accoglienza ha avuto la durata di 8 sedute in 2 mesi: si sono consolidate le relazioni, si sono definiti i ruoli terapeutici, si sono chiarite le questioni legali e le modalità del colloquio che F. avrebbe dovuto sostenere per richiedere il permesso di vivere in Italia legalmente; la struttura di accoglienza ha preso nota della cura farmacologica somministrata, ha previsto una camera singola per F. e ha predisposto figure di cura che potessero occuparsi di lei per dare continuità agli incontri presso l’ambulatorio.

 

Il percorso terapeutico

La raccolta anamnestica

  1. nei primi mesi di terapia fa molta fatica nel parlare. Piange spesso, silenziosamente. Della sua vita racconta che è nata in salute, che forse è stata allattata al seno, forse per 2 anni come è tradizione in Ghana. Dell’infanzia ricorda che quando lei ha 3 anni la madre decide di andare via da casa e di portarla con sé. Per trasportarla la donna ha legato F. alla propria schiena con una fascia tipica africana. Si tratta di una fascia che consente alla bambina di poggiare interamente la parte anteriore del proprio corpo alla schiena della madre. Nel suo ricordo, mentre la madre si allontana, arriva il padre e la strappa dalla fascia. La madre a quel punto litiga con il padre e va via. Il mediatore ci spiega che è prassi abbastanza diffusa che al momento della separazione i figli rimangano con il padre. I ricordi di F. sul padre sono legati ad una quotidianità gioiosa e rilassata. A segnare la sua infanzia una ferita alla gamba destra provocata da una caduta in bicicletta e curata con le erbe da un saggio del villaggio. La gamba destra di F. risulta tuttora più rigida e sembra essere trascinata nel momento in cui le si chiede di camminare velocemente.

 

La relazione con F.

     Per F. è difficile parlare, la bocca si storce ad ogni movimento incontrollato del collo, il contatto oculare non sempre è possibile perché il collo tirato all’indietro non le consente di incontrare gli occhi dell’altro, gli arti sono contratti e quando raramente F. porge la mano, non riesce a stringere le dita. Il clima relazionale in presenza di F. è caldo, affettuoso e dignitoso. Dalla struttura apprendiamo che dialoga come può con le operatrici e che spesso canta.

 

Il carattere della relazione terapeutica

      Durante la visita psichiatrica con F., ci sono delle difficoltà diagnostiche legate al fatto che non è possibile fare diagnosi secondo schemi nosografici occidentali. F. è una donna che, contravvenendo alle indicazioni della matrigna, ha scelto di tirarsi fuori dagli equilibri culturali condivisi in Ghana. La sua sintomatologia sembra connessa alla difficoltà di ricercare una modalità per vivere all’interno di un mondo di cui ha trasgredito le leggi. Si ritiene che i sintomi possano essere inquadrati nella sfera dei disturbi d’ansia derivanti  dalla “crisi” di appartenenza generata dal rifiuto dei dettami culturali.  

Scegliamo di lavorare alla creazione di un clima strutturato, sereno e sicuro che riconosca ad F., dignità, consapevolezza, senso di appartenenza e possibilità di esprimere i propri no. F. inserisce tra i propri no la volontà di non parlare del viaggio. È disponibile a dire solo delle condizioni di salute in struttura in merito a sonno, fame e freddo. 

Accoglie con un sorriso un clima leggero in cui si scherza e si parla di relazioni sentimentali delle figure che si prendono cura di lei. Porta più volte la fantasia che la psicoterapeuta e lo psichiatra siano moglie e marito e, quando, dopo varie sedute accetta che non sia così, decide di nominare comunque lo psichiatra come papà e la psicoterapeuta come mamma. Durante la seduta di psicoterapia bisogna tenere conto dei tempi della traduzione, della stanchezza del mediatore che spesso fa fatica a sostenere il dolore di F., del fatto che F. è disposta ad accogliere indicazioni e suggerimenti più dal maschile che dal femminile.

immagine MESSINA seconda foto foto di Alessandra MeliFoto di Alessandra Meli

 Ogni incontro ha la seguente struttura interna: una prima parte in cui sono presenti F. il mediatore e la terapeuta; una seconda parte in cui entra anche la psicologa referente dello Sprar e con la quale si parla dell’organizzazione quotidiana, delle relazioni dentro la struttura e del colloquio con la commissione per richiedere il permesso a rimanere in Italia; una terza parte durante la quale c’è la presenza dello psichiatra, si valutano gli effetti della cura farmacologica e dei progressi fisici. È in questa fase che F. sperimenta l’ascoltare ed il proferire qualche frase in italiano. La cura farmacologica prevede la somministrazione del DEPAKIN.

 

Il progetto terapeutico e l' evoluzione dele sedute

     Valutiamo che il collo di F. (che rivolto all’indietro ricorda la posizione di chi, immerso, non vuole affogare) possa tornare sulle spalle tramite un lavoro oculare (il punto fisso luminoso), che  ristabilisca una giusta distinzione e distanza tra Sé e l’Altro da Sé, sino al rientro in quei confini corporei (da cui il collo all’indietro trasborda). Il progetto è aiutare F. a ridefinire un campo di coscienza dell’Io, una verticalità corporea strutturata, ripristinando una convergenza oculare; che attivi la possibilità di navigare senza affogare tra le acque del lago e di mostrare a collo fermo il proprio dissenso per costumi culturali che non condivide.

     Facciamo l’ipotesi che il collo di F. non riesca a stare nello spazio e non riesca a sostenere quello che gli occhi hanno visto nel lago e durante il viaggio; una convergenza oculare ed una sostenibilità degli occhi potrebbe allentare il collo e resettare la posizione dell’atlante epistrofeo ridando il senso della profondità in avanti. Successivamente sarà necessario un acting con il quale F. possa sperimentare la presenza del torace e della colonna vertebrale ben poggiata, sino a passare a un acting con il quale possa muoversi attivamente e respirare, mentre le figure di cura rimangono in una posizione ferma e strutturante. Riteniamo che ogni acting sia da svolgersi alla presenza di un punto fisso luminoso o di occhi caldi e strutturati.

  1. ha accettato, dopo i primi due mesi, di stare sul lettino; le chiediamo di osservare la luce di una penna con lampadina gialla (acting del punto fisso luminoso): mentre F. è sdraiata la terapeuta sta dietro di lei dalla parte del capo, la luce è all’altezza della glabella ad una distanza di oltre 20 cm. dai suoi occhi. Tale distanza è concordata con lei ogni volta. Durante i 15 minuti di svolgimento dell’acting, F. è presente, tiene lo sguardo alla luce e sostiene di sentire “le formiche che corrono sotto la pelle per tutto il corpo, come fiumi caldi che scorrono” e parecchio calore agli arti. Queste sensazioni la stupiscono dandole la sensazione di qualcosa di magico. Dopo 6 sedute F. chiede che la luce sia sostenuta dal mediatore “perché uomo” e chiede la presenza della psicoterapeuta a lato. Con l’andare delle settimane le chiediamo di “allenare le braccia” (acting delle mani tese verso l’alto): mentre guarda la luce della penna, le braccia saranno allungate e dirette al soffitto, poggiando il più possibile la colonna vertebrale sul lettino[3]. Due sedute dopo, F. accetta di usare gli occhi e di iniziare a camminare: lei in piedi al centro della stanza, il mediatore alla sinistra di F. alla distanza di due metri, la terapeuta al polo di destra, anche lei distante due metri. F. inizia una camminata andando in linea retta verso il mediatore, tornando indietro verso il centro e andando dall’altra parte verso la terapeuta. La consegna è di “far finta” che i loro occhi siano come la luce della penna. Le chiediamo di utilizzare i propri occhi come ancore, sino a fare in modo che la volontà di guardare davanti a sé sia così forte da portare il collo a raddrizzarsi. L’idea è di dare ad F. la possibilità di muoversi gestendo i propri passi, tra funzione maschile e funzione femminile, tra un confine e l’altro, con una muscolarità capace di gradualità. Lungo i mesi, la bocca si rilassa, la colonna vertebrale diviene meno tesa, il balbettio si riduce, i passi diventano più stabili ed il collo risponde alla sua volontà per qualche secondo. F. ha fatto emergere nei mesi precedenti i racconti relativi al suo essere raccoglitrice di peperoncini nei campi. Racconta spesso con gioia ed orgoglio che il fidanzato le regalava peperoncini pregiati da vendere ad un prezzo più caro al mercato.

 

Uno snodo terapeutico. Riprendersi il collo: dai campi di peperoncino alle ceste sul capo

     Dopo 7 mesi di terapia F. cammina più facilmente, usa le mani per rimettere dritto il collo e poi questo rimane dritto per 15-20 passi mentre cammina. Abbiamo aggiunto alla camminata, una respirazione con “a” pronunciata all’espirazione, all’appoggio del piede durante il passo, questo facilita di molto F. che trova un ritmo ed una stabilità. F. ha anche appreso di essere HIV positiva e le sono state spiegate tutte le precauzioni del caso e gli accorgimenti nel caso di una gravidanza. F. ha stabilito rapporti di amicizia con le operatrici e mostra un innamoramento verso un ragazzo sordomuto ospite dello Sprar. Pare che lei intervenga spesso per difenderlo dalle derisioni degli altri.

     Durante una seduta (siamo quasi all’ottavo mese di terapia) F. racconta dei viaggi a piedi che faceva per trasportare l’acqua o la legna. Per svolgere tale compito arrotolava un pezzo di stoffa, lo poneva sulla testa e poi su di esso poggiava anche 20 kg. di legna sistemata dentro una cesta. Il mediatore spiega che si tratta di una tecnica di trasporto diffusa in Africa e che le donne imparano sin da piccole. Chiediamo se vuole provare a trasportare qualcosa durante la seduta. Rimediamo un foulard che la terapeuta porta al proprio collo in quel momento, F. lo arrotola e lo pone sul capo, il mediatore riempie un cestino con dei libri e lei lo solleva, lo sistema e lo poggia sulla propria testa, sul foulard arrotolato. Poi a collo fermo, inizia a camminare e trasporta per più di 40 metri questo peso. La psicologa referente Sprar, stupita, realizza un video della camminata di F. Fatto ciò F. si ferma e con occhi commossi rimane in silenzio. Dopo qualche secondo il collo si rivolge all’indietro e trema. Riproviamo più volte: quando F. porta il cestino in capo il collo è fermo, appena togliamo il cestino il collo è instabile. F. rivede sé nel video e sorride compiaciuta. Rimaniamo in silenzio a collo fermo e posato.

Ad un anno e sei mesi dall’inizio della terapia, permane questa condizione, per quanto i tempi di gestione del collo si siano allungati anche a 10-15 minuti consecutivi. F. ha iniziato a ricordare del viaggio verso la Libia, ha ottenuto un permesso di soggiorno internazionale di 5 anni per rimanere in Italia e poter viaggiare in tutti gli stati fatta eccezione per il Ghana; la Commissione che le ha dato il permesso di soggiorno ritiene che il Ghana sia per lei un paese pericoloso: se tornasse lì, implicitamente per la legge, affermerebbe di non temere più il suo Paese e quindi decadrebbe il permesso di tornare in Italia e di soggiornare. F., cui sono state spiegate tali informazioni legali, esprime comunque, in quel periodo, il desiderio di tornare in Ghana per adempiere al rito del montone. Ad un certo punto in quei mesi, appaiono sulla scena, contattandola telefonicamente, una donna che dice di essere la madre ed un ragazzo che dice di essere un fratello. Dati gli anni di assenza della madre e date le circostanze poco chiare in cui F. arriva in Libia e poi in Italia, si sta valutando tuttora, quanto sia rischioso per F. tornare in Ghana e quanto la donna possa davvero essere la madre o una donna che vuole coinvolgere F. in questioni di tratta di essere umani. Oggi ad un anno ed 8 mesi dall’inizio della terapia F. raccoglie la biancheria lavata e stesa all’interno dello Sprar che la ospita, la pone dentro una cesta e poi la porta in struttura, trasportandola sulla testa.

 

Corpo culturale

     Chiediamo al mediatore, 4 mesi dopo dalla scoperta di potere trasportare la cesta sul capo, che cosa rappresenti per una donna ghanese il collo. È una domanda che abbiamo posto a lui sin dagli inizi della terapia, finora le risposte erano state relative ai vestiti, al camminare, alla dignità. In una delle ultime sedute il mediatore ricorda, all’improvviso, che se una donna ghanese vuole in qualche modo declinare le proposte di seduzione di un uomo o vuole offenderlo, sporge il collo in avanti, lo spinge con una rotazione verso destra, poi rimanendo in questa posizione, porta il collo in un’unica rotazione verso sinistra, solleva gli occhi e facendo schioccare la lingua guarda per qualche secondo l’uomo con occhi fermi e di sfida. Il mediatore tiene a precisare che si tratta di un gesto così forte ed offensivo che persino se rivolto verso un uomo di cui la donna è molto amica, può provocare liti e offese irreversibili. Il mediatore traduce a F. il racconto di questa pratica, F. sorride e conferma.         Sappiamo che per lei è difficile mentalizzare le emozioni, scegliamo di accennare una connessione e le parliamo di un collo che può arrabbiarsi, che non ha potuto dire di no ad alcuni uomini e che oggi si trova al sicuro e può scegliere.

 

Mettere gli occhi sullo spaesamento

     La terapia di F. è tuttora in atto. Sono in corso le negoziazioni di F. e del mediatore per raggiungere telefonicamente un pastore religioso in Ghana che possa realizzare il sacrificio del montone vicino le acque del lago in cui lei subì le violenze. Per fare ciò F. dovrà inviare del denaro proprio accumulato in questi mesi di permanenza presso lo Sprar. Il rito ha il costo di 100 euro e bisognerà essere certi che il pastore sia onesto ed effettui il rito. Permane la sensazione che ancora altri elementi storici, biografici, magici e culturali sfuggano alla narrazione e siano intraducibili o non pensabili. Tuttavia, il gruppo di lavoro ha la sensazione che proprio l’accogliere la dimensione dello spaesamento, rispetto ad una architettura culturale differente, lasci le porte aperte ad un progetto terapeutico appropriato, in divenire.

 

 

Bibliografia

Coppo, P., (2013), Le ragioni degli altri. Etnopsichiatria, etnopsicoterapie. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Ferri, G., Cimini, G. (2012), Psicopatologia e carattere. Roma: Alpes.

Ferri, G. (2017), Il corpo sa. Roma: Alpes.

Quaranta I. (a cura di), Fabietti E. (Traduttore)(2005), Antropologia medica. I testi fondamentali. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Inglese S., Cardamone G. (2011),  Déjà vu, Tracce di etnopsichiatria critica. Milano: Edizioni Colibrì.

Inglese S., Cardamone G. Déjà vu. Laboratori di etnopsichiatria critica. Milano: Edizioni Colibrì. 

Nathan T., (1996), Principi di Etnopsicoanalisi. Torino: Bollati Boringhieri.

Nathan T., Stengers I., (1996), Medici e stregoni. Torino: Bollati Boringhieri.

Nathan T.,(2003), Non siamo soli al mondo. Torino: Bollati Boringhieri.

Risso M., Böker W. (2000), Sortilegio e delirio. Psicopatologia delle migrazioni in prospettiva transculturale. Napoli: Liguori.

[*] Psicologa, psicoterapeuta, analista S.I.A.R.

[†] Medico psichiatra presso Agorà per Dipartimento di Salute Mentale ASP 3 Catania.

[1] L’ambulatorio facente riferimento al Dipartimento di Salute mentale della ASP 3 di Catania è ubicato all’interno del centro ASP Agorà. Il centro accoglie al proprio interno l’area Sociale, gli ambulatori di Medicina generale, il Servizio Accettazione infermieristico, l’Associazione Penelope che si occupa di donne vittime di tratta, e l’Osservatorio sulla Sofferenza Urbana. Un centro così organizzato, comporta una maggiore facilità di fruizione dei servizi poiché si riduce la necessità di girare per uffici e ambulatori dislocati in parti differenti della città. Ciò costituisce elemento di facilitazione per chi non conosce la dislocazione dei servizi, le vie della città e la lingua per potere leggere i nomi delle vie o chiedere informazioni. La prossimità degli ambulatori e degli uffici consente una maggiore collaborazione tra i servizi.

[2] Nel pensiero post reichiano per acting si intendono movimenti ripetuti dalla persona. Questi sono progressivi e specifici di livello corporeo; ripercorrono l’esperienza dello sviluppo psico-affettivo e della maturazione emozionale della persona, riproducendo movimenti ontogenetici di fasi evolutive.

[3] Si tratta di un altro acting, in questo caso associato al punto fisso con luce. Riguardo alle motivazioni psicoterapiche ad esso associate si faccia riferimento agli studi di Vegetoterapia post-reichiana che connettono tale acting alla presenza del torace ed alla funzione di padre.

ANALISI DEL CARATTERE E TEORIA DELL’ATTACCAMENTO

Viviana Leoncini[*]

 

 

Abstract

Questo lavoro si propone di leggere, attraverso il modello teorico clinico reichiano, gli Stili di Attaccamento nel bambino e nell’adulto, in termini analitico-caratteriali. Tale lettura apre, dispiega e vitalizza la suddetta classificazione, permettendo al clinico di intervenire in maniera appropriata sulla catena transgenerazionale di pattern relazionali spesso disfunzionali.

 

Parole chiave

Modello teorico clinico reichiano – Stili di Attaccamento – Transgenerazionale.

 

Abstract

 This article aims at reading the classification of the different Styles of Attachment in infants and adults, in terms of analysis of the character, through the reichian theoretical-clinical model.Such reading opens, unfolds and gives life to the mentioned classification, so that the clinician can intervene appropriately on the transgenerational chain of often-dysfunctional relational patterns.

 

Keyword

Reichian theoretical-clinical model - Styles of Attachment – Transgenerational.

 

     La riflessione proposta in questo lavoro affonda le sue radici nel modello di riferimento proprio della Società Italiana di Analisi Reichiana, con l’intento di restituire un tempo, una storia ed un’ipotesi di fissazioni caratteriali prevalenti, agli stili di attaccamento individuati nel bambino e nell’adulto.

     Per ragioni biologiche e culturali, nella società occidentale è la madre che più spesso si occupa e si preoccupa della cura del bambino, stabilendo con lui una relazione primaria fin dal periodo intrauterino, relazione che evolve nel post partum, prezioso tempo di relazione in cui si densifica e si definisce lo stile di attaccamento prevalente del piccolo. Proprio per questo lo stile di attaccamento che verrà osservato è quello che il bambino apprende dalla relazione con l'adulto che per primo si prende cura di lui, dal primo imprinting relazionale.

     Nell’attuale, mutevole, e per questo a volte difficile, cornice socio-culturale non è sempre semplice allinearsi con i costrutti che la psicologia e le scienze sociali hanno messo a punto negli ultimi anni, proviamo ad ogni modo a leggere la complessità senza ridurla a categorie e protocolli, proviamo a leggere la scena che abbiamo davanti, avendo ben chiara la straordinaria intelligenza della vita e la sua tendenza a preservarsi sempre.

     Bowlby definì l'attaccamento come un desiderio biologicamente fondato di mantenere la prossimità fisica con il caregiver, o figura di attaccamento (FAD). Egli rifiutò la teoria di Freud secondo la quale la prossimità del bambino alla figura di riferimento fosse strettamente legata al bisogno di nutrimento, al contrario sosteneva l'importanza del soddisfacimento emotivo del piccolo. (Barone, Del Corno, 2007).

     A questo proposito gli studi di Harlow, tra il 1958 ed il 1965, diedero seguito a questa ipotesi. Attraverso l’osservazione del comportamento di alcuni macachi, Harlow riuscì a dimostrare che la vera funzione dell’attaccamento è quella di assicurare un contatto continuo ed intimo con la madre, allo scopo di avere garantita la protezione, specie in momenti di paura o pericolo.

     Ma se l'attaccamento è, come lo definisce Bowlby, un desiderio biologicamente fondato di mantenere la prossimità fisica, dunque di essere accudito, possiamo ridefinire il Big Bang dell'attaccamento stesso?

     Facciamo un passo indietro, un tuffo nella vita pre-natale, quella in cui si definisce la densità del Sé, ovvero il suo quantum energetico, l'élan vital e la resilienza possibili.

     Con la fecondazione ha inizio la vita, è nell'incontro della diversità che nasce un nuovo Sé. La sua sopravvivenza è però legata alla possibilità dell'ovocellula di annidarsi nell'utero della madre, di affrontare il primo momento critico della vita. Quando l’ovulo fecondato raggiunge l’utero della madre subisce trasformazioni e si prepara ad annidarsi. Questo nucleo di vita si aggrappa alla parete uterina, con tenacia vi infiltra delle piccolissime radici chiamate digitazioni trofoblastiche. Tale radicamento gli permette di prendere energia, l'energia specifica di quell’utero, di quel bacino, di quella madre. (Ferri, Cimini, 2012).

     Durante la gravidanza poi, la madre è in contatto corporeo con il bambino che cresce in lei, cambiano le sue percezioni sensoriali, cambia il suo corpo, molto spesso il sistema attorno a lei si modifica e si prepara ad accogliere la nuova vita. Ancor prima di vederlo, quel bambino sarà pensato e poi immaginato. Entrambe queste costruzioni accompagnano la gravidanza ed incontreranno nel post partum il bambino reale. (De Bonis, Pompei, 2015). Tale movimento emozionale, non ha forse la forma di un primario accoglimento/accudimento? Non è forse l'inizio di ciò che con il tempo si strutturerà come legame di attaccamento? Potremmo dunque ipotizzare che le basi di tale legame vanno strutturandosi fin dalla gravidanza e che, quella pre-natale, sia l’inizio della relazione con il bambino reale.

immagine per Leoncini Luigi Celommi2000Luigi Celommi,2000     Potremmo dunque definire questo primo ed incredibile incontro tra madre e bambino un prototipo dell’attaccamento post natale?

     Le intuizioni di Bowlby circa il legame di attaccamento ed il suo ruolo nello sviluppo psico-affettivo del bambino, trovarono seguito, alla fine degli anni ’70 del ‘900, nel lavoro di Mary Ainsworth e collaboratori. Attraverso la messa a punto di un metodo di osservazione della relazione genitore-bambino, la Ainsworth trovò il modo per discriminare e sistematizzare diversi stili di attaccamento in bambini dai dodici ai diciotto mesi, tale metodo è la Strange Situation (SS). Si tratta di una procedura suddivisa in 8 momenti in cui è possibile osservare la qualità dell'attaccamento in condizioni di bassa ed alta tensione emotiva, in compiti di esplorazione dell'ambiente con e senza la presenza della madre, così da valutare la reazione del bambino al momento della separazione e del ricongiungimento al caregiver (Barone, Del Corno, 2007).

     Da tali osservazioni la Ainsworth ed il suo gruppo di lavoro definirono 3 stili di attaccamento. Vent’anni dopo, la Main ne descrisse un quarto. Tali stili di attaccamento sono: Sicuro (B), Evitante (A), Resistente (C), Disorganizzato (D).

     In seguito, attraverso l’Adult Attachment Interview (A.A.I.), Main e Goldwin (1994-2002) hanno classificato 4 stili di attaccamento nell’età adulta: Sicuro/Autonomo (F), Distanziante/Svalutante (Ds), Preoccupato/Invischiato (E), Non risolto (U).

     Proviamo a mettere in relazione le osservazioni di questi studiosi rispetto agli stili di attaccamento in età evolutiva ed adulta, tentando una lettura ed una traduzione delle loro teorie attraverso il nostro modello di riferimento, quello della S.I.A.R.. Consideriamo inoltre che, qualunque sia lo stile di attaccamento imprintato dalla madre, la risposta del piccolo Sé è influenzata dalla sua densità, ovvero dalle sue risorse in termini di adattamento all’ambiente.

     Lo stile di Attaccamento Sicuro (B) nel bambino è in relazione con lo stile di attaccamento Sicuro/Autonomo (F) nell’adulto.

     Adulti con uno stile di attaccamento Sicuro/Autonomo, valutati con l’A.A.I, hanno una capacità coerente di descrizione e valutazione delle esperienze di attaccamento, indipendentemente dal carattere positivo o negativo di esse, le risposte sono chiare, rilevanti, ragionevolmente succinte. Queste persone riescono a rievocare la propria storia infantile in maniera serena attraverso un racconto sincero, non contraddittorio e centrato sulle tematiche di attaccamento. I meccanismi di regolazione emozionale permettono alla persona di esprimere spontaneamente ed in maniera flessibile, l'intera gamma delle emozioni, positive e negative (Barone L., Del Corno F., 2007).

     Attraverso il modello teorico-clinico della S.I.A.R. possiamo provare a rileggere questo stile di attaccamento. Immaginiamo che un adulto con stile di attaccamento Sicuro/Autonomo abbia una discreta percezione di se stesso, con una buona consapevolezza dei propri limiti e delle proprie risorse. Quando tale adulto è una madre, immaginiamo che riesca, nonostante le difficoltà, a mantenere il focus sul suo ruolo genitoriale e sulla cura del proprio piccolo. Una madre con attaccamento sicuro/autonomo ha imprintata, a livello centrale e periferico, una relazione oggettuale primaria sufficientemente buona, ha sperimentato lo sguardo di sua madre che l’ha inclusa e vista, ha vissuto le frustrazioni in maniera funzionale e neghentropica al suo sviluppo psico-fisico. La capacità riparativa di una madre con tale stile di attaccamento, può compensare e riparare le umane asincronie possibili tra lei ed il suo piccolo.

     La combinazione caratteriale può di certo essere varia, ma ipotizziamo si sia strutturata una stratificazione di fasi evolutive sane o ben compensate.

     Lo stile di attaccamento Evitante (A) nel bambino, è in relazione con lo stile di attaccamento Distanziante/Svalutante (Ds) nell’adulto.

     Adulti con questo stile di attaccamento, valutati con l’A.A.I., hanno difficoltà a rievocare la propria storia infantile, mostrando la tendenza ad idealizzare o svalutare le figure di attaccamento. Il racconto è parziale e contraddittorio, spesso lontano dalle tematiche di attaccamento, l'espressione delle emozioni è molto inibita e focalizzata su tematiche non interpersonali (Barone, Del Corno, 2007).

     Possiamo ipotizzare l’analisi del carattere di una madre con stile di attaccamento Distanziante/Svalutante, immaginando la sua difficoltà a lasciarsi andare al suo bambino, nel concedersi energeticamente ai suoi bisogni. La relazione con il piccolo è in qualche modo pericolosa, la richiama verso un tempo per lei doloroso, molto spesso un dolore che non è stato visto né elaborato. Ipotizziamo abbia sperimentato un primo campo difettuale, un'insufficienza di tempo di relazione, uno svezzamento precoce che spinge il Sé ad aggrapparsi alla fase dello sviluppo successiva, un gancio nella muscolarità che permette di chiudere e rimuovere il bisogno orale. Nella descrizione della SS si parla di un atteggiamento rifiutante ed insensibile, che potremmo leggere in termini di difficoltà a sintonizzare l'ascolto emotivo sul bambino e sulle sue richieste: nella sua storia c'è la memoria corporea di un tempo insufficiente, di un bisogno di calore e nutrimento che viene precocemente interrotto. Siamo nell'area dell'oralità difettuale con blocco rimosso, il Sé può affacciarsi nella  fase muscolare e fare lì una cofissazione coprevalente così da poter rimuovere la rabbia e la paura sottostanti, esprimendo una peculiare aggressività di tipo mordace, rivendicativo. Tale vissuto è responsabile di un investimento del Sé, e poi dell'Io, su se stessi, una sorta di ritiro sulle proprie risorse. Tale ritiro risulta salvifico per certi aspetti, ma inevitabilmente porta con sé una rabbia implicita o esplicita verso l'Altro, inaffidabile e debitore.

     Il bambino con stile di attaccamento insicuro-evitante, fin dalla fine del primo anno d’età, manifesta un adeguamento allo stile relazionale della madre, evita di chiedere e mostrare il suo bisogno che non viene accolto benevolmente dalla stessa. Le relazioni interpersonali saranno caratterizzate da freddezza emotiva. Il bambino, oramai divenuto adulto, ha interiorizzato la madre “rifiutante” e cercherà in tutti i modi di difendersi da eventuali esperienze altrettanto dolorose.

     Il senso del comportamento evitante può essere letto anche come una modalità protettiva rispetto ad una intensa ed ancestrale paura di castrazione vissuta dal Sé in fase intrauterina. Il modello S.I.A.R. distingue l’allarme intrauterino in fobico, borderline e psicotico. L’allarme che una madre con attaccamento distanziante/svalutante potrebbe aver vissuto, durante la fase intrauterina, è di tipo fobico, causato da eventuali minacce di separazione o da un utero trattenente. Tali minacce espongono il piccolo Sé ad un allarme senza soluzione, dove la separazione segna il passaggio dalla vita alla non vita, il Sé vive un’angoscia di morte che si fa segno inciso nelle vesti dell’allarme. La fase intrauterina trova nel binomio accettazione-rifiuto la sua essenza, il rischio di non essere inclusi ed avvolti dall’Altro da Sé che è utero e vita, prende la valenza di una ferita narcisistica tanto profonda e antica da determinare una priorità assoluta nell’economia di quel sistema vivente: difendersi. Si tratta in ogni caso di un Sé a densità medio-alta, un Sé che dimostra la resilienza necessaria per compensare la difettualità della relazione con la madre, con modalità nevrotiche ma organizzate.

     Lo stile di attaccamento Resistente (C) nel bambino è in relazione con lo stile di attaccamento Preoccupato Invischiato (E) nell’adulto.

     Gli adulti valutati con l’A.A.I. manifestano un coinvolgimento confuso, passivo o arrabbiato rispetto alle figure di attaccamento, hanno uno stile di narrazione della propria storia prolisso e ridondante. Le emozioni sono espresse in maniera accentuata, con frequenti oscillazioni dei giudizi affettivi ed ostinazione sulle tematiche relazionali. Questa oscillazione tra contatto e distacco, tra la possibilità di rispondere al bisogno del bambino e la necessità di prenderne le distanze, ci porta nell'area dell'oralità difettuale, a cavallo tra il blocco insoddisfatto, quello dell'insufficienza di scambio tra il Sé e l'Altro da sé, ed il blocco rimosso, ovvero l'insufficienza di tempo. Siamo nell'area clinica dei disturbi depressivi minori o orali secondari, lo stile relazionale della madre non trova definizione, è in stallo tra un'oralità richiedente ed una che nega il bisogno, tra l'instancabile attesa di essere risarciti e l'attivazione muscolare che chiude il bisogno orale rivendicandolo attraverso una rabbia mordace non sempre espressa. La densità del sé potrebbe essere medio-alta.

     Il bambino cerca di adeguarsi a tale stile relazionale rimanendo però nella confusione e nell'oscillazione possibile. Teme il distacco dalla figura di riferimento di cui ha bisogno, ed allo stesso tempo non può averne fiducia per cercare consolazione. In questa oscillazione organizza il suo pattern di relazione, in una cornice incerta e dunque ansiogena. La relazione è permeata dall'incertezza che mantiene l'arousal oltre soglia, c'è un'attenzione costante a decifrare il messaggio mutevole della madre, un allarme continuo.

     Lo stile di attaccamento Disorganizzato (D) nel bambino è in relazione con lo stile di Attaccamento Non Risolto (U) nell’adulto.

     Lo stato mentale degli adulti valutati con l’A.A.I. appare disorganizzato o disorientato rispetto ad un'esperienza di perdita traumatica. Nel corso del racconto, queste persone rievocano eventi traumatici vissuti durante l’infanzia, il racconto è contraddittorio, minato da elementi mnestici sensoriali, per di più si evidenziano stati alterati di coscienza e grave difficoltà nella regolazione emozionale (Barone, Del Corno, 2007).

     Madri con tale stile di attaccamento ci portano su un terreno a densità energetica medio-bassa, dove le risposte adattive agli eventi di vita, seppur le migliori in termini di economia personale, risultano deficitarie ed entropiche. Le fissazioni prevalenti saranno intrauterine o di fase orale, l'energia del sé è sequestrata da una sofferenza arcaica e profonda, mai sanata e con ogni probabilità eccessiva per la sostenibilità della persona.

     Ipotizziamo le fissazioni possibili della madre con attaccamento Non Risolto. Potrebbe trattarsi di una fissazione intrauterina da difetto, nella dimensione rimossa dei disturbi depressivi di prima grande bocca con densità bassa, fino al blocco insoddisfatto con i disturbi borderline e psicotici a densità bassissima.

     Potrebbe esserci una fissazione orale da difetto, con blocco rimosso o insoddisfatto, dunque nell'area dei disturbi depressivi minori, e delle dipendenze. La densità della persona è medio-bassa ed incastrata nel proprio bisogno, nella necessità di colmare e calmare i bisogni di quella fase evolutiva. Tale è la sofferenza e il bisogno di queste madri da non avere energia, cuore e occhi per il loro bambino.

     Se la densità del bambino è sufficientemente buona, riuscirà ad attivare uno stile di attaccamento invertito, ovvero un’attivazione del sistema di accudimento in risposta al bisogno della madre, sistematizzando una posizione masochistica primaria di I e/o II tipo. Oppure attiverà la strategia controllante-punitiva dove, nel tentativo di controllare la situazione, si fa genitore del proprio genitore ma con modalità rabbiose e aggressive, un working internal model di rango sociale. Se la densità del piccolo sé è anch'essa bassa o bassissima, scivolerà in dimensioni borderline o addirittura psicotiche.

     La tabella qui allegata facilita la comprensione e la connessione tra le differenti, ma interconnesse, definizioni e letture.

 

STILI di ATTACCAMENTO e TRATTI del CARATTERE

Stili di Attaccamento nel bambino:

Mary Ainsworth et al.

(1978)

B -

Sicuro

A –

Evitante

C -

Resistente

D -     

Disorganizzato

Stili di Attaccamento nell’adulto:

Adult Attachment Interview (A.A.I.),

Main e Goldwin (1994-2002)

F -

Sicuro/Autonomo

Ds -

Distanziante/Svalutante

E -

Preoccupato/Invischiato

U -

Non Risolto

Lettura Reichiana

dello Stile di Attaccamento

Stratificazione di fasi evolutive ben compensate. Sufficiente capacità riparativa.

• Fissazione Orale difettuale con blocco rimosso

• Fissazione Intrauterina da eccesso (dipendenza)

Fissazione Orale a cavallo tra il blocco insoddisfatto e quello rimosso

Fissazione Intrauterina difettuale rimossa o insoddisfatta

     L’analisi del carattere apre, dispiega e vitalizza una classificazione come quella che la Ainsworth, la Main, Goldwin e i loro collaboratori hanno regalato al mondo della psicologia. L’analisi del carattere prende in considerazione la vita, sempre mutevole e multisfaccettata, permettendoci di vivere l’esperienza con l’altro nei nostri setting in maniera tridimensionale, con la storia che la persona racconta attraverso la sua modalità relazionale.

     Nel setting analitico, e/o terapeutico, è fondamentale che il clinico possa disegnare, nella sua mente e nel suo sentire, la storia degli stili di attaccamento della persona. In questo modo è possibile ricostruire e leggere le modalità con cui le relazioni significative dell’altro hanno influenzato e definito il suo modo, più o meno funzionale, di essere e muoversi nelle relazioni interpersonali del qui ed ora. Attraverso questa lettura è possibile fare un’appropriata diagnosi, e porsi con l’altro in una posizione relazionale il più possibile neghentropica, che favorisca quindi la sua evoluzione.

     Ancor di più lavorando nell’ambito della prevenzione, con le donne incinte nei percorsi di preparazione alla nascita, o con le famiglie in percorsi di ascolto ed intervento nel post-partum e nell’infanzia, è indispensabile riuscire a cogliere lo stile di attaccamento in entrambi i genitori. Il rischio è quello che possano reiterare modalità relazionali disfunzionali che hanno il sapore di una catena transgenerazionale, di cui non si è a conoscenza, e che per questo risulta pericolosa.

     Aiutare l’altro ad essere consapevole della propria storia è il primo passo verso una genitorialità che sappia coniugare l’istintualità con il sentire, e che affidi all’Io il governo del suo dispiegamento.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Barone L., Del Corno F. (2007), La valutazione dell'attaccamento adulto. I questionari autosomministrati. Milano: Raffaello Cortina Editore.

De Bonis, M.C., Pompei M. (a cura di), (2015) Come sarà il tuo bambino? Dal concepimento inizia a formarsi il carattere. Roma: Alpes.

Ferri, G., Cimini, G. (2012), Psicopatologia e Carattere. L'Analisi Reichiana. Roma: Alpes.

Liotti, G. (2005), Trauma e dissociazione alla luce della teoria dell’attaccamento. In: Infanzia e Adolescenza, Vol. 4, n.3, 2005.

Liotti, G. (2013), Attaccamenti traumatici. Napoli, 12 Aprile 2013.

Siegel, J.D., Hartzell M. (2016), Errori da non ripetere. Come la conoscenza della propria storia aiuta a essere genitori. Milano: Raffaello Cortina Editore.

Winnicott D.W., (1975). Dalla pediatria alla psicoanalisi. Patologia e normalità nel bambino. Un approccio innovatore. Osycho – G.Martinelli, Firenze.

[*] Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R.