Numero 1/2021

NOMADLAND

                                                                      di Chloé Zhao USA, 2020

 

a cura di Luisa Barbato[*]

 

     Nomadland è un film pluripremiato: ha vinto il Leone d'Oro al festival di Venezia del 2020, i Golden Globes 2021 per miglior film drammatico e miglior regia, gli Oscar 2021 per miglior film, regia e attrice protagonista. 

     Pur occupandosi di realtà di provincia, si tratta di un curioso mix internazionale: la regista, Chloé Zhao, è cinese, la protagonista, Frances Mcdormand, è francese, l’ambientazione è americana.

     Racconta la storia di Fern, una donna di mezza età rimasta vedova che, a una vita sedentaria e stabile, ne preferisce una lungo la strada, vivendo nel suo camper e spostandosi di città in città. Nel suo peregrinare incontrerà molti che vivono come lei, per scelta o per necessità o per entrambe, sono i nuovi nomadi d’America.

     La personalità di Fern è al limite, marginale, al di fuori di ogni schema precostituito, una personalità che non trova casa nell’America contemporanea. Allo stesso tempo è proprio questa marginalità, questa mancanza di radici o di riferimenti certi che rappresenta il sottofondo dell’America contemporanea smarrita, senza certezze, senza radici culturali ed economiche. E ad esprimere tutto questo sono soprattutto le minoranze, gli emarginati e i nuovi poveri che, dopo la crisi economica del 2008 e il crescere della pressione migratoria,  costituiscono una parte non più tanto minoritaria del Paese. È la sintesi degli Stati Uniti d’America dove i nuovi poveri non sono più solo le minoranze etniche o razziali, ma anche i bianchi di mezza età, ex borghesi tagliati fuori dalla crisi economica, che scelgono di rimanere autonomi reinventando lo spirito tradizionale del Paese ossia il viaggio alla scoperta di nuove terre, la ricerca del selvaggio West. Non ci sono più cavalli e carovane, ma camper e furgoni a fare da casa a una vita nomade.

     Si potrebbe quasi pensare a un western moderno, ma lo stile narrativo è diverso, le storie dei nomadi attuali sono raccontate in modo semplice, quasi casuale, evitando scene drammatiche o vittimistiche perché tutti abbracciano l’idea di aver scelto quella vita, ne sono in qualche modo fieri o forse hanno voluto dimenticare di esserci stati costretti. Questo coinvolge molto lo spettatore che non può fare a meno di empatizzare con la solidarietà, condivisione e spirito di comunità di queste persone. Un inno al saper fare del proprio meglio anche quando non si ha più niente di materiale e non si vedono prospettive per il futuro, al saper chiedere aiuto e, al contempo, saperlo dare.

IMG recensione film Nomadland 1Immagine dal film "Nomadland"     Frances Mcdromand ha completamente meritato l’Oscar, riesce a restituire tutte le incertezze e le sfumature di un’esistenza precaria, ma senza curarsi della stabilità, anzi è un personaggio quasi austero nella sua riservatezza e autonomia, a tratti rasenta l’integralismo. Fern sembra quasi incapace di provare emozioni e in ogni caso decisa a non cogliere le opportunità di fermarsi in una vita più stabile che pure le vengono offerte. In questo ritratto di donna orgogliosa e solitaria si legge la mano femminile della regista. Non ci viene data risposta se Fern sia così per sua propria natura o perché indurita dalle avversità della vita, in particolare la morte dell’amato marito. Ma in fondo che importa stabilirlo, si intuisce un cuore tenero, gentile con il prossimo, che si è chiuso nel tempo per il dolore e forse anche la paura di una vita così precaria.

     Tutto questo non colpirebbe così tanto lo spettatore se non ci fossero a fare da contorno paesaggi spettacolari, immagini di rara potenza e silenzi contemplativi nei quali smarrirsi. Perché uno dei premi per questa vita incerta è il ritorno alla natura ossia i  vasti orizzonti dell’America, soprattutto  gli Stati Uniti occidentali; Nevada, Idaho, New Mexico, California. mirabilmente colti dal direttore della fotografia, Joshua James Richards, che cattura l’aspra bellezza degli stati del Midwest. A volte il film sembra un tour in un altro pianeta deserto, specialmente quando si dirige verso il parco nazionale delle Badlands nel Sud Dakota. In più, a fare da sottofondo alle immagini ci sono le musiche di Luigi Einaudi che come sempre ci arrivano dritte al cuore.

     Forse con questa perfezione evocativa delle immagini, con i tanti tramonti e con la musica di Einaudi, il film strizza un po’ l’occhio a un gusto più commerciale, più semplice da vendere, ma il pacchetto finale comunque coglie nel segno.

     Si potrebbe anche osservare che il film abborda solo marginalmente le questioni di critica sociale che inevitabilmente la vita di questi nomadi moderni richiama. Tutto questo è la sintesi di una società produttiva spinta oltre i limiti, di tutte le battaglie dei lavoratori perdute, degli unici lavori possibili che sono quelli precari e stagionali, e infatti l’unico lavoro stagionale che Fern ottiene è in un magazzino Amazon al cui interno la regista è stata miracolosamente autorizzata a filmare. Ma forse il film vuole solo raccontarci che, di fronte al fallimento di un capitalismo sempre più esasperato, la possibile soluzione è il ritorno allo spirito libero e nomade dei pionieri d’America, ossia alla radici storiche e culturali del Paese. 

[*] Psicoterapeuta, analista S.I.A.R., vice Presidente SIPAP. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo..

Indirizzo professionale: via Valadier, 44. 00193 Roma.

THE SOCIAL DILEMMA

DOI:  10.57613/SIAR05

 

Barbara Celiani*

Antonella Messina**

 

 

Abstract

     Il mondo dei social media presenta opportunità e dilemmi. L'articolo esplora le relazioni mediate dai social, l’effetto sulla psiche, sulle relazioni e sulla società. Rimangono aperti e senza risposta dilemmi etici sul modo in cui l’essere umano gestirà il mondo on line.

 

Parole chiave

     Relazioni – dipendenze - social media.

 

Abstract

      The world of social media presents opportunities and dilemmas. The article explores the relationships mediated by social media, the effect on the psyche, relationships and society. Ethical dilemmas remain open and unanswered about how humans will manage the online world.

Keywords

     Relationships – addictions - social media.

 

 

     “Social dilemma” è un documentario distribuito in Italia da Netflix, prodotto negli Stati Uniti da Larissa Rhodes nel 2020 tramite le case di produzione: Exposure Labs e Argent Pictures. Il documentario consiste in una serie di interviste ad alcuni esperti di tecnologie, aventi posizioni di rilievo nella creazione dei social media: ex dipendenti, ex dirigenti e altri professionisti delle principali aziende tecnologiche quali Facebook, Google, Apple. Alcuni di loro hanno fondato nel 2018 il Center for Humane Technology (CHT), un’organizzazione no profit indipendente, la cui mission è: “reinventare radicalmente le infrastrutture digitali, al fine di guidare un cambiamento completo verso una tecnologia umana che supporti il benessere, la democrazia e l'ambiente di informazione condivisa”. Queste persone pur avendo contribuito alla creazione ed espansione delle principali piattaforme tecnologiche, mostrano delle perplessità profonde riguardo l’uso di un potenziale di informazioni, che non conosce pari nella storia dell’uomo, al servizio di interessi economici e di potere di singoli individui o gruppi. Il dilemma che viene proposto è antico e può essere riassunto da un quesito: “Sono la tecnologia e le sue potenzialità a produrre effetti potenzialmente negativi o è l’uso che l’essere umano ne potrebbe fare?” Il documentario propone nella fase iniziale, come chiave di lettura, una frase di Sofocle: “Nulla che sia grande entra nella vita dei mortali senza una maledizione”, che ci riporta al mito di Prometeo, mai come ora richiamato ad un’attualità.

     L’evoluzione umana si è esplicata attraverso le capacità simboliche e tecnologiche, che si implementano vicendevolmente, producendo un adattamento, senza precedenti filogenetici, in grado di modificare così profondamente e velocemente l’ambiente, tanto da suscitare contemporaneamente enorme entusiasmo e paure profonde. Le persone che hanno contribuito al progresso tecnologico ritengono di aver agito ingenuamente, spinti dall’entusiasmo della scoperta, non considerando il rovescio della medaglia, ovvero i possibili effetti deleteri di una tecnologia al servizio del consumismo e delle logiche di profitto e di potere. Inoltre, per lo scrittore, Jaron Lanier, autore del libro I dieci motivi per cancellare i propri account social, il tema riguarderebbe l’intenzione più subdola di cambiare il modo di pensare e vivere dell’essere umano, attraverso dei piccoli cambiamenti ma continui, al fine di produrre automi, cioè persone che si comportano e pensano totalmente sotto il controllo di gruppi di potere. Per rendere più visibile quanto espresso nelle interviste, queste vengono alternate a scene d'invenzione, che hanno come protagonista un adolescente di nome Ben, il quale sviluppa una dipendenza dai social media, rendendo concretamente visibile uno dei rischi, che l’uso dei social può determinare. Anzi, gli intervistati definiscono questo il vero obiettivo dell’implementazione di programmi sempre più sofisticati: la creazione di una vera e propria dipendenza, ottenuta con sistemi di condizionamento classico e operante, facendo leva su circuiti neurali relativi alla gratificazione narcisistica, alla desiderabilità sociale e all’appartenenza al gruppo. Il sistema di programmazione, che costituisce la base dei social, viene rappresentato metaforicamente con l'utilizzo di tre avatar di Ben, con i quali il regista antropomorfizza il sistema operativo dello smartphone del protagonista. Il sistema operativo costruisce la propria intelligenza in modalità bottom up ovvero sfruttando le informazioni che l’utente volontariamente condivide nei social, per cui il motore di ricerca seleziona i contenuti che tendono a confermare le convinzioni e le preferenze dell’utente, utilizzando degli algoritmi che sono in grado di programmare e organizzare l’esperienza di quello specifico utente. Quindi viene alimentata la necessità cognitiva di trovare conferme rispetto alle proprie idee, opinioni, credenze (confirmation bias), proponendo un ambiente illusorio in cui tutti sembrano condividere le idee, che esprimiamo, in un processo di rinforzo reciproco. Altro interrogativo posto è quello relativo alle informazioni false, che invadono il Web, trasformando l’Era dell’Informazione nell’Era della Disinformazione e della difficoltà, che ne segue, di affrontare problemi importanti come l’attuale pandemia da Covid, quando opinioni contrastanti vengono mostrate con valore di verità assolute.

     Quello che viene descritto è l’emergere di “comunità elettroniche” che hanno creato una info-sfera comunicativa, una sorta di universo parallelo che si aggiunge al sistema sociale vero e proprio, interagendo e modificando comportamenti umani nella realtà ed incidendo profondamente sulle modalità, individuali e relazionali, con cui si evolve il sistema psicologico e neurologico umano.

IMG social dilemma Alessandra Meli Illusioni otticheFoto di Alessandra Meli

   Ad essere modificati sono la biochimica del piacere e delle gratificazioni (circuiti della dopamina), i processi di rappresentazione della realtà, i comportamenti e le modalità relazionali. Il documentario è utile anche per chi lavora nel campo dell’educazione e della psicoterapia. Nei setting terapeutici, ad esempio, tali cambiamenti sono evidenti già da qualche anno: si presentano adolescenti che intrattengono relazioni on line ma in difficoltà nell’incontrare l’altro nella realtà.

     I temi delle dipendenze da internet aprono le porte a ricerche sulla qualità delle relazioni familiari, sui confini educativi, sulla psiconeurologia. Le questioni delle pornografie e dei video giochi on line e del gioco d’azzardo variamente declinate in adulti ed adolescenti, danno vita ad interrogativi su un agito da riconnettere con il sentire corporeo. Già Cassirer aveva scritto che l’essere umano non può vivere un universo puramente fisico e sceglie di vivere in un universo simbolico (Cassirer, 1944) che a sua volta trasforma la vita umana perché l’uomo necessita di vivere non tanto in una più ampia realtà quanto in una nuova dimensione della realtà.

     Quello che sta accadendo è che il simbolico viene lentamente sostituito da una nuova dimensione, un mondo altrettanto invisibile (come il simbolico) e tuttavia commerciale, determinato da processi economici di persuasione consapevole e da un furto della capacità di dirigere l’attenzione. Nel docufilm si riporta l’intervista a Shoshana Zuboff, docente dell’Harvard University ed autrice del libro Il capitalismo della sorveglianza. La donna chiede di ragionare sugli effetti della persuasione quando essa è gestita da aziende estrattrici di dati personali (gusti, preferenze di acquisto, relazioni verso le quali dirigere gli acquisti) e pone la domanda del cosa fare quando l’essere umano è trattato come risorsa estraibile al pari di una miniera o di un corpo/oggetto inerme. La studiosa ribadisce che non tutti i mercati sono tuttora leciti: il mercato di organi, di vite, di schiavi sono mercati vietati; allo stesso modo, ella suggerisce, potrebbe essere vietato il mercato della persuasione, delle deprivazioni di libera scelta e del furto del futuro. Come anticipato da Toffler 1970, recentemente ribadito da Harmut Rosa (2019), al centro della società contemporanea agiscono due “forze gemelle”: l’accelerazione e la transitorietà; in una società così, vige un tempo accelerato all’interno del quale bisogna consumare velocemente, in attesa dell’ultimo nuovo modello di un oggetto alla moda. Con quest’ultimo non bisogna creare relazione di appartenenza relazionale, ma solo di uso transitorio, in attesa che un nuovo modello sostituisca il modello corrente. Accelerazione e transitorietà hanno varcato i confini del mondo della finanza e sono diventate modalità relazionali nei social come nella vita reale, correlando spesso con mancate connessioni sentire/pensare, disorientamenti, frustrazioni, sofferenze psicologiche umane causate da un mercato “dell’espianto della volontà, del desiderio e dell’altro da noi”.

     Nello spazio collettivo globale dei social, gli umani tendono a esprimere in misura sempre più accentuata riflessioni, stati d’animo, aspirazioni, desideri e attitudini, comportandosi di fatto come una miniera che autodenuncia le proprie risorse, ovvero i propri dati. Al contempo più usiamo i social, più questi, tramite algoritmi, memorizzeranno cosa ci piace e potranno vendere i nostri ritratti a un’azienda, che saprà prevedere e rinforzare, tramite spot, quello che vorremo probabilmente comprare, votare, vedere, ascoltare e così via. In questo modo si consuma l’estrazione di informazioni che, elaborate in forma aggregata e complessa, da media e social, mettono poche multinazionali nella condizione di detenere i dati di molti e la lettura statistica di un andamento collettivo da poter influenzare. Ciò determina un effetto paradossale: una grande asimmetria di conoscenza e di potere tra chi controlla i flussi informativi e coloro che li producono, a livello individuale e in forma associata (communities), come utenti: costoro dialogano con voci come Siri o Alexa, governano case domotiche, esercitano compulsivi controlli su foto e relazioni, pensando di detenere un controllo sul quotidiano delle relazioni on line ed un potere di acquisto a prezzi stracciati. Il docufilm recita, “se il servizio è gratis allora l’oggetto in vendita sei tu”. Un motto ad effetto per mettere in guardia sul fatto che rimanere incollati ai dispositivi è solo la risultante di un lavoro di tecnici della psiche, che hanno studiato stratagemmi di persuasione presso università private come Harward.

     Alcune questioni vengono consegnate in forma di domanda agli spettatori: molte notizie possono fare un sapere? L’efficacia e la prontezza di una risposta, rispondono alla domanda vera e profonda dell’umano?

     Altri aspetti, invece, si snodano oltre lo stesso documentario: gli intervistati hanno partecipato della creazione di strumenti che sembrano essere andati oltre l’umano pur essendo frutto dell’umano. Che direzioni etiche, di consapevolezza e di diffusione potrà imboccare il lavoro degli intervistati fuoriusciti da google, pinterest, facebook, twitter, instangram? Internet rimane comunque uno spazio virtuale dove, fatte salve censure e oscuramenti, chi si confronta sperimenta possibilità di incontrare e dialogare su un piano orizzontale di pari diritto di parola. Potrà l’umano consolidare la consapevolezza di una parola e di un pensiero corporeo a dispetto della persuasione insita nell’ordito dei social? Il documentario è evidenza anche di alcuni dati di fatto che rivelano contraddizioni e complessità: The social dilemma è prodotto in Italia da Netflix. Questa è una società statunitense che si occupa di distribuzione a pagamento e produzione di film, serie tv, documentari, docufilm su internet, accessibili su richiesta nei tempi e negli orari disponibili agli spettatori. Sappiamo che questa piattaforma è essa stessa oggetto di molte dipendenze dette binge watching (abbuffata di visioni) e ritiri sociali tra giovani ed adulti che sfidano loro stessi, il loro corpo, gli amici nel seguire le puntate di una serie senza dormire per 2/3 giorni. Dunque una società privata con fini di lucro può produrre informazione diffondendo saperi ed interviste, che denunciano processi che coinvolgono anche la società stessa che li denuncia e che, a sua volta, trarrà profitti economici coinvolgendo una fetta di pubblico altrimenti escluso.

     Il documentario avvia riflessioni, dilemmi, evidenze di una società all’interno della quale è possibile che il prodotto trascenda il valore etico e simbolico di chi lo produce. Si tratta di confusione, saturazione di informazioni, accelerazione in assenza di consapevolezza, desensibilizzazione alle contraddizioni, processi secondo i quali anche se l’individuo viene informato del valore inquinante di un carburante o dello sfruttamento del lavoro minorile di un’azienda, continua a perpetuarne gli acquisti  e a riverberare di abitudini indotte. Rimane tuttavia un fatto: il mondo on line costituisce una rivoluzione comunicativa della quale non è al momento possibile fare a meno: esso per molti versi contribuisce allo sviluppo di potenziale umano e comunicativo. La sfida per l’umano è ancora una volta la presenza consapevole con la quale si utilizza uno strumento rimanendo resistenti rispetto ad una reificazione dell’umano.

 

Bibliografia

Han, B. (2016), Psicopolitica. Roma: Edizioni Nottetempo.

Cassirer, E. (1948), Saggio sull'uomo. Introduzione a una filosofia della cultura. Milano: Longanesi.

Ferri, G. Tempo Zero-2020: il tempo del limite. 7Aprile 2020 in https://www.analisi-reichiana.it/2072-2/

Harmut, Rosa (2015), Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica della tarda modernità. Torino: Einaudi.

Sucato, L. Messina, A. (2020), Intelligenze evolutive e processi di sofferenza urbana. Spazio e tempo in un'epoca in corsa. Catania:  Malcord Edioni.

Toffler, A. (1988), Lo choc del futuro. Milano: Serling e Kupfer editori.

Zuboff, S. (2019), Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell'umanità nell'era dei nuovi poteri. Roma: LUISS University press.

* Barbara Celiani, Psicologa, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R.. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Studio professionale: Via Napoli 167 - Lariano (RM).

** Antonella Messina, dottoressa in Filosofia, Psicologa, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R., Formatrice per i processi interculturali, Etnopsicoterapia. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Studio professionale: Via Cuturi, 8. Catania.

CAA

COMUNICAZIONE CHE SUPERA OGNI BARRIERA

 

CAA

COMMUNICATING BEYOND THE BARRIERS

DOI:  10.57613/SIAR06

Maria Caterina Minardi[*]

 

Colui che sa, non parla.
Muto nel ventre del tempo
dove uomini gridano, anche.
Lo sguardo
basterà per comprendere e dire
quanto la voce non dice.

M. Guidacci

Abstract

     Le parole sono, a prima vista, il mezzo di comunicazione più immediato ed efficace, tipico ed esclusivo della comunicazione intenzionale dell'essere umano. È una capacità tipicamente acquisita e non appresa, quindi qualcosa che è naturale per l'uomo, tanto quanto camminare. Si rischia quindi spesso di credere che la comunicazione verbale sia non solo lo strumento di comunicazione più immediato, ma anche l'unico. Sorprendentemente, alcuni approcci e studi di comunicazione ci mostrano il contrario e possono gettare luce e speranza sulle possibilità di comunicazione per le persone con difficoltà cognitive e del linguaggio.

 

Parole chiave 

     Comunicazione Aumentativa Alternativa - comunicazione accessibile – inclusione – partecipazione.

 

Abstract 

     Words are, at first sight, the most immediate and effective means of communication, typical and exclusive of the intentional communication of the human being. It is a typically acquired and unlearned ability, therefore something that is usually natural to mankind, as much as walking. We therefore often risk believing that verbal communication is not only the most immediate tool for communicating, but also the only one. Surprisingly, some communication approaches and studies show us the opposite and can shed light and hope on the possibilities of communication for people with mild or severe speech and cognitive impediments.

 

Key words

     Augmentative and Alternative Communication - accessible communication - social inclusion  - social participation.

     Il ruolo delle parole e la loro capacità di trasformare in materia i pensieri più banali o più profondi è un tema tanto immediato quanto delicato. La parola verbale è, a prima vista, il mezzo comunicativo più immediato ed efficace, tipico ed esclusivo della comunicazione intenzionale dell’essere umano. È una capacità tipicamente acquisita e non appresa, dunque qualcosa che ci è solitamente naturale, tanto quanto camminare. Rischiamo quindi spesso di credere che la comunicazione verbale sia non solo lo strumento più immediato per comunicare, ma anche l’unico. In maniera sorprendente, alcuni approcci e studi sulla comunicazione ci mostrano il contrario.

     Già negli anni di passaggio tra ‘800 e primo ‘900, dopo un momento di grande splendore vissuto dalla parola con la nascita di discipline specifiche come la filologia e la linguistica, la filosofia inizia a dubitare dell’efficacia della parola verbale nella sua capacità di aderire al pensiero e ai significati. La crisi del linguaggio novecentesca non sfocia tuttavia in un mutismo, ma dà origine a sperimentazioni e proposte che cercano di dare un più ampio respiro al concetto di comunicazione. Ecco dunque emergere le sperimentazioni che vedono l’assoluta centralità dell’immagine nell’opera artistica quali, solo per citare alcuni esempi, le pantomime e rappresentazioni teatrali della Visuelle Ästetik in Austria e Germania e l’opera letteraria degli Imagists in ambito anglosassone. Apice di tale sperimentazione muta è il primo cinema europeo fino agli anni ‘30, periodo durante il quale i copioni erano spesso redatti da illustri scrittori (si pensi a Hofmannstahl o Schnitzler), ma dei quali non era citata sullo schermo una sola parola. La comunicazione non è assente, ma diventa altra.

     In tempi più recenti, da un punto di vista maggiormente psicologico, Mehrabian (1971) porta l’attenzione sulla comunicazione più intima, che condivide sentimenti e atteggiamenti, illustrando come questa si affidi solo per il 7% alla modalità verbale, lasciando il restante 93% alla comunicazione paraverbale o non verbale.

     E tuttavia, comunichiamo! O più precisamente, come afferma Watzlawick (1967), non possiamo non comunicare. Lo facciamo, oltre che con le parole, attraverso le espressioni del viso, gesti, la postura... In un mondo bombardato dai social media che predicano il culto dell’immagine, in una cultura che sembra perdere la competenza verbale e che rischia di inaridire la propria comunicazione verbale, parlata e scritta, è importante tornare a dare alla dimensione corporea ed emozionale il suo giusto posto, per favorire il collegamento delle parole con il vissuto corporeo-emozionale, re-imparando ad interpretare la dimensione altamente espressiva e comunicativa delle espressioni corporee e paraverbali che molto dicono, pur senza parole.

     Siamo dunque tutti testimoni diretti del fatto che per comunicare le parole non siano sempre le uniche protagoniste dello scambio con l’altro. Ne è testimonianza ancora più evidente la lingua dei segni utilizzata da molte persone sorde, che sposta sul canale visivo l’input linguistico e comunicativo solitamente affidato alla produzione verbale orale. Pur non essendo di tipo verbale, la comunicazione che avviene tramite il canale visivo della lingua dei segni è altrettanto efficace, qualora i segnanti condividano lo stesso codice e una intenzionalità comunicativa.

     Una comunicazione efficace non si fonda, infatti, tanto sulla modalità comunicativa che viene impiegata, quanto sulla presenza di un emittente e di un ricevente, sulla condivisione di sistema lingua e di un canale comunicativo e, ultimo ma non meno importante, sul desiderio di mettersi in relazione e condividere un pensiero.

     Prendere coscienza di tale dimensione non verbale della comunicazione può aiutarci ad avvicinarci in maniera più consapevole a quei bambini ed adulti che si trovano nell’impossibilità di parlare per esprimere bisogni primari o per relazionarsi, informare e apprendere.

     Come noi, anche chi non parla per una disabilità o una condizione congenita o acquisita, non può fare a meno di comunicare. Lo fa attraverso tutti i canali non verbali che anche noi utilizziamo, ma che spesso restano per loro l’unica finestra verso l’esterno. Un movimento del viso, una postura rigida o rilassata, un tono acuto o profondo possono dire molto dello stato d’animo di una persona che non parla.

     Per queste persone, spesso immerse in un mutismo forzato a causa della propria disabilità, è possibile prevedere strategie di comunicazione personalizzate di supporto al codice verbale che incrementano e rendono possibile la comunicazione. L’approccio di Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) si offre come una strategia a disposizione di chi dimostra bisogni comunicativi complessi e dei caregiver che vogliono impegnarsi ad abbattere le barriere comunicative in tutti i contesti di vita, per contrastare il mutismo solo apparente di chi non può parlare.

     L’approccio della Comunicazione Aumentativa Alternativa è fondato sulla consapevolezza del fatto che l’atto comunicativo può essere multimodale e che tale multimodalità può essere sfruttata ed enfatizzata anche nei casi in cui, per patologie congenite o cause provvisorie acquisite, una persona si trovi nell’impossibilità di parlare e di comunicare.

     La Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA)si presenta come un approccio clinico dai vari volti, ma dallo scopo univoco di offrire alle persone con bisogni comunicativi complessi la possibilità di comunicare tramite canali alternativi che si affiancano a quello verbale orale.

     Per bisogni comunicativi complessi si intende l’insieme di cause differenziate che possono portare all’assenza di espressione verbale. Possibili destinatarie di un approccio di CAA sono, ad esempio, persone affette da malattie genetiche, paralisi cerebrale infantile, disprassie, disturbi dello spettro autistico o patologie che inibiscono l’espressione verbale e la capacità di comunicazione stessa. In maniera diversa possono beneficiare di un approccio di CAA anche pazienti ospedalizzati per tempi brevi che si trovano nell’impossibilità di comunicare.

     L’approccio di CAA nasce negli Stati Uniti intorno agli anni ’70 con lo scopo di garantire la possibilità di espressione a persone con gravi disabilità motorie e disprassie che, anche in assenza di deficit linguistico o cognitivo, rimanevano spesso isolate e abbandonate a un silenzio forzato. Spesso, le competenze linguistiche di queste persone venivano paragonate alla loro capacità intellettiva e l’impossibilità di parlare veniva spesso interpretata come una disabilità permanente senza possibile soluzione (Beukelman e Mirenda, 2014).

     Nel tempo divenne chiaro che per questo tipo di utenti esisteva tuttavia una soluzione semplice e a portata di mano che consentiva di prestare una voce a chi si trovava nell’impossibilità di parlare, ma presentava il desiderio di esprimere il proprio pensiero. Per questo tipo di utenti si iniziò a mettere a punto e ad individuare ausili adeguati che consentissero l’espressione del messaggio tramite un codice simbolico o alfabetico. In un approccio originario, dunque, la CAA si presenta come un insieme di modalità e strategie espressive per persone che non presentano deficit linguistici e cognitivi, ma che non possono accedere al canale orale (Costantino, 2011, Beukelman e Mirenda, 2014). In questo senso, la CAA non nasce come una tecnica clinica e riabilitativa, ma si delinea nella sua natura più profonda come approccio comunicativo volto a trovare tutte le strade possibili per consentire di comunicare anche a chi non ha voce (Rivarola, 2009).

     Un altro filone di impiego della CAA, maggiormente innovativo e rilevante, nasce più avanti all’interno della pratica clinica, per affrontare le difficoltà di comunicazione legate a deficit di natura cognitiva e linguistica (gravi ritardi mentali, sindromi genetiche, disturbi e deficit del linguaggio) andando ad agire innanzitutto sulle competenze comunicative di base che spesso non emergono secondo le tappe dello sviluppo tipico, sempre partendo dalle modalità comunicative presenti nel bambino o nel ragazzo con bisogni comunicativi complessi. Per questo particolare bacino di utenza, la Comunicazione Aumentativa non è solo uno strumento espressivo, ma anche una strategia di comunicazione a supporto della comprensione, per risvegliare il desiderio di comunicare e di mettersi in relazione con l’ambiente circostante influenzandolo.leggereI simboli pittografici utilizzati sono di proprietà del governo di Aragona e sono stati creati da Sergio Palao per ARASAAC (http://www.arasaac.org), che li distribuisce sotto Licenza Creative Commons BY-NC-SA.

     Per questo motivo, è importante sottolineare che parlare di CAA non significa esclusivamente individuare uno strumento di comunicazione, tecnologico o meno in quanto spesso, a seconda del bisogno comunicativo specifico dell’utente, un approccio di CAA prevede anche uno sforzo riabilitativo che coinvolge vari aspetti della persona a livello clinico e relazionale. In questa ottica, viene definita Comunicazione Aumentativa una qualsiasi strategia e ogni eventuale strumento che si affianca all’espressione verbale per consentire e favorire la comunicazione.

     Tra gli strumenti di CAA volti a favorire ed aumentare le occasioni e le competenze comunicative vi sono, ad esempio, sintetizzatori vocali, lingue dei segni o modalità gestuali e una modalità di comunicazione visivo-simbolica che si serve di simboli grafici e pittogrammi, forse maggiormente conosciuta e diffusa al giorno d’oggi. Per questo motivo, può essere utile offrire una brevissima panoramica sui simboli grafici come strumento di CAA.

     I simboli della CAA sono immagini grafiche più o meno stilizzate che rappresentano le varie parti del linguaggio: sostantivi, verbi, aggettivi e, per alcuni sistemi simbolici, anche la classe funzionale che contiene articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni. A seconda della parte linguistica rappresentata, i simboli si possono definire trasparenti (quando il referente è chiaramente riconoscibile, come nel caso di sostantivi concreti), traslucenti (quando il simbolo contiene un certo grado di arbitrarietà) od opachi (quando la relazione tra significante e significato è completamente arbitraria: i simboli opachi rappresentano prevalentemente la classe funzionale). I simboli della CAA sono diffusi a livello mondiale, ma non ne esiste un solo tipo e non sono quindi universali. Infatti, esistono diverse famiglie di simboli, veri e propri dizionari di simboli, che hanno sempre lo scopo di offrire una rappresentazione simbolica della lingua, ma che si differenziano per caratteristiche grafiche o di organizzazione interna. Ad esempio, alcune famiglie di simboli, come i Widgit Literacy Symbols (simboli WLS), presentano un’organizzazione interna coerente e strutturata in termini di coerenza grafica, semantica e linguistica, con elementi concettuali che ricorrono per la costruzione dei simboli e contribuiscono a creare significati in forma modulare. Ad esempio, nei simboli WLS il cerchio blu che racchiude un elemento sta a rappresentare un contesto famigliare, personale. Possiamo avere quindi un simbolo generico di casa, che rappresenta un edificio, e lo stesso simbolo di casa contenuto all’interno del cerchio blu, che sta a rappresentare la mia casa, come contesto intimo e personale. Per queste caratteristiche di coerenza interna, i simboli WLS vengono definiti un set di simboli, in opposizione ad altre famiglie di simboli che vengono definite “insiemi simbolici”, ovvero raccolte di simboli che non hanno una coerenza grafica, semantica e linguistica interna, o che l’hanno in modo limitato. Per fornire solo un esempio tra molti, i simboli PCS (Picture Communication Symbols) e i simboli Arasaac hanno una coerenza linguistica e semantica interna più limitata rispetto ai simboli WLS. Padre dei sistemi di rappresentazione del linguaggio qui citati è il Bliss, un interessantissimo sistema simbolico messo a punto dall’ingegnere Charles Bliss che nel 1949 mette a punto un sistema linguistico altamente strutturato per la rappresentazione semantica sotto forma di segni grafici. Questo suo esperimento non era inizialmente inteso per sopperire alle carenze comunicative di persone con disabilità, ma si è dimostrato fondamentale nell’evoluzione della storia delle strategie di Comunicazione Aumentativa e nella messa a punto dei futuri sistemi simbolici.

     In riferimento alle strategie di CAA messe in atto, quale l’uso di segni o simboli grafici sin da un’età precoce, è interessante notare come questi rispecchino la comunicazione iniziale multimodale dei bambini a sviluppo tipico. La letteratura ha evidenziato in diversi luoghi (tra cui Colonnesi et al., 2010) la stretta connessione tra sviluppo verbale e motorio e la co-occorrenza della modalità espressiva gestuale e quella verbale nella produzione di prime frasi in bambini di 9-12 mesi. Di conseguenza, l’approccio di CAA segue la forma spontanea e naturale della comunicazione, evitando di definirsi in alcun modo come un esercizio, uno stimolo, e quindi una forzatura.

     Un approccio di CAA non si propone in alcun modo di sostituire il linguaggio verbale o abbandonare il trattamento logopedico. È stato notato ripetutamente in letteratura come un approccio di CAA non inibisca in alcun modo la produzione verbale, ma al contrario contribuisca al suo sviluppo qualora essa potesse emergere (Rivarola 2009, Beukelman e Mirenda 2014). Al contrario, in quanto aumentativo, l’approccio prevede la simultanea presenza di strumento alternativo e linguaggio verbale orale standard, che si accompagna allo strumento alternativo visivamente e oralmente, tramite il supporto del partner comunicativo che accompagna lo strumento di CAA denominando il referente, espandendo il contesto comunicativo, facendo domande. Lo strumento di CAA diventa allora supporto alternativo che accompagna lo stimolo verbale orale in entrata, e, qualora sussistano le possibilità, accompagna la produzione verbale in uscita.

     In caso di sviluppo atipico in bambini con bisogni comunicativi complessi derivanti da patologie presenti sin dalla nascita, strategie e strumenti di CAA possono accompagnare in modo efficace tutte le situazioni di vita a partire dai primissimi anni, al fine di aumentare le occasioni di comunicazione e di relazione.

     È il caso ad esempio dei momenti di gioco e di lettura condivisa, frequentissimi nei primi anni di vita, dove l’approccio di CAA può inserirsi tramite semplici funzioni comunicative che aiutino ad agire sull’ambiente (interrompere o riprendere un gioco, fare richieste, esprimere sentimenti semplici) e tramite la lettura condivisa di libri che ripropongano il codice comunicativo alternativo scelto (si pensi, ad esempio, ai libri in simboli).

     L’intervento precoce nasce certamente innanzitutto in seno alla famiglia, nella quale l’interazione ha primariamente luogo, ma può essere efficacemente riproposto alla scuola dell’infanzia, grazie all’introduzione di una comunicazione visiva a tutto tondo che coinvolge l’intera classe: assieme alla modalità verbale di comunicazione, l’ambiente può essere modificato in un’ottica di un approccio di CAA inserendo libri in simboli, agende visive delle attività svolte o da svolgere o l’etichettatura visiva degli ambienti per rinforzare l’associazione linguistica tra significante e significato. Tali strategie visive possono rappresentare un beneficio per l’intera classe, indipendentemente dalle diverse competenze, in quanto rappresentano possibilità di sviluppo delle autonomie per tutti (consultare l’agenda visiva per sapere cosa accadrà, recarsi autonomamente in un ambiente in quanto etichettato e visivamente significativo, approcciarsi a una prima esperienza di lettura del testo grazie al libro in simboli…).

     È stato poi notato a più riprese che la possibilità di esprimere, seppure talvolta in maniera limitata, il proprio pensiero o desiderio, riduce il sentimento di angoscia e frustrazione legato all’impossibilità di esprimersi e di farsi capire e limita in maniera proporzionale lo stress della persona con bisogni comunicativi complessi e il presentarsi di comportamenti problematici che vanno a rendere instabili i rapporti con i famigliari e l’ambiente esterno (Beukelman e Mirenda, 2014, CSCA, 2012). In questo senso, l’approccio di CAA presenta un grande potenziale, in quanto consente di disporre strategie preventive che aiutino a comprendere la situazione e offrano maggiori strumenti per fare chiarezza sugli eventi e sull’ambiente circostante. In qualsiasi ambiente di vita è infatti possibile predisporre strategie per anticipare un cambiamento di routine o una situazione particolarmente difficile da gestire servendosi di strumenti in entrata che favoriscono la comprensione. Tali strategie comprendono, ad esempio, storie sociali relative a un cambiamento importante (passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria, una visita dal medico, l’arrivo di un nuovo insegnante…) o racconti visivi di sequenze tramite simboli, immagini, oggetti significativi o fotografie per descrivere un avvenimento e i comportamenti corretti da mettere in atto (andare in gita, prendere il treno, eseguire un compito a scuola), o ancora la predisposizione e anticipazione di un lessico visivo specifico e adatto alla nuova situazione. Tali strategie visive, impiegabili a casa, in ambulatorio, a scuola, all’oratorio, nei luoghi sportivi o ricreativi aiutano a ridurre il senso di sorpresa e l’impossibilità di spiegarsi o di chiedere spiegazioni in una situazione delicata quanto inaspettata.

     Si delinea in questo senso ancora meglio come un approccio di CAA possa apportare benefici non solo sul piano dell’espressione, ma anche su quello della comprensione stessa. Occasioni di comunicazione differenziate offerte da un approccio di CAA rappresentano la base sulla quale potere sviluppare i vari livelli della comunicazione, che non riguardano solamente la possibilità di esprimere un bisogno primario ma anche, aspetto ancora più importante, la possibilità di esprimere una scelta, una preferenza, di dare voce ai propri pensieri e desideri e di sapere interagire anche sul piano socio-pragmatico, in un’interazione che esce dal solo piano contestuale. In una parola, l’intervento di Comunicazione Aumentativa consente di autodeterminarsi e di agire sull’ambiente.

     Di conseguenza, un aspetto fondamentale dell’approccio di CAA è anche quello di incoraggiare le autonomie sociali e comunicative, cercando il più possibile di coinvolgere tutti gli attori e gli ambiti di vita della persona con bisogni comunicativi complessi, affinché l’approccio di CAA non rimanga limitato alle mura domestiche, ma diventi realmente la voce di chi voce non ha. È necessario quindi che l’ambiente e i partner comunicativi che affiancano la persona con bisogni comunicativi complessi siano estremamente accoglienti e informati, e aderiscano anch’essi alle strategie di CAA messe a punto e in pratica dall’équipe medica e dalla famiglia.

     Un approccio di Comunicazione Aumentativa può essere considerato realmente efficace solo quando viene condiviso in tutti gli ambiti di vita: la progettazione individualizzata di un sistema di comunicazione non può dirsi infatti raggiunta se non consente potenzialmente di comprendere ed esprimersi in tutti le situazioni di vita. Spesso, infatti, si tende a limitare le possibilità di comunicazione all’espressione dei bisogni primari. Tuttavia, l’obiettivo di raggiungimento della competenza comunicativa non deve essere limitato alla sola soddisfazione di beni primari e urgenti, ma deve essere visto come un vero e proprio percorso di sviluppo comunicativo, di competenze, conoscenze e autonomie, che si realizzano nelle diverse esperienze di vita quotidiana. Generalmente, l’approccio di CAA e la ricerca di strategie sempre più efficaci vengono messi in pratica innanzitutto in ambito clinico riabilitativo, durante poche ore di riabilitazione settimanali. Negli ultimi anni, tuttavia, è stato sottolineato come la sola riabilitazione clinica non sia sinonimo di efficacia e beneficio, a meno che l’intera famiglia, vero, indispensabile e principale attore in un approccio di CAA, venga coinvolta. Senza l’azione della famiglia, infatti, l’utente di CAA non beneficerebbe di una comunicazione integrata, ma di sola riabilitazione clinica.

     Il ruolo della famiglia nel processo di riabilitazione alla comunicazione deve cambiare radicalmente, spostandosi da un ruolo marginale ad uno centrale, come descritto nel Modello Family Centered messo a punto da Rosenbaum (2004). Secondo questo modello, il rapporto gerarchico tra specialisti e famiglia, a cui spesso siamo abituati, deve lasciare spazio ad un rapporto intenso e di reciproco scambio, in cui i compiti specifici di famiglia e professionisti sono entrambi necessari nelle loro diverse mansioni e conoscenze. Secondo tale modello, la partecipazione e l’utilizzo attivo della Comunicazione Aumentativa deve essere intrapreso in maniera concorde e uniforme dai diversi attori della quotidianità di bambini o ragazzi con bisogni comunicativi complessi, in un vero e proprio lavoro di squadra coordinato dai clinici e implementato dai network che fanno parte della vita quotidiana, come la famiglia e la scuola. Per questo, il ruolo della famiglia è fondamentale, ma non ancora sufficiente: per essere davvero efficace, la CAA deve potere coinvolgere tutto l’ambiente circostante, compresi gli ambienti meno familiari, quali la scuola, gli ambienti ricreativi, fino a toccare i luoghi pubblici e di incontro dell’intera società. Infatti, l’intervento di CAA ha un forte potenziale in un soggetto solo se l’intera rete collabora e partecipa a questo tipo di comunicazione in tutte le fasi di crescita e sviluppo della persona con bisogni comunicativi complessi.

     È quindi auspicabile la nascita di iniziative che coinvolgono l’intera comunità scolastica, parrocchiale, sportiva e addirittura civica, al duplice fine di sensibilizzare le persone in relazione alla presenza di una disabilità invisibile, come quella dei deficit di comunicazione, e di garantire alla persona con bisogni comunicativi complessi di avere voce ed agire su ogni tipo di ambiente. A tal scopo, è possibile mettere in atto progetti di inclusione scolastica, nei quali la Comunicazione Aumentativa viene integrata negli ambienti di vita e resa parte del quotidiano di tutti i bambini a sviluppo tipico che possono beneficiarne. Ad esempio, nell’indicazione visiva degli ambienti, nella definizione per immagini di regole e norme comportamentali, nell’analisi e definizione di compiti e processi in modalità visiva…In modo particolare nella scuola dell’infanzia, dove non si ha ancora accesso alla letto scrittura, l’intera classe può servirsi di strategie visive di CAA per la lettura di comportamenti corretti, compiti, e dei libri stessi.

     In tal senso, la CAA diventa una strategia comunicativa necessaria per qualcuno, ma utile per tutti, in un’ottica di Universal Design, volta a rendere spazi e contesti accoglienti e fruibili da tutti allo stesso tempo, senza necessità di adattamenti o modifiche a posteriori. Le strategie e gli ambienti inclusivi possono infatti rivelarsi estremamente utili anche per soggetti verbali che non possono comunicare in seguito ad operazioni chirurgiche o incidenti, per persone sorde segnanti che devono relazionarsi con persone che non conoscono la lingua dei segni, per gli stranieri che stanno imparando la nostra lingua, per i turisti, per le persone anziane che fanno esperienza di perdita di memoria, per le persone a bassa scolarizzazione che devono orientarsi in un documento difficile o in un ambiente civico poco intuitivo.

     In ambito educativo sono nate negli ultimi anni diverse esperienze che testimoniano come un approccio di CAA dedicato a bambini o ragazzi stranieri appena arrivati nel nostro Paese e che devono approcciarsi con la lingua può rivelarsi estremamente utile sul piano dell’apprendimento linguistico e dell’integrazione, soprattutto grazie all’introduzione e all’uso di libri in simboli nella scuola dell’infanzia e primaria (Costantino 2012, Vago 2016, De Appolonia et al. 2017)

     Per quanto riguarda la realtà civica, è auspicabile che le municipalità e gli enti pubblici aderiscano sempre più di frequente e con maggiore convinzione a progetti di comunicazione urbana accessibile, come già succede in alcuni paesi all’estero, nei quali anche i negozi, luoghi ricreativi, ospedali e in tutti i luoghi pubblici e quotidiani della vita in città diventano esperienze accessibili a tutti, mediante la presenza organizzata di strategie di CAA che traducono le informazioni principali relative ad un luogo, e che offrono gli strumenti di base per favorire l’autonomia della persona con bisogni comunicativi complessi nell’interazione in quel determinato luogo.

     In Italia, una prima esperienza sistematica, organizzata e replicabile di tale iniziativa è rappresentata dal progetto “Città in CAA”, nato nella Romagna-Faentina, che prevede sessioni di formazione di commercianti e dipendenti pubblici, i quali progettano tabelle di comunicazione in simboli utili allo scambio comunicativo e le mettono a disposizione all’interno della realtà specifica (maggiori informazioni sul progetto si trovano al sito: www.cittaincaa.it).

     La Comunicazione Aumentativa Alternativa si connota quindi sempre di più come un approccio non solo utile, ma vantaggioso, come un potente strumento che crea legame e inclusione all’interno della società.

     La crescente diffusione dell’approccio di CAA in diverse modalità e contesti sollecita un ampliamento della ricerca stessa nell’ambito della Comunicazione Aumentativa Alternativa. Ultimamente, questa si dirige verso nuovi orizzonti, come quello delle nuove tecnologie e del loro possibile impiego nell’ambito del supporto alla comunicazione. La presenza delle nuove tecnologie porta inoltre a interrogarsi sulle competenze e abilità necessarie al loro utilizzo, con una conseguente analisi sulle opportunità e le sfide lanciate da una multimodalità che, di per sé, non è sconosciuta alla Comunicazione Aumentativa, ma che si presenta sotto vesti tecnologiche che cambiano velocemente nel tempo e che richiedono un diverso approccio anche nei confronti dell’utente di CAA. Un altro ambito di studio nuovo e tutto italiano è quello dei benefici relazionali e linguistici della lettura di libri scritti nei simboli della CAA, argomento inaugurato dal Centro Sovrazonale di Comunicazione Aumentativa e analizzato da un numero crescente di tesi di laurea legate al Centro stesso.

 

Bibliografia 

Beukelman, D.R, Mirenda, P., (2014). Manuale di Comunicazione Aumentativa Alternativa. Trento: Erickson.

Colonnesi, et al, (2012), The relation between pointing and language development: A meta-analysis, Developmental Review.

Costantino, M. A. (2012). Costruire libri e storie con la CAA. Trento: Erickson.

De Appolonia, G., Rocco, E., Sarti, P. (2017). Simboli, immagini e tecnologie a supporto dell’apprendimento dell’italiano come L2, Italian Journal of Educational Technology, 25(1), 80-85.

Halliday, M.A.K (1978). Language as Social Semiotic: the Social Interpretation of Language and Meaning. London: Arnold.

Light, J., McNaughton D., (2014). Communicative Competence for Individuals who require Augmentative and Alternative Communication: A New Definition for a New Era of Communication?, AAC Augmentative and Alternative Communication, 30:1, 1-18.

Mehrabian, A., & Ferris, S. R. (1967), Inference of attitudes from nonverbal communication in two channels. Journal of Consulting Psychology, 31(3), 248–252

Rivarola, A., (2009). Comunicazione Aumentativa Alternativa. Milano: d’Intino Onlus.

[*] Linguista clinico. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – Studio professionale: via Salvolini, 2 Faenza (Ra)