Numero 2/2022

CORPI LACERATI

una lettura post reichiana dell’autolesionismo in adolescenza

 

BODIES TORN

A post-Reichian reading of self-harm in adolescence

DOI 10.57613/SIAR28

 

Robert Brumărescu*

 


 

Abstract

     Sguardi spenti, occhi persi nel vuoto. Polsi e braccia lacerate da rasoi e coltelli: sul corpo degli adolescenti, il fuoco della sofferenza. L’autolesionismo in adolescenza si configura come tentativo disfunzionale di regolazione emotiva, come risposta a un vuoto, un’angoscia in cui la parola non trova spazio, priva di simbolizzazione. In un taglio analitico reichiano leggiamo gli agiti autolesivi come vulnerabilità ai passaggi di fase, una sensibilità alla separazione/approdo dall’Altro. In fondo, per digerire emozioni e mentalizzare un corpo in trasformazione, l’adolescente ha bisogno di definirsi, separarsi dall’Altro. L’autolesionista inciampa nelle relazioni, senza trovare la giusta distanza emotiva dall’Altro.

Parole chiave

    Autolesionismo - regolazione emotiva - mentalizzazione - vulnerabilità relazionale.

 

Abstract

     Non suicidal self injury in adolescents is conceptualised as emotion dysregulation strategy . In this article I supposed a vulnerability to evolutive phase transitions, a peculiar sensitivity in relationships separations.

Keywords

     Non suicidal self injury - emotion regulation – mentalization - relationships vulnerability.

 

     Forbici, compassi, temperini. Talvolta anche rasoi e coltelli. Questi gli oggetti che adolescenti e giovani adulti prediligono per procurarsi incisioni, tagli, lacerazioni sul corpo. Effetto pandemia da Covid, rarefazione sociale, indebolimento di legami e limiti, i casi di autolesionismo in Italia crescono a dismisura da un anno a questa parte. I numeri parlano chiaro: nel 2022 i ricoveri di adolescenti e preadolescenti risultano duplicati rispetto agli anni passati. Lo sa bene chi ogni giorno si trova in trincea, chi accoglie nei servizi sanitari adolescenti dagli sguardi spenti, a volte persi, altre terrorizzati. 

     Per autolesionismo si intende “un’azione deliberata tesa a prodursi minorazione, temporanea o permanente che finisce per danneggiare chi la assume” (Enc. Treccani). In linea di massima, prendendo a prestito le parole di Favazza “si ritiene autolesionistica l’azione intenzionale volta a danneggiare una parte del corpo, senza l’intenzionalita’ di procurarsi la morte” (1993, p.134). La pratica autolesionistica risulta oggigiorno – specie in alcune tradizioni e culture – accettata socialmente, basti pensare a piercing e tatuaggi (utilizzati come forme estetiche per personalizzare il corpo), a riti d’iniziazione o pratiche religiose ancora presenti in svariate parti del mondo. La decorazione del corpo – ad esempio – assume tutt’oggi particolari significati simbolici nei gruppi punk o nelle tribù aborigene: pratica di riconoscimento sociale, elemento di definizione identitaria, passaggio da una fase di vita all’altra.brumjpg

     All’epoca di Tacito i guerrieri riempivano i loro corpi di tatuaggi sia allo scopo dispaventare il nemico che come segno distintivo di rango sociale. Fin qui abbiamo visto come alcune pratiche di autolesionismo risultino culturalmente accettate, ma cosa lo definisce allora come patologia? Il comportamento autolesionistico - affinché possa ritenersi patologico - deve assumere delle coordinate ben precise: la frequenza, il livello del danno procurato, l’intento con il quale viene prodotto, il grado di impulsività che lo genera. L’autolesionismo degli adolescenti, specie l’automutilazione, viene distinto dall’intento suicida, sia per le modalità con le quali viene preparato (altamente impulsive nell’autolesionismo), che per le finalità: nel primo caso può essere interpretato come vera e propria strategia (disfunzionale) per evitare il suicidio. Generalmente, tagli, graffi, bruciature, così come escoriazioni più o meno profonde, che gli adolescenti si procurano, li ritroviamo in zone del corpo ben precise, come polsi, avambracci, cosce e ventre. Tali parti del corpo da una parte risultano in primo piano sulla scena sociale, dall’altra restano visibili al controllo che l’adolescente vorrebbe esercitare sul suo corpo e, indirettamente sui suoi affetti.

     Ci si può chiedere cosa scatti nella mente di un adolescente prima che prenda una lametta tra le mani? Solitamente, l’azione autolesionistica è il risultato finale di una serie di campanelli d’allarme: l’adolescente si trova a navigare dentro onde emotive che lo sovrastano, che non è in grado né di riconoscere né tanto meno di nominare a se stesso o agli altri. Si scopre incapace di surfare i cavalloni emotivi interni, per cui ne viene travolto, risucchiato completamente. La sensazione di apnea – spesso ben descritta dai ragazzi in termini di un miscuglio di angoscia, vuoto e terrore - finisce per generare l’impulso autolesionistico. In realtà, qualsiasi emozione che sperimentiamo genera un impulso: tanto vigorosa risulta l’intensità, tanto più infuocata è la temperatura sul termometro dell’emozione che sperimentiamo, maggiore sarà l’energia, la spinta che muoverà l’impulso.  Ecco come la mente, in uno stato di rapina/dissociazione emotiva, finisce per agire l’impulso autolesionistico che, da episodico e puramente impulsivo, diviene automatismo, se prodotto con regolarità. La trappola in cui cade l’adolescente è che sul momento, l’agito autolesionistico placa, spegne l’incendio emotivo tuttavia, la scarica innesca un vero e proprio condizionamento operante.

     Un’altra funzione generata dall’automutilazione è il colpire, attirare l’attenzione sociale, tentando così di riparare uno scollamento, un distanziamento interpersonale che il ragazzo percepisce. Altri tentativi interpretativi degli agiti autolesivi scomodano teorie freudiane su sessualità e aggressività, come l’ipotesi di Friedman (1972) secondo cui l’automutilazione offrirebbe una certa dose di gratificazione sessuale.

     Nella clinica quotidiana gli adolescenti ci parlano di una certa dose di gratificazione, di sollievo, di scarica dalla pressione emotiva che accumulano. Ecco allora come altra ipotesi per spiegare tagli e bruciature potrebbe essere la funzione di regolazione degli affetti, ovvero un tentativo, una strategia di coping (disfunzionale) di plasmare la sofferenza emotiva. Una sorta di strategia calmante, anestetizzante, che spegne l’incendio emotivo (Jeammett, 1992). L’adolescente, nel tentativo di regolare le emozioni che sperimenta, imbattendosi nella scorciatoia dell’agito corporeo, finisce per rinnegare il registro simbolico: per tale motivo, autolesionismo e mentalizzazione si trovano verosimilmente in una correlazione negativa.

     Ad una lettura orizzontale l’adolescenza si manifesta come tappa evolutiva fondamentale nella strutturazione dell’identità del ragazzo, fase, stazione dello sviluppo che porta con sé compiti evolutivi ben precisi, tra i quali  mentalizzazione del corpo sessuato, costruzione di valori, nascita sociale, separazione/individuazione. A riguardo proprio dell’ultimo dei compiti evolutivi esplicitati, Pao (1969) propone una netta correlazione tra agiti automutilanti e la fase di separazione/individuazione individuata della Mahler, specificando come questi adolescenti risultino fissati a tale fase di sviluppo. Sotto stress ambientale/emotivo l’adolescente risponderebbe con una regressione, un ritorno alla fase di sviluppo che pressappoco si circoscrive tra l’ottavo mese e il terzo anno di vita. Le riflessioni di Pao permettono di confinare ad un tempo interno ben preciso la vulnerabilità dell’adolescente autolesionista, trascurando tuttavia il tema del corpo. Per questo, in accordo con Binswanger (1973), bisogna recuperare la dimensione del corpo: di fronte ad un paziente bisogna chiedersi sempre: come vive il suo corpo, come lo sperimenta? Non riferendosi ai suoi singoli distretti ma, come vive il tempo che ha attraversato il suo corpo, come percepisce oggi le relazioni oggettuali di fase, depositate lungo i livelli corporei relazionali? (Ferri, 2017).

     Il modello post reichiano (Ferri 2012), organizzatore di entropia, utilizza con vigore un modello di lettura biologico-biografico della psicopatologia. Psicopatologia, quale oltre-soglia di tratto, deposito delle fasi ontogenetiche e delle relazioni con l’Altro da Sé. Volendo inforcare le lenti post reichiane, la vulnerabilità evolutiva, il segno inciso dell’adolescente autolesionista, si potrebbe collocare lungo il come delle sue separazioni/individuazioni dall’oggetto parziale di fase e, non come fissazione ad una specifica fase evolutiva, come invece suggerito da Pao (1969). Nelle fasi evolutive della sua costituzione identitaria, l’adolescente affronta continue separazioni/approdi: il primo distacco avviene con il parto, segue poi lo svezzamento, l’uscita edipica e infine la pubertà. Il come di questi quattro passaggi evolutivi risuonerà poi sulle separazioni e sulla postura relazionale che manterrà nel suo divenire. L’ipotesi qui delineata è che l’adolescente autolesionista abbia una struttura di tratti, un carattere, ben identificabile, costituito da una sensibilità marcata alle separazioni dall’Altro. Separazioni/approdi vissuti con profondo allarme, a partire dal primo distacco del parto. In fondo, la possibilità di integrare, digerire, mentalizzare il proprio corpo, poggia sull’abilità di definirsi/separarsi dall’Altro, aspetto che, nell’adolescente autolesionista vediamo mancare. Il fenotipo dell’adolescente autolesionista inciampa continuamente nelle relazioni, non trovando mai la giusta distanza a cui collocarsi rispetto all’Altro. I tagli, le lacerazioni prodotte sul corpo, fungono così da distanziamento – non simbolizzato – dall’Altro da Sé.

     “Se mi avvicino troppo mi sento mancare l’aria, se l’altro mi nega di uno sguardo, mi sento sprofondare nelle tenebre”, così descriveva le sue relazioni, una giovane adolescente, all’ennesimo ricovero per autolesionismo.

Bibliografia

Binswanger, L. (1973), Essere nel mondo. Roma: Astrolabio

Favazza, A., Rosenthal, R, (1993), Diagnostic issue in self-mutilation. Hospital

and Community Psychiatry, 44, 134-139.

Friedman, M., Glasser, M., Laufer, E. (1972). Attempted suicide and self-

mutilation in adolescence: some observations from a psychoanalytic research

project. British Journal of Psychoanalysis, 53, 179-183 .

Ferri, G., Cimini, G. (2012), Psicopatologia e carattere. Roma: Alpes

Ferri, G. (2017). Il corpo sa. Roma: Alpes.

Jeammet, P. (1992), Psicopatologia dell’adolescente. Roma: Borla.

Pao, P.N. (1969), The syndrome of delicate self-cutting. British Journal of medical psuchology 42, 195-206.

 

* Ph.D, Psicoterapeuta, Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 LA GUERRA E LA PACE

 

WAR AND PEACE

DOI 10.57613/SIAR30

 

Autori Vari[*]

 

Abstract 

      Un piccolo gruppo di psicoterapeuti analisti reichiani ha condiviso riflessioni personali sulla guerra in corso in Ucraina, sul bisogno di perseguire la pace e sulle risonanze che ne derivano nel setting terapeutico. La linea guida delle riflessioni è data da domande su questo tema formulate durante i lavori della Commissione Riviste della FIAP.

 Parole chiave

     Guerra – pace – Ucraina – Setting terapeutico.

 

Abstract

     A small group of reichian analyst psychotherapists shared personal reflections on the ongoing war in Ukraine, the need to pursue peace, and the resulting resonances in the therapeutic setting. Guideline for these reflections is offered by questions formulated on the matter during the work of the FIAP Journals Committee.

Key words

    War – Peace – Ukraine - Therapeutic setting.

 

Qual è il tuo vissuto soggettivo rispetto al tema della guerra e della pace?

L’essere in guerra ed in pace lo leggo anche come un fatto personale, intimo. Questo è il tempo storico in cui abbiamo imparato a dire ed organizzare (logicamente) pensieri che non sempre rispecchiano il piano emotivo: è possibile parlare di pace utilizzando un come corporeo molto violento. La guerra e la pace le vivo come condizioni da ricercare profondamente abitando le proprie parti, anche quelle aggressive. Su questo la psicoterapia diviene un atto di possibile costruzione di pace.

(A.M.)

Inquietudine, smarrimento, bisogno di fare cose semplici concrete e costruttive, piccole nella quotidianità, sperando che il mio atteggiamento sia contagioso. Penso spesso a quanto raccontavano i miei genitori delle esperienze della guerra.

(S.B.)

Di guerre ce ne sono tante in corso nel mondo: questo è un pensiero che ho sempre posto nel recinto della negatività, della malagestione della politica mondiale, ne ho sempre immaginato la sofferenza per le persone coinvolte, ma con una distanza che l'invasione russa della Ucraina ha azzerato.Ora mi trovo coinvolta in un processo di identificazione che devo imparare a gestire. Mi trovo a chiedermi: se devo scappare da casa mia, cosa posso mettere in una valigia? Una sola sarei in grado di gestire nel cammino, quali sono le cose indispensabili? vestiti o cibo? l'acqua? i documenti? del denaro? il cellulare? Non ho l'automobile, a quale familiare chiederei ospitalità nel suo abitacolo viaggiante? Per andare dove? Ecco, questo non mi era mai capitato prima. E allora la ricerca di pensieri sulle vie diplomatiche, che però non vedo attivarsi, sull'ONU che non parla, sull'impotenza, su quello che non si è fatto per prevenire questo disastro. Il pensiero del rischio nucleare fa da sottofondo. Metto alla finestra la bandiera della pace, vado alle manifestazioni che chiedono la pace, e poi trovo conflittualità con gli amici, con i parenti che con rabbia mi dicono che l'unica risposta possibile è inviare armi. Cerco di non farmi travolgere e mi dico che dobbiamo cercare tenacemente una via più umana, che è anche più intelligente.

(M.P.)

 Il mio vissuto: delusione e impotenza. Piccoli uomini inadeguati al vertice dei governi su questo Pianeta, che fanno correre il rischio, ad alta probabilità, di Armagheddon per la Vita. La Pace è una co-costruzione di un equilibrio di campo, che risponde a requisiti relazionali ben precisi, ancor di più se fatta in un’organizzazione intelligente di umani. Co-costruzione impossibile allo stato, perché un’intelligenza rettiliana, del diverso-nemico, domina i piccoli uomini governanti del mondo. Anche il corpo sociale in questo pianeta è affetto da peste emozionale, vera e propria sindrome rettiliana: una circolarità difficile da spezzare.

(G.F.)

La guerra mi angoscia. La considero la diretta conseguenza della perdita degli occhi e della capacità di ragionamento. Per me la guerra è distruzione, violenza, dolore, perdita, miseria, fame, disperazione, orrore, terrore. Non riesco a concepire come si possa usare la guerra come risoluzione di un conflitto. Non ci sono ragioni che sostengono la guerra. Nella guerra si perde tutti. Che vittoria può essere quella che si afferma su milioni di morti, su tanti bambini uccisi, su corpi violati delle donne, sulla distruzione della cultura e dell'identità di un popolo? Se si tiene presente che la guerra è tutto questo, mi chiedo come sia possibile considerarla uno strumento risolutivo.L'essere umano deve necessariamente cercare altre soluzioni ai diversi conflitti che la vita in comune inevitabilmente presenta. Bisogna cercarle con intelligenza e con cuore. La pace è il frutto di questo sforzo. E non va perseguita soltanto in situazioni eccezionali ma sempre. È necessario creare una cultura di pace che insegni il riconoscimento e il rispetto della Vita. Sono convinta che la guerra, qualsiasi guerra, quella espansionistica, quella economica, quella geopolitica, quella giusta, quella santa, ha la sua radice nell'animo umano. L'essere umano deve crescere, evolvere ed attestarsi su posizioni più alte. Attivare, espandere e consolidare la neocortex, quella parte del nostro cervello che ci permette di ragionare e sentire compassione. In questa ottica il nostro lavoro può svolgere una funzione molto importante: quella di accompagnare chi lo desidera a guardare la propria profondità, accoglierla, comprenderla e con una nuova consapevolezza risalire neghentropicamente su organizzazioni più elevate e complesse. È un lavoro certosino e richiede molto tempo, certo non utile per una immediata soluzione. Però mi piace pensare che anche gli umani possono imparare a "vivere senza ammazzare" imitando coloro che già vivono in questo modo, così come ha fatto un'intera comunità di primati che imparò da pochi elementi del gruppo a lavare il cibo prima di mangiarlo.

(R.B.)

La guerra è entropica, non è mai una soluzione funzionale per un sistema che vuole crescere armonicamente. È il risultato di sistemi di potere e non di potenza, che stanno sull'avere e non sull'essere.

(T.M.) 

È un vissuto di sgomento. Appare chiaro che la storia non è necessariamente maestra di vita, che perseverare negli errori è umano. Lo sgomento nasce anche dal fatto che il mondo sembra ormai dominato da individui e gruppi che perseguono scientemente il male e la violenza, mentre la maggioranza, pur contraria, non riesce a trovare il modo di incidere, di farsi sentire.

(M.M.) 

Se parliamo di vissuto soggettivo devo rispondere che è un vissuto contraddittorio di rifiuto e disgusto della guerra ma non di estraneità. Anche sul tema della pace vivo una certa contraddizione tra un sincero anelito alla pace e un fastidio di fronte alla retorica e ai facili appelli alla pace.

(M.L.D.S.) 

Direi di amarezza, più che di delusione (perché lì c’ero già arrivato). Vivere in un mondo in cui l’immagine dà il senso dell’ Io, del mio valore ; un mondo in cui la cultura è formata sui social, in cui, al posto di un approccio critico (potremmo dire la rotazione degli occhi) si formano le tifoserie da stadio, dove c’è una cosa giusta e l’altra, gli altri sbagliati. In cui si è passati dai No tav ai No vax, come se i primi due No eguagliassero le altre due parole! In cui, sempre più, molti pensano ad un potere  occulto …Si sta sempre più sui social e si è sempre più soli! Ed ecco che arriva una guerra. Non ci si domanda: perché, cosa sta succedendo, cosa si può fare per fermarla! No, ci sono i buoni ed i cattivi! E chi non sta con i buoni significa che è putiniano. E sembra che sia necessario che ci sia un vincitore, mentre l’altro deve perdere! Costi quel che costi  [aumento del gas, penuria del grano per nazioni (sottolineo non nazioni in senso ideologico, ma Uomini, Donne, Anziani, Bambini)  che già muoiono di fame]. Ma io non posso neppure dimenticare tutti i giovani (hanno l’età dei miei figli) morti da una parte e dall’altra del fronte, probabilmente per molti senza nemmeno sapere per quale motivo erano lì. Le crisi economiche che molte nazioni subiranno da questa assurda guerra porteranno licenziamenti, povertà … Nulla ha importanza; è necessario dare armi, soldi, ma aggiungerei assistenza militare … a (non tanto all’Ucraina o agli ucraini, ma a Zelensky). E, prima di terminare questo primo punto sociologico e riconoscere pure la mia rabbia, permettetemi di aggiungere altre tre cose:

  • Gli artisti, i musicisti, gli sportivi russi, sono stati esclusi da tutto, solo perché di origine russa, così come gli ebrei dovevano essere estirpati, perché ebrei..
  • Zelensky è stato proposto per il Nobel della pace (ma ci rendiamo conto….?)
  • L’unico capo di stato che si sta dando da fare per la pace è Erdogan (ci ricordiamo chi è Erdogan!)

Ecco, tutto questo mi fa dire che c’è proprio un elemento antropologico culturale che è saltato! (per farvi sorridere un po’, posso dire che dopo 25 anni mi trovo d’accordo con alcune affermazione sulla guerra e su Zelensky di Berlusconi! Che chiaramente lui è putiniano).

(G.N.)

 

È un vissuto di sgomento, di sospensione. Mi rendo sempre più conto che nel mondo vi è una ripartizione ingiusta dei beni e delle ricchezze. Di conseguenza quando in una società si vive una disuguaglianza così accentuata  appare evidente che prima o poi vi siano le guerre; anzi in un mondo come il nostro basato prevalentemente sul potere e sull’ingiustizia diventa un fatto inevitabile. Fin quando ci saranno intere aree geografiche povere ed affamate c’è da aspettarsi che si ribellino. Molto spesso, tuttavia, ci rendiamo conto che non è più neanche la fame che crea le guerre, ma la sopraffazione, la prevaricazione, l’accaparrare egoisticamente i beni di una nazione o più nazioni. Ma questo c’è sempre stato! Basta leggere i libri di storia! Occorre stabilire quali siano i termini di partenza, che vanno al di là della storia, delle ideologie, dell’economia, della politica. Per cui, sentirsi felice o provare il senso della pace è un po’ difficile in un mondo siffatto. Quando prevalgono gli istinti  che sono governati dalla cultura dell’appropriazione, della violenza e non dalla cultura umanistica e da una filosofia dello spirito, va da sé che ci troveremo sempre di più a vivere lunghi periodi di vita basati su una grande miseria umana interiore.

(P.M.)

 

Che effetto ha avuto sul tuo essere terapeuta questa guerra?

Mi sono chiesta in che modo la psicoterapia possa accompagnare, specie in questo tempo, le persone ad un pensiero complesso, non polarizzato, all’interno del quale leggere i processi e le dinamiche piuttosto che le estremizzazioni e le divisioni in buoni e cattivi. Come terapeuti   possiamo sostenere l’altro, senza elogiarlo né giudicarlo, restituendo lo sguardo relazionale all’altro che vive nel mondo. Come    terapeuta ho sentito in questi mesi di dovere lavorare nei gruppi, di proporre spazi sani per portare in terapia le modalità dannose cui questa società ci sta abituando.

(A.M.)

Allargare la riflessione e portarla a gruppi, con un collega pedagogista ho fatto incontri con un gruppo sul tema del conflitto. Esplorare il nostro modo di stare nel conflitto ci aiuta a capire come possiamo fare per essere con l’altro in posizioni di ascolto confronto e scambio. È possibile un conflitto costruttivo, incontrare un’intelligenza di gruppo se ci si orienta all’ascolto.

(S.B.)

Come terapeuta mi sento come su una barca che prende su qualche naufrago, ma intorno la tempesta aumenta di ora in ora.

(M.P.)

Un effetto scoraggiante, perché una professione meravigliosa, umana e attenta, come la nostra, rappresenta solo un granello terapeutico collocato in un mondo che dovrebbe stendersi per qualche decennio e più sul lettino dell’analista. È difficile, ogni giorno, resettarmi per restituire bellezza, intelligenza e sapere. Prendo perciò a prestito fotogrammi delle dinamiche di guerra per fare analisi      del carattere delle nazioni e dei personaggi, collocare i pattern di tratto nel tempo di fase e nei livelli         corporei corrispondenti, codice di lettura, il nostro, valido anche per sistemi viventi così grandi. Tutto ciò mi placa e mi aiuta a comprendere, a stare nel mio essere analista-terapeuta, persona occidentale e cittadino del mondo.

(G.F.)

Certamente questa guerra ha appesantito la mia anima ma non so dire in che modo e in quale entità interferisce nella relazione con i miei pazienti.

Ho notato però una leggera sensazione di conforto, sia in me che nel paziente, quando l'argomento in qualche modo veniva affrontato.

(R.B.)

Dover salire in neghentropia lavorando ancor più su di sé, per esprimere una vitalità maggiore e sentire una sostenibilità possibile.

(T.M.)

 Sottrae energie, non aiuta a posizionarsi alle più alte possibilità di sé per aiutare il paziente a risvegliare e fare appello alle proprie migliori energie.

(M.M.)

Ha messo in primo piano il tema del conflitto - che ritengo essere presente in ogni disagio interiore e perciò in ogni paziente - portandomi ad approfondirlo.

(M.L.D.S.)

Professionalmente parlando direi poco. Con il paziente ci sono (come se la guerra non ci fosse). Ma mi fa sorgere tante domande esistenziali.

(G.N.)

Può dare a volte un senso di precarietà, ma quando sono concentrata nel mio lavoro tutto scompare e la persona che mi sta davanti riceve tutta la mia attenzione ed il mio sostegno. Può avere un effetto importante perché è proprio nell’esperienza individuale e duale che possiamo accrescere ed evolvere la nostra interiorità. Un intervento psicoterapeutico ed educativo può aiutare a costruire se stessi nel proprio valore autonomo. Del resto noi possiamo incidere soltanto sul singolo, in modo capillare, per poi fare un’operazione di reinvestimento nella conoscenza e nella coscienza del mondo.

(P.M.)

IMG ARTICOLI GUERRA dipinto olio su tela di Giada Callegari ridOlio su tela di Giada Callegari

I tuoi pazienti esprimono nel setting i loro vissuti rispetto a questi temi?

Soprattutto i giovani sembrano allarmati rispetto al rischio di una guerra, però sono silenziosi rispetto alla memoria delle guerre e degli effetti della bomba atomica. Alcuni giovani non sanno cosa sia accaduto in Hiroshima e Nagasaki, non capiscono cosa stia accadendo, reclamano un mondo giusto che arrivi improvvisamente e faticano nel mettere insieme cambiamento e rinuncia ad alcuni beni di consumo prodotti a scapito di altre persone in altri continenti.

(A.M.)

In setting individuali in modi tangenziali, molto di sfuggita. Si tende a  passare il tema sotto silenzio.

(S.B.)

I miei pazienti parlano pochissimo di questa guerra, penso sia un'autodifesa: questo è troppo, rischia di essere la goccia che fa traboccare il vaso. Credo di vederla apparire in racconti che loro mi portano di persone vicine che manifestano sempre più segnali di angoscia e di rabbia, senza saperli nominare.

(M.P.)

Le persone che seguo nei setting analitico avvertono angoscia, soprattutto da minacciosità, che incombe prossima per la guerra, più sentita rispetto a quella di altri scenari bellici nel mondo, più distanti e meno mirror socialmente per cultura e tradizioni. (In Brasile per esempio quasi non è sentita la guerra europea). Molto diffusa comunque nel setting anche la scotomizzazione dell’evento, come se non ci fosse quasi un fenomeno sospeso sub-liminalmente. Affiorano peraltro proiezioni personali di parte, voglia di razionalizzare la follia e anche soluzioni scomposte, pur di finirla.

(G.F.)

Solo alcuni. Una giovane donna ha espresso il timore che il suo ragazzo possa essere chiamato alle armi. Un altro paziente esprime la sua rabbia perché non ha scelto la guerra e soprattutto perché nessuno ha chiesto il suo parere. Un altro dice di essere profondamente colpito da quello che sta accadendo nel mondo, ma poi, sentendosi impotente preferisce spostare la sua attenzione su altro. Un altro si esprime così: “Ma che senso ha darsi tanto da fare per costruire il proprio futuro quando    basta schiacciare un pulsante (riferendosi all'atomica) e salta tutto in aria?”

(R.B.)

Non si soffermano molto, quasi si avesse timore di parlarne.

(T.M.)

Dominano il silenzio, frutto spesso dell'ignoranza, o la rassegnazione, che aumenta la precarietà del senso di vivere.

(M.M.)

Meno di quanto ci si potrebbe aspettare. Si direbbe che prevalgono sempre di più vissuti egocentrici.

(M.L.D.S.)

E anche questo, è strano! Poco, molto poco, come se il mondo non avesse alcun problema. Del resto basta andare in giro, locali pieni, alberghi pieni … come se non ci fosse nulla di preoccupante.

(G.N.)

No, non esprimono il loro vissuto rispetto a questi temi. A volte, esprimono il loro pensiero in modo superficiale e frettoloso. Nessuno di loro è favorevole alla guerra.

(P.M.)

 

In caso affermativo, incontri difficoltà nel gestire la relazione col paziente che può avere posizioni simili alle tue o molto diverse?

La difficoltà maggiore sta nel disagio che provo nel leggere la forte ambivalenza in alcuni pazienti: da  una parte il desiderio di pace, dall’altra la difficoltà a comprendere e pensare che molti dei comportamenti dell’essere umano occidentale ed industrializzato sono alla base di sfruttamento e disagio per altri.

(A.M.)

Non ho pazienti che abbiano espresso di essere favorevoli alla guerra.

(S. B.)

Non ho incontrato pazienti con posizioni molto diverse dalla mia sulla guerra.

(M.P.)

No. Per fortuna, per formazione e pattern di tratto, ho il lusso della sostenibilità delle differenze, qualità indispensabile per portare il dialogo sulla soglia di un’intelligenza meta con l’Altro, per condividere anche le differenze, nel rispetto reciproco.

(G.F.)

Ho notato che purtroppo questi temi vengono affrontati come fosse una partita di calcio: tifano per una o per l'altra parte, per cui il parlare è solo uno sfogo delle proprie tensioni.

(R.B.)

Non ho incontrato pazienti favorevoli alla guerra

(M.M.)

Non ho incontrato difficoltà significative, ma non escludo che potrei incontrarne.

(M.L.D.S.)

Se dovesse succedere non ho problemi a pensare che non avrei difficoltà.

(G.N.)

No, non ho incontrato posizioni diverse. I pazienti sono più concentrati sui loro problemi personali.

(P.M.)

 

Osserviamo la guerra dai tg e dai social. Che effetti può generare l'essere telespettatori di un fenomeno drammatico?

Mi colpisce che i tg vadano in onda anche ad ora di pranzo e cena; osserviamo scene di morte e di povertà mentre i corpi di noi a cena o sul divano sono sereni gustando cibo dentro un luogo sicuro. Come       convivono questi due stati contemporanei: l’orrore che vediamo e la sicurezza da cui guardiamo. Mi chiedo cosa accada nel profondo e nell’organizzazione del pensare/sentire quando si consolida l’abitudine ad   essere spettatori da lontano, ovvero lontani per spazio, tempo e sentire.

(A.M.)

Sgomento, assuefazione, solitudine, impotenza, rassegnazione. Difficoltà comprendere come si arrivi a piombare in emozioni estreme dalla paura e alla durezza della distruzione al bisogno di salvarsi  non solo fuggendo ma aggredendo.

(S. B.)

Già dallo scoppio della pandemia da Covid ho imparato a seguire i telegiornali facendo ginnastica: il movimento combatte un po' l'angoscia e il senso di impotenza. Poi mi chiedo: ci fanno vedere le case distrutte dai missili russi, i morti e i feriti, e piangiamo per    loro, ma i miliardi in armamenti inviati agli ucraini dove vanno a far danno? Su altre case e persone della stessa Ucraina. Questo non ce lo fanno vedere.

(M.P.)

Drammatico. La risonanza emozionale da esposizione massiva ad immagini orribili, con informazioni su pattern di violenza inaudita, disorganizzano le emozioni e le relazioni, facendo emergere l’allarme di stadio rettiliano con i suoi tratti difensivo- aggressivi. Se aggiungiamo l’assenza di reciprocità degli informati, il martellamento compulsivo, il bisogno dei media di       audience (che fa loro rincorrere le peggiori efferatezze ), allora  la misura di tossicita è colma.

(G.F.)

Le cose terribili che vediamo in televisione lasciano sicuramente dentro di noi delle impressioni che spaventano e che aumentano, più o meno consapevolmente, la paura e l'ansia, ma fino a che non stravolgono la quotidianità, è possibile proteggersi con alcuni meccanismi di difesa come ad esempio l'indifferenza e il far finta di nulla.

(R.B.)

È un essere spettatori ben consapevoli che la sofferenza enorme alla quale assistiamo è molto vicina anche a noi e che non ha un senso intelligente.

(T.M.)

Aumento dell'ansia e della paura, paralisi, difficoltà a proiettarsi nel futuro.

(M.M.)

Effetti disastrosi, sia che vadano nella direzione della paura che in quelli della desensibilizzazione.

(M.L.D.S.)

Il mio guardare è notevolmente diminuito, così come su molti altri temi (vedesi proprio la politica, le elezioni … passatemi qualche considerazione: qual è ora la sinistra? Siamo sicuri che la sinistra sia in contatto con i bisogni della gente? E qual è il significato della Meloni? Se penso che è stata attaccata dalle donne della sinistra perché non si è fatta chiamare “la Presidente“ mi viene da piangere! Ma queste si rendono conto di come vive la gente, di cosa sta succedendo nel mondo … oppure si parla del “sesso degli angeli”? Sto invecchiando precocemente, oppure è il mondo che sta prendendo una piega storta? E ancora: c’è una possibilità che il mondo cambi? Ci sono risorse sociali, culturali per andare a modificare una situazione così globale, complessa, malata? La mia risposta è no. Perché quello che io penso, da antico Comunista (appartenevo al Partito Comunista Italiano) ma direi marxista, è che è proprio il modo di essere e di progredire del mondo che non può funzionare; cioè un mondo dominato dal capitalismo, che tradotto in termini più semplici, vuol dire dal profitto, dove quello che conta è quest’ultimo elemento  (è come se si volesse misurare la felicità dal PIL!). E allora certo, mi chiedo qual è il mio compito di persona, di analista, di buddista! La mia risposta è che, in questo tempo, nel mio piccolo, devo e voglio continuare a portare avanti gli ideali, le motivazioni e le conquiste  acquisite nella mia vita; passarle a chi è ricettivo, mantenere accesa una fiaccola di un altro mondo che vorrei, ed è una buona cosa che questo venga fatto insieme ad altri che sono in sintonia con il mio pensiero, in modo tale che tutto ciò non venga perso. E quando mi trovo a rileggere testi di 2 o 3 mila anni fa mi dico che questo è possibile.

(G.N.)

Può generare impotenza, ansia, paura, un senso di non vivere completamente, anche perché siamo sommersi continuamente da tante altre problematiche.

(P.M.)

 

In una società occidentale con vite frenetiche e in corsa c'è tempo per sentire profondamente gli accadimenti della guerra?

I ritmi di vita che conduciamo non sempre consentono di sedersi, respirare, pensare ed ascoltare cosa sentiamo. Siamo telespettatori dell’orrore della guerra,  in particolare di una guerra che porta sotto gli occhi la dipendenza da risorse primarie e il terrore di non avere        abbastanza. A rendere più difficile la connessioni sentire pensare ci sono la paura della carestia e il doversi confrontare con il tema della morte, illustre rimosso di questa società.

(A.M.)

Se ci colleghiamo agli altri sì. Con una  decisione consapevole di muoverci, agire incontrare persone e scambiare opinioni e vissuti, fare rete, non solo sfogo o lamentela.

(S.B.)

Il tempo per sentire sembra diventato pericoloso: se mi lascio toccare da questa tragedia come faccio a vivere progettando il futuro? Mi sembra una posizione diffusissima soprattutto tra i giovani.

(M.P.)

C’è un “no” implicito nella domanda, posizioni che sono altro dalla profondità della guerra, perché in superficie e sull’istante, posizioni connesse all’accelerazione del tempo. Nelle società occidentali c’è comunque la possibilità critica e metacomunicativa di sentire di non sentire il proprio stato e poter migliorare o cambiare alcuni pattern. E nelle altre società? Forse neanche questo stadio evolutivo, di critica e metacomunicazione.

(G.F.)

No, tutt'altro. Il tempo del sentire ha un altro ritmo. È il ritmo del respiro, della presenza, dello stare nelle cose che accadono. La corsa accelera tutto. Per cui continuare a correre può essere un modo per difendersi.

(R.B.)

All'apparenza sembrerebbe di no, in realtà questo sentire aleggia continuamente e si coglie negli sguardi, nei mancati sorrisi, nelle reazioni impulsive e aggressive.

(T.M.)

In genere siamo storditi dal flusso spasmodico di informazioni. Ma soprattutto siamo distratti, storditi e sopraffatti dai continui stati di emergenza (sanitaria, economica, energetica, climatica) in cui ci troviamo immersi e costretti a fronteggiare.

(M.M.)

Credo che ci sia ben poco tempo. Le impressioni o non ci raggiungono o ci invadono.

(M.L.D.S.)

Se penso a me, rispondo di sì, anche se poi, a seguito di altri problemi (vedi la situazione della crisi energetica – tra l’altro derivante proprio dalla guerra), può accadere che un po’ possa sfumare. Per la società mi verrebbe da dire: molto poco, proprio per le cose che accennavo nelle righe precedenti. Ma questo significa che le persone sono lontane dal sentire, anche quando la guerra si affaccia sul loro giardino!

(G.N.)

Per come è conformata la società occidentale sembra che non ci sia abbastanza tempo per “sentire” profondamente ciò che avviene intorno a noi. Pur trovandoci nel periodo dell’informazione, della comunicazione, della visione degli eventi, ciò che si nota è la non partecipazione profonda agli stessi eventi che ci scorrono davanti. A mio avviso, il problema non è la mancanza del tempo per sentire ma della partecipazione emotiva, affettiva, spirituale che ci mette in condizione di partecipare pienamente ai vari accadimenti. È sicuramente una difesa: guardiamo, ascoltiamo ciò che avviene con il terrore che tutto ciò possa capitare a noi, ma oltre il piccolo nucleo familiare, per chi ce l’ha, tutto il resto del mondo costituisce una sorta di spettacolo che viene vissuto come qualcosa al di fuori di sé. Anche in questo caso il tempo per “sentire” rientra in un discorso di fraternità più globale, ove la persona dovrebbe avvertire gli eventi estranei con quella affettività profonda che solitamente sente per i propri cari.

(P.M.)

 

[*] Gli autori sono psicoterapeuti analisti reichiani:

Rosanna Basili, Silvana Bragante, Maria Luisa Di Summa, Genovino Ferri, Marcello Mannella, Patrizia Martino, Teresa Mattucci, Antonella Messina, Giorgio Nigosanti, Marina Pompei. www.analisi-reichiana.it

 CORPO, SOCIETA',IDENTITA' SESSUALE

di Marcello Mannella

Alpes Edizioni, 2022

 

Recensione a cura di Piero Paradisi[*]

 

     Il libro di Marcello Mannella è un testo importante. Tratta di temi complessi, per certi aspetti conflittuali, mai banali, ma densi e saturi di significati. I contenuti possono sembrare ostici e pesanti a un lettore superficiale, al contrario, la capacità di scrittura fluida, la ricchezza dei richiami sociologici e filosofici dell’Autore, rendono la lettura piacevole, interessante e scorrevole anche ai non addetti ai lavori.

     Attraverso un approccio culturale di tipo sistemico – complesso si dà voce al corpo come soggetto dell’esperienza sessuale, superando il dualismo mente-corpo che permea la società contemporanea, dove il dibattito tra natura e cultura è sempre attuale. L’Autore muove le mosse storiche sulla sessualità restituendo alla psicanalisi e a Freud il merito di averla sottratta alla biologia positivista, in quanto essa introduce nella discussione sulla costruzione dell’esperienza sessuale, anche istanze di tipo culturale, psicologiche e semantiche oltre a quelle biologiche. L’escursus storico impegna l’Autore nella disamina di argomenti quali la sessualità femminile, l’omosessualità, il genere; una discussione che si è sviluppata a partire dal secondo dopoguerra con l’emergere dei movimenti di liberazione delle donne, i movimenti di contestazione giovanile, i movimenti LGBT.

     Le critiche a Freud da parte di quei movimenti, derivavano dalla costatazione che per la psicanalisi lo sviluppo sessuale, come l’Edipo, si svilupperebbero secondo una linea androcentrica, frutto di una società fondamentalmente fallocentrica, e Freud fu accusato di un sostanziale sessismo.

     Mannella restituisce alla psicanalisi, ma anche alla ricerca etnografica, il merito di aver sottratto alla natura lo sviluppo dell’identità di genere e averla ricondotta a un intreccio complesso tra biologia e cultura. Comunque la costatazione che i movimenti femministi sfociano nella conclusione che il genere fosse frutto esclusivo di influssi culturali, porta a un’ulteriore criticità nella discussione sulla sessualità nella società contemporanea: da un lato la visione meccanicista del corpo come macchina (con il suo corredo di geni, pulsioni, organi e funzioni corporee) e l’altra, opposta, che indica appunto la cultura come l’unico elemento in grado di “imprimere sul corpo tabula rasa” le sue funzioni.

     Il dualismo, per Mannella, è stato superato brillantemente dal contributo fondamentale delle neuroscienze; esse hanno fornito le prove dell’origine corporea della mente, considerata come elemento non disgiunto dal corpo e dall’ambiente, con un suo sviluppo stratificato nel tempo e contemporaneamente nelle strutture cerebrali “sovrapposte” (vedi le teorie di Mc Lean): la mente incarnata e il suo sviluppo bottom up. Per Mannella la mente incarnata non può essere un elemento autoreferenziale, perché è in costante relazione con l’ambiente, il quale con dinamiche di tipo perturbativo, innesca dei meccanismi complessi di trasformazione autopoietica, come indicano anche Maturana e Varela.

     L’importanza di questo concetto è evidente e rivoluzionario: si supera il paradigma evoluzionistico tradizionale, in cui la struttura degli esseri viventi è determinata solo dagli influssi ambientali (secondo modalità adattative). Nel modello sistemico-complesso l’organismo vivente sarebbe capace di scegliere la propria configurazione auto organizzandosi per garantirsi la sopravvivenza. Tale concetto supera così brillantemente il dualismo tra corpo-macchina e corpo-tela.

     La posizione dell'Autore riguardo la sessualità non si discosta allora dal paradigma complesso della teoria dei sistemi, affermando che essa è “una creazione auto poietica che scaturisce dall’accoppiamento strutturale tra il Sé (sistema vivente individuo) e il mondo sociale (ambiente)”. In sostanza l’ambiente è il perturbatore che innesca le modifiche strutturali, ma è il Sé individuo che le dirige e le determina. La sessualità come prodotto auto poietico tra influssi ambientali e Sé non è disgiunta dagli elementi storico sociali della società contemporanea.

     In ambito sociologico Mannella lancia uno sguardo sulla società contemporanea che ha caratteristiche di fluidità e rarefazione nei legami, in cui vengono a disgregarsi o perdere di autorevolezza quegli elementi che graniticamente hanno rappresentato dei dogmi nelle ere pregresse: si pensi alla famiglia nucleare tradizionale, al patriarcato, all’eterosessualità normativa, al ruolo subalterno della donna, alla morale, alla religione. In una società liquida anche la sessualità risente di incertezze e disordine nella sua strutturazione, la quale, ricordiamolo, va di pari passo con il processo di sviluppo della personalità individuale. In una società leggera e incerta come quella contemporanea, anche la sessualità corre il rischio di essere leggera, incerta, reattiva e con posizioni deboli e poco strutturate.Mannella copertina Copertina del libro "Corpo, società, identità sessuale" di M. Mannella Alpes Edizioni, 2022

     Nell’analisi storico culturale della società odierna, Mannella punta il dito sulla crisi del soggetto e di rimando sul costrutto di genere. La soggettività non sarebbe più un’entità stabile e definita dalla natura ontologica dell’individuo, ma un’entità variabile e contingente, ossia anche la soggettività diventerebbe fluida. La conseguenza di queste affermazioni è che il genere si discosterebbe dal dato naturale e sarebbe il prodotto di convenzioni sociali. Ma c’è di più: esiste indubbiamente una relazione tra genere e sesso, ma sarebbe il genere che precede il sesso e non il contrario, venendosi così a superare il binarismo sessuale tradizionale. La convinzione dell’esistenza di un binarismo sessuale fa parte esclusivamente della cultura occidentale, in altre culture il binarismo tout court non esiste e le diversità sono accettate dalla collettività. Cadere nella “trappola del binarismo di genere”, per Mannella, ci impedisce di entrare nella riflessione concettuale contemporanea che sposta le coordinate di osservazione dal dimorfismo sessuale, allo spettro di identità sessuali multiple: queste ultime sfuggono a qualsiasi classificazione semplicistica di maschile o femminile. A questo riguardo Mannella cita quei costrutti scientifici che corroborano le tesi secondo cui nessun individuo è interamente maschio o femmina, ma sarebbe la risultante di una combinazione variabile e individuale di femminilità e mascolinità, derivante da elementi genetici, ormonali, anatomici e cerebrali. Secondo il paradigma del continuismo sessuale non esisterebbe il binarismo sessuale con le sue differenze morfologiche (oppure esse non sarebbero rilevanti), e neanche un binarismo di genere.

     Uscire dalle coordinate del binarismo può essere interpretato come un elemento destabilizzante nella realizzazione dell’identità sessuale, ma Mannella opera una sintesi brillante tra il modello biologista e quello costruttivista. Entrambi i modelli sono inadeguati da soli a determinare il corpo come entità unica e irripetibile; in realtà esso ha la capacità di “in-generarsi” in un’atmosfera di rapporto costruttivo e paritetico tra gli elementi corporei e le sollecitazioni ambientali. La costruzione del Sé e di conseguenza della sessualità avviene secondo un processo bottom up e si compie per fasi lungo una freccia del tempo neghentropica evolutiva a complessità crescente, come ci indica il modello post-Reichiano della SIAR (Società Italiana di Analisi Reichiana). Lo sviluppo della sessualità, che Mannella definisce “costruzione del desiderio d’amore-desiderio sessuale”, avviene anch’essa contemporaneamente alla costruzione del Sé, in un processo di in-corporazione di fase e di livello corporeo.

     Uno sviluppo armonico e la definizione di una sessualità individuale risentirà dunque dei segni incisi di fase di quell’epoca analitica di sviluppo: saltare una fase o attardarsi in essa potrebbe avere dei risvolti sulla sessualità dell’individuo. Mannella fa compiere al lettore un viaggio affascinante attraverso le fasi di sviluppo e indica le peculiarità delle varie fasi e i segni incisi che possono influire sulla costruzione della sessualità.

     La sua posizione  riguardo la sessualità e non solo, è da inscrivere, con elementi critici, nella prospettiva post moderna, ossia il rifiuto della razionalità normativa che ha sinora governato la storia. Secondo tale concezione l’umanità si avvia, nelle sue istanze culturali, politiche e sociali, verso una visione complessa della realtà, con il rifiuto della razionalità forte e normativa, favorendo una “razionalità debole”, attenta alle posizioni delle minoranze e della complessità della realtà. Esiste il pericolo della frammentazione e della dispersione? Certamente sì! Ne è la prova concreta l’affermarsi di una società liquida in cui viene meno anche il senso di un Sé autobiografico stabile. In questa società il Sé è cangiante e pronto a variare in base alle proposte e alle richieste del mercato. Si afferma una crisi psico-pedagogica dei giovani e il superamento di un Super-Io tradizionale, sostituito da attrattori esterni e volatili, ma sempre in relazione alle logiche di mercato. La crisi della società e della famiglia, nelle loro istanze normative, non può che ripercuotersi nello sviluppo caratteriale dei giovani. Dai tratti coatto-fallici della società patriarcale, si passa all’emersione (post moderna) di tratti orali difettuali o peggio a stati di rarefazione borderline.

     La sessualità di oggi rispecchia i tratti caratteriali emergenti, quindi sarà compulsiva, reattiva, provvisoria, con tematiche dominanti di “giusta distanza”, a carattere prestazionale, poco affettiva e oggetto di consumo come le altre merci.  In sostanza la sessualità si trasforma da elemento di liberazione delle masse a elemento di distrazione di massa.

     Questa visione della società post moderna, implica un necessario corollario nell’Autore: la clinica psicoanalitica del genere non può fare a meno di porsi in modo critico alle teorizzazioni circa la così detta “fluidità di genere”. L’Autore dopo aver dunque riconosciuto il valore post-modernista di rottura del genere, secondo me, con qualche istanza all’apparenza contraddittoria, sente la necessità di ascoltare e ristrutturare lo smarrimento di un paziente incerto e confuso circa la sua disforia di genere.

     La risposta clinica non può essere dettata aprioristicamente da approcci validi per tutti, ma occorrerà ascoltare con attenzione le domande del paziente e realizzare un progetto terapeutico condiviso. Mannella richiama il terapeuta a scostarsi da approcci clinici dettati da un’omofobia mascherata o da psicoterapie riparative e manipolatorie sul paziente.

[*] Medico, Psicoterapeuta, Analista Reichiano. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Indirizzo professionale: Via De Benedictis, 59-Teramo