Numero 2/2021

QUI RIDO IO 

di  Mario Martone, Italia, 2021 

a cura di Luisa Barbato*

 

 

     “Qui rido io” è un film del 2021 diretto da Mario Martone. Siamo agli inizi del ‘900, per la precisione 1908, nella Napoli della Belle Époque, dove sono molto seguiti il teatro e il cinematografo. Il grande attore comico Eduardo Scarpetta è il re del botteghino e il successo lo ha reso un uomo ricchissimo: di umili origini si è affermato grazie alle sue commedie e alla maschera di Felice Sciosciammocca che nel cuore del pubblico napoletano ha soppiantato Pulcinella.

     Il teatro è la sua vita e attorno al lavoro teatrale e ai relativi guadagni si muove la sua articolata famiglia, una specie di comune ante-litteram con mogli, compagne, amanti, figli legittimi e illegittimi tra cui Titina, Eduardo e Peppino De Filippo. Ma il re assoluto della famiglia allargata è lui, Eduardo, personaggio egoico, istrione, ingombrante, ma anche tanto generoso, creativo, intuitivo. Coerentemente, Martone comincia dalle scene di Miseria e nobiltà con una straordinaria sequenza, tra i camerini, il palco, la platea, il dietro le quinte da cui Eduardo De Filippo spia incantato la magia dello spettacolo. E tutto il film si svolge come su un palcoscenico, in una rappresentazione senza soluzione, mentre i classici napoletani passano in una sequenza che attraversa l’intero film.

locandina Qui rido ioLocandina del film "Qui rido io"

     Al culmine del successo Scarpetta si concede una mossa audace: decide di realizzare la parodia di La figlia di Iorio, tragedia del più grande e osannato poeta italiano del tempo, Gabriele D’Annunzio. La sera del debutto in teatro si scatena un putiferio: la commedia viene interrotta tra urla, fischi e improperi: impossibile ironizzare sul vate D’Annunzio e sulla cultura conformista del momento che finirà per appoggiare il fascismo. Così Scarpetta viene denunciato per plagio dallo stesso D’Annunzio, avviando la prima storica causa sul diritto d’autore in Italia. Gli anni del processo saranno logoranti per lui e per la famiglia e il suo astro comincerà a decadere, come del resto la cultura prefascista e prebellica, ancorata a una visione tradizionale e popolare che sarà spazzata via dal secondo conflitto mondiale.

     Sarà poi il figlio mai riconosciuto Eduardo De Filippo, che appunto porterà il cognome della madre, ad approfondire il tema della fine della cultura popolare in Italia, e quella napoletana in particolare, logorata dalla guerra e dal futuro sviluppo economico. Come per le commedie del padre, la commedia di Eduardo mostra una forma comica e tragica allo stesso tempo perché il teatro dei tempi di Scarpetta non aveva bisogno di esibire forme tragiche per essere tragico, essendo espressione diretta della sofferenza del popolo. “Qui rido io” è così incentrato sulla figura patriarcale di Eduardo Scarpetta, ma può essere letto come un viaggio alle origini dell’opera eduardiana.

     Il film si muove quindi su un doppio registro, familiare e sociale, culturale e intimista, e la vita ricca e complessa di Scarpetta diventa la metafora della transizione di un'epoca, della trasformazione di una cultura, ma sempre con un annodarsi di arte e vita. Così, coloro che vogliono rappresentare il popolo separando la tragedia dalla commedia falliscono, perché mancano la vera anima napoletana. Essa non è né comica né tragica, ma è lo scorrere sublime e inappellabile della vita che si cela dietro il carnevale del nostro quotidiano che è appunto comico e tragico allo stesso tempo.

     In sintesi si può dire che l’ambito in cui si intrecciano maggiormente i due piani del film è quello simbolico, relativo alla ricerca di individualità e alla conseguente uccisione freudiana del padre per ottenerla. Ognuno dei personaggi è, infatti, alla costante ricerca del riconoscimento da parte della figura paterna: tanto da un punto di vista biologico, cosa che ricercano i figli, in particolare i piccoli De Filippo, sia da uno simbolico, bramato dallo stesso Scarpetta quando si rivolge a D’Annunzio al fine di ottenere la sua autorizzazione alla parodia, cosa che avrebbe posto sullo stesso livello le due opere teatrali e, dunque, le due forme artistiche. Tuttavia, il riconoscimento non avviene mai e la figura paterna non viene mai spodestata; così i personaggi sono condannati a ricercare la propria indipendenza e individualità (sia artistica nel caso del protagonista, sia psicologica nel caso dei figli) tramite la sublimazione artistica.

     In tutto questo Toni Servillo è un vero gigante che incarna alla perfezione una maschera capace di sedurre le folle e governare il sempre più ingovernabile apparato del dietro le quinte, mentre intorno a lui uno stuolo di bravissimi attori napoletani, i migliori attualmente operanti, (da Maria Nazionale a Cristiana Dell’Anna, da Gianfelice Imparato ad Antonia Truppo, da Eduardo Scarpetta – che interpreta Vincenzo, di fatto il suo bisnonno – a Roberto De Francesco e Lino Musella, rispettivamente Salvatore di Giacomo e Benedetto Croce) completa un quadro di recitazione che rasenta la perfezione.

     In conclusione, si tratta di un film ricco in cui si intrecciano molti livelli, ma senza pretese di intellettualità, anzi, come in tutti i grandi film i messaggi più complessi sono veicolati da un piano scenico emozionale e artistico. È bello e intenso vedere questo film, la tensione non cala mai, le soluzioni trovate non sono banali e alla fine ci si ritrova coinvolti e pienamente partecipi delle vicende di Scarpetta e della sua famiglia. Ma tramite questo coinvolgimento si riesce non solo a capire, ma soprattutto a sentire un’epoca, un dibattito tra arte e cultura, tra miseria e classi sociali ancora oggi quanto mai attuale. Solo le grandi opere cinematografiche riescono a centrare questo intreccio tra emozione, cultura e arte.

 

* Psicologa, psicoterapeuta, Analista Reichiana

 

ALTRE CULTURE ALTRI TEMPI

 

 

OTHER CULTURES OTHER TIMES

 DOI:  10.57613/SIAR14

Antonella Messina[*]

 

 

Abstract

     L’articolo propone riflessioni sull’organizzazione del tempo all’interno della società occidentale contemporanea. L’accelerazione e la vita di fretta possono confrontarsi con altri modi di organizzare il tempo in altre culture (africana, cinese, buriata, cristiano ortodossa). Chi legge potrà riflettere sul tempo come categoria culturalmente determinata.

Parole chiave

     Tempo – culture – differenze.

 

Abstract

     The article proposes reflections on the organization of time within contemporary western society. The speeding up and life in a hurry can confront other ways of organizing time in other cultures (African, Chinese, Buryat, Orthodox Christian). Readers will be able to reflect on time as a culturally determined category.

Keywords

     Time – Cultures – Differences.

 

 

Se è vero che “l’invenzione determinante

per l’età industriale non è il motore ma l’orologio[1],

allora nell’epoca post industriale

dovrebbe emergere una nuova esperienza del tempo

Raimon Panikkar

 

 

Una rotazione degli occhi sull'accelerazione occidentale contemporanea

     La società occidentale contemporanea, sembra, nella maggioranza dei processi organizzativi e relazionali, essere improntata sulla cultura del tempo esterno, misurabile e d’orologio, lineare, progettuale, passibile di un’accelerazione utile ad arrivare il prima possibile e velocemente a degli obiettivi prefissati. Intenzione dell’articolo è esplorare come altre culture abbiano elaborato modalità differenti di gestire il tempo, per aprire ad una pensabilità di altri  come utili ad organizzare il tempo. L’idea dell’articolo nasce dalla volontà di occuparsi delle sempre più numerose esperienze di ansie, sensi di inadeguatezza, impotenze, insostenibilità, spaesamenti, legati alla percezione del “non avere tempo”. Prendiamo atto con le parole del filosofo e teologo Panikkar (2021) del fatto che l’impostazione di quella che chiamiamo “Era tecnologica moderna” deriva direttamente da una certa civiltà, la quale presuppone una certa concezione della vita, che -a ragione o a torto- non è affatto universale”. (Panikkar, 2021, pag.16).

     Può essere importante interrogarsi, anche come psicologi, su che tipo di civiltà stiamo vivendo e su come questa possa incarnarsi nei  sistemi mente/corpo. Come recita il titolo di un libro di un etnopsichiatra francese, Tobie Nathan, Non siamo soli al mondo: è importante tenerne conto per riflettere sulle proprie radici e sull’impatto che gli incontri con altri modi di vivere possono avere su di noi.

     L’intento di questo lavoro è dialogare anche con chi lavora con le relazioni di cura, per proporre una visione, meta e consapevole, della possibilità che il tempo esterno, così’ come lo pensiamo, viviamo, abitiamo, organizziamo è una costruzione culturale, socio-economica, veicolata da dispositivi sociali che contribuiscono alla soggettività (Guarrasi, 2012) e propone un tempo veloce accelerato competitivo ansiogeno, frammentato, deprivato del corpo. Lungo questo processo potrebbe essere possibile esplorare la possibilità che alcuni dei disagi contemporanei (accelerazioni, competitività insostenibili e relative ansie, disattenzione al corpo) possano essere contestualizzati, riconosciuti come una delle risposte possibili dentro una cultura, occidentale e contemporanea, dal tono perfomante, allarmato e fondato su un tempo esterno scollato dai ritmi interni del corpo (sonno, riposo, respiro, battito del cuore, per citarne alcuni).

     In questa ottica l’articolo propone una rotazione degli occhi[2], una possibilità di ruotare lo sguardo circondando il circondante, circondando la cultura che ci circonda, per accedere a visioni di altri tempi possibili ed appropriati.

     Si tratta di osservazioni verso l’esterno rimanendo in ascolto del proprio tempo interno, lasciando poi emergere il cosa ci abita dentro, quando, compiuta la rotazione, torniamo allo sguardo con cui ci muoviamo solitamente nel mondo; in termini simbolici si tratta anche di sentire come risuona il nostro modo di organizzare il tempo dopo avere esplorato altre organizzazioni del tempo esterno. Questo processo, un vero e proprio “viaggio di ritorno” dalle esplorazioni, può avere l’esito di confermare, riscegliere, contaminare, armonizzare, evolvere ciò che già sapevamo (etimologicamente sapere da sapio, che aveva sapore per noi) lasciandoci immersi nella consapevolezza dell’esistenza di un campo di possibilità ampio, tridimensionale, intimo, variegato.

INVIATO img.Messina Paul Klee Angelus Novus 1920Paul Klee - Angelus Novus 1920

     Proprio come percorrendo con gli occhi il perimetro di un cerchio, verranno di seguito individuate, osservate, descritte, strutture culturali e percezioni del tempo tra loro differenti. Volutamente non ci si soffermerà nel commentare ogni scena descritta. L’intento è di generare nel lettore una rotazione che possa rendere fluido il viaggio tra i differenti “come temporali”.

     Marie Louise Von Frantz psiconalista, ricorda nel 1980 che nel libro Il pensiero cinese (1943), il sociologo Marcel Granet scrive che per l’antico pensiero cinese il contare (oggetti e tempo) è sempre stato qualitativo e non quantitativo,  fondato sulla qualità che ogni numero possiede piuttosto che sulla quantità dei numeri. In Divinazione e sincronicità scrive la Von Franz: “Per la mente cinese il numero crea associazioni qualitative (…) poi arrivai a leggere una storia incredibile che l’autore racconta: riuscì a svegliarmi. Questa è la storia. Durante una battaglia, undici generali, si trovarono a decidere se dovessero attaccare o ritirarsi. Nella discussione che seguì, alcuni erano favorevoli all’attacco, altri alla ritirata. Il confronto con la strategia  da adottare si protrasse a lungo e, non riuscendo a trovare un accordo, decisero di votare. Tre generali votarono per l’attacco e otto per la ritirata. I generali decisero a quel punto di attaccare , perché il 3 è il numero dell’unanimità. (…) Un cinese potrebbe pensare che inconsciamente i generali erano già unanimi sull’attacco benché solo tre di loro fossero coscientemente di quel parere. Perciò stando alla storia, attaccarono e vinsero” (Von Franz, 2019, pagg.128-129).

     La tradizione cristiana è fatta anche di meditazione e di un tempo interno sacro e qualitativo che consente di essere sempre in connessione con il divino; la tradizione dell’esicasmo[3] narrata nei Racconti di un pellegrino russo, prende ispirazione dalle parole di Paolo, “pregate incessantemente”, per parlare di una preghiera continua che abita nel cuore. Si tratta di una preghiera le cui parole, ripetute costantemente, incessantemente, proprio con il ritmo del respiro, costituiscono un modo di essere in permanente contatto con il divino, abitando il proprio tempo interno mentre nel tempo esterno si compiono i gesti della quotidianità. Nel libro il pellegrino sostiene che:“ Qui sta il punto: noi siamo  lontani da noi stessi, e nemmeno abbiamo gran desiderio di riavvicinarci, anzi continuiamo a sfuggire per non ritrovarci di fronte a noi stessi, e barattiamo la verità con le nostre cose futili, salvo poi pensare ”come mi piacerebbe occuparmi di cose spirituali o della preghiera, ma non ho tempo, gli impegni e le preoccupazioni della vita non mi lasciano modo di occuparmene”. Ma che cosa è più necessario: la salvezza eterna dell’anima o la vita transeunte del corpo, per cui tanto ci affanniamo?[4]

 

    Gli sciamani della Buriazia (regione meridionale della Siberia al confine con la Mongolia) ed in generale lo sciamanesimo turco-mongolo, ritengono che l’uomo occidentale abbia un rapporto perturbato con il tempo poiché il suo io si è separato dalla natura e divenendo altro da essa ha dimenticato di essere immortale. Per tale motivo l’uomo teme la morte e vive un tempo spaventato, di solitudine e mancanza, senza leggere l’immenso cui appartiene. L’umano ha tentato di porre rimedio a questa paura utilizzando il potere del controllo, anche del tempo, e teorizzando, di essere un’entità superiore alla natura. Questo ha acuito la solitudine dell’uomo occidentale che ha dimenticato di essere una sfera, composta da una metà carnale e visibile e da una metà invisibile. Per questi sciamani quando l’uomo imparerà a non temere la grande soglia che insiste tra le due metà della sfera, visibile ed invisibile, vita e morte, inizierà ad essere libero dalla paura e dalla morte e non pretenderà di controllare il tempo e la natura.

     La Grecia antica prevedeva un dialogo continuo con l’invisibile (le divinità) e tre  parole per esprimere il tempo. Il termine Chronos  indicava la successione di istanti, il tempo nella sua sequenza cronologica e quantitativa, oltre che divinità terribile e potentissima che divora i propri figli. Il termine Aiòn  designava la vita come durata, teneva conto di una continuità persistente tra le intermittenze e le anacronie dell’esistenza personale. Con il termine kairòs si indicava l’occasione, il momento propizio che l’umano può cogliere: una istantanea, sacra, vigile capacità di lettura che consente un contatto con il tempo assoluto e modifica qualitativamente lo stato degli accadimenti. Si poteva parlare di Kairòs nella strategia militare, nell’anamnesi del medico, nell’abilità del retore.

     Il verbo essere in Africa, specie nelle lingue bantu[5] rappresenta una Forza vitale in continuo divenire. Il tempo è la manifestazione di questa forza vitale antica ed ancestrale cui l’individuo/collettività sa di appartenere: “Se chiediamo ad un Africano perché si è comportato in un certo modo in una determinata circostanza essenziale, la sua riposta è icastica: «Come i nostri Antenati fecero nei tempi antichi, così facciamo oggi; come è stato tramandato dall’inizio della creazione della terra, così dobbiamo fare noi». Durante i riti di iniziazione i fanciulli non imparano «ciò che hanno fatto i genitori o i nonni», bensì «ciò che per la prima volta» fu compiuto dagli Antenati. (Miguel, 2009, pp. 59-76).

     Non si tratta di imitazione o di tradizione tramandata, ma di una connessione con il tempo delle Origini, ovvero: “Nella risposta degli Africani, le espressioni “tempi antichi”, “inizio della creazione della terra” più che darci un senso storico-cronologico, ci ridanno una dimensione in cui il tempo e il divino si confondono. (Ibidem).

     A conclusione di questa rotazione lungo i tempi altri, vengono in mente le parole di Hanna Arendt, in La vita della mente (pubblicato postumo nel 1976) sulla responsabilità di abitare il proprio presente. Nel commentare l’opera Angelus Novus di Paul Klee, acquerello del 1920, la Arendt descriveva un angelo che volge le spalle al futuro (che gli sta innanzi e gli taglia la strada) e guarda inorridito al passato. La filosofa sosteneva la necessità e la possibilità di trovare un punto, proprio convergente nell’Angelo che ella associa all’umano, dove tempo passato e tempo futuro si intersecano creando una diagonale all’infinito, un tempo in cui l’umano può abitare il presente e scegliere di assumersi la responsabilità di un tempo storico. Le psicoterapie e le relazioni di cura incontrano sempre più spesso individui contemporanei, “digitalmente determinati”, in continua accelerazione, protesi verso un futuro ingombrante, in difficoltà nell’abitare il presente. Per costoro il tempo sembra non bastare mai, il loro sembra essere un contatto/fuga con la frammentarietà della propria esperienza, del proprio tempo (inteso anche come durata) e del proprio corpo. Rimangono tutte in divenire le riflessioni sulla possibilità che derivano dai viaggi di ritorno con il  corpo, con le culture e con le intelligenze evolutive.

[*] Psicologa, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Studio professionale: Via Cuturi, 8. Catania.

[1] Munford L., Technics and civilizatione, cit in Panikkar R., Spazio tempo e scienza, volume XII, pag.14

[2] La rotazione degli occhi è un movimento oculare circolare e volontario che attiva l’area della corteccia prefrontale neopalliale stimolando i pattern più complessi ovvero più alti in organizzazione evolutiva. Richiama capacità di metacomunicazione, oltre quelle di integrazione di inclusione, di definzione circondante, di limite separazione, di sfericità di interezza.(Ferri, 2020).

[3] L'esicasmo (dal greco hesychia, calma, pace, tranquillità, assenza di preoccupazione) è una dottrina e pratica ascetica diffusa tra i monaci dell'Oriente cristiano fin dai tempi dei Padri del deserto tra il IV e il VI secolo, ancora praticata nell’Oriente Cristiano e in alcuni gruppi cristiani occidentali. E’ detto anche preghiera di Gesù preghiera del cuore, consiste nella ripetizione incessante della stessa formula, nella propria mente, secondo il ritmo del respiro, mentre si praticano gli affare della vita quotidiana (camminare, lavorare, mangiare, ecc.). Consente di distinguere e far convivere il tempo sacro di connessione con il divino ed il proprio corpo, con il tempo del fare.

[4] La prima edizione dell’opera sembrerebbe datata nel 1881, sull’autore anonimo alcune ipotesi lo individuano nel contadino russo Nemytov

[5] Il termine Bantu si associa alle culture e alle oltre 500 lingue parlate nell’Africa centrale e meridionale.

Bibliografia

Anonimo (2021), Racconti di un pellegrino russo. Milano: Edizioni Paoline.

AA.VV. (2009), Le frontiere della geografia. Novara: Utet.

Arendt H. (2009), La vita della mente. Bologna: Il Mulino.

Boella L. (2020), Hannah Arendt. Un umanesimo difficile. Miliano: Feltrinelli.

Calloni Williams S. (2020), Lo yoga sciamanico. Volontà senza paura. Roma:Edizioni Mediterranee.

Ferri G. (2020), Il tempo nel corpo. Attivazioni corporee in psicoterapia. Roma: Alpes.

Granet M.(1970), Il pensiero cinese. Milano: Adelfi.

Guarrasi V. (2012), La città cosmopolita. Geografie d'ascolto. Palermo: Palumbo.

Harari Y.N.(2018), 21 lezioni per il XXI secolo. Milano: Bompiani.

Miguel P.F. (2009), JIKUKU. L’ontologia ancestrale, in “B@beleonline/print” Rivista di Filosofia, Università Roma 3, n°6, anno 2009.

Munford L.(1934), Technics and civilizatione.  New York: Brace &world.

Nathan T. (2003) Non siamo soli al mondo. Torino: Bollati Boringhieri.

Panikkar R. (2021), Spazio tempo e scienza, volume XII, Roma: Jaka book.

Raffestin C. (2005), Dalla nostalgia del territorio, al desiderio di paesaggio. Elementi per una teoria del paesaggio. Firenze: Alinea.

Temples P. (2005), Filosofia Bantu. Milano: Medusa.

Von Franz M.L. (2019), Divinazione e sincronicità. Roma: Tlon.

Zolla E. (1988), L’amante invisibile. L’erotica sciamanica nelle religioni nella letteratura e nella legittimazione politica. Venezia: Marsilio Editori.

LE ASSAGGIATRICI

di Rosella Postorino

Feltrinelli editore, 2018

 

Recensione a cura di Marina Pompei

 

 

     Siamo in Germania durante l'ultima guerra, Rosa Sauer è stata obbligata a diventare una delle dieci assaggiatrici: ragazze tedesche che devono mangiare il cibo preparato per Hitler, filtri umani contro un possibile avvelenamento del Führer. Rosa non si sente nazista, non ha approvato la scelta del marito di arruolarsi; ma sottrarsi all'ordine ricevuto avrebbe significato mettere in serio pericolo la sua vita e quella dei suoceri che la ospitano in campagna, dopo il bombardamento della sua casa a Berlino.

     Vivono tutti e tre, senza averlo potuto prevedere, vicino alla “tana del lupo”, il nascondiglio segreto di Hitler. E lei entra nella tana del lupo, ogni giorno si nutre per non farlo morire. Potrebbe morire lei per un gioco del destino.

INVIATO img recensione libro Le assaggiatriciCopertina del libro "Le assaggiatrici" di Rosella Postorino

  Da bambina giocava con la possibilità di morire: appallottolava fili da cucito e li ingoiava, sperimentando il confine tra la vita e la morte.

     Questo è uno dei suoi segreti di bambina, insieme ad un altro: di nascosto ha morso la manina tenera del fratellino neonato; nessuno si è accorto dell'origine del pianto acuto del piccolo. Colpe per cui non sentiva rimorso.

     Un altro segreto più tardi, nei giorni della guerra: diventa l'amante del tenente delle SS a cui sottostavano le assaggiatrici. Suo marito è dichiarato disperso e lei dice sì al desiderio di chi tiene in pugno lei e le sue compagne.

    Senso di colpa deontologico e vergogna per azioni che sente riprovevoli, ne è consapevole.

    Suo padre, ora morto, non avrebbe mai accettato il suo adeguarsi alla situazione, il suo essere al servizio di Hitler; lui non si era piegato. Lei si dice: “Non c'era alternativa, questo è il nostro alibi”.

     Sua madre, uccisa dalle bombe, avrebbe giudicato senza possibilità di appello il suo aver tradito il proprio marito.

    Al confine tra il consapevole e il non consapevole c'é l'azione quotidiana di nutrirsi di piatti ricchi e sani mentre a casa e in paese la fame si fa fatica a tenerla a bada.

     Ma c'è ancora altro sottostante in questa stratificazione del senso di colpa: le sue occhiaie le aveva vissute sempre come un presagio: “Poi incontravo le mie occhiaie nello specchio e la rabbia si appassiva in sconforto. (…) Erano state un avvertimento, quelle occhiaie, e io non avevo saputo coglierlo, per anticipare la sorte, sbarrarle la strada.”

      Un senso di colpa l'aveva sempre accompagnata e non ne conosceva l'origine.

    Da analisti della psiche, o meglio, del corpomente, possiamo trovarne invece l'origine in quanto leggiamo all'inizio del capitolo 4. “Sono nata il 27 dicembre 1917, undici mesi prima che finisse la Grande Guerra. Un regalo di Natale a festa finita. Mia madre diceva che Santa Klaus si era scordato di me, poi mi aveva sentita strillare sulla slitta, infagottata nelle coperte che nemmeno mi si vedeva, ed era ripartito per Berlino controvoglia: erano appena iniziate le sue ferie e quella consegna fuori programma era una seccatura. Meno male che se n'è accorto, diceva papà, quell'anno sei stata il nostro unico regalo.”

      Per il papà un regalo, per la mamma una dimenticanza e poi una seccatura.

    Quell'utero allarmato per la guerra, la poca sostenibilità della madre ad accogliere una neonata, hanno prodotto un imprinting nella memoria implicita di Rosa: il suo corpo, non la sua mente, le dice di essere nata fuori tempo, fuori luogo, è questa la sua colpa inconscia.