Numero 2/2023

i nuovi padri
L'esperienza della co-genitorialità

Marcello Mannella* 

Anche se può sembrare un mero esercizio accademico, ritengo che, prima di affrontare ogni discorso sulla genitorialità, sia necessario distinguere tra l’essere padri e madri in senso biologico e l’effettivo esercizio della funzione genitoriale, della responsabilità sociale, cioè di aiutare i figli a diventare adulti.

Secondo la sociologa Cadoret, la genitorialità è il sistema che attribuisce dei figli a dei genitori e dei genitori a dei figli […] che combina in modi diversi , a seconda delle epoche e delle culture, tre fattori: l’alleanza, la filiazione, la residenza. (Cadoret, 2008, p.9).

Molteplici resoconti etnologici attestano che le diverse culture umane hanno nel tempo variamente organizzato i rapporti di parentela. In tantissime società – al contrario di quanto accaduto in Occidente in cui ha dominato il modello culturale della sovrapposizione di genitore biologico e genitore sociale – i legami sociali si sono costituiti intorno alla presenza di più padri e più madri per gli stessi figli.

La società occidentale del nostro tempo, del resto, è caratterizzata dalla molteplicità delle forme familiari - famiglie ricomposte, adottive, affidatarie, omogenitoriali - in cui il genitore biologico e il genitore sociale sempre più frequentemente non coincidono.

La genitorialità sarebbe pertanto un costrutto sociale.

Lo spostamento di accento - dalla dimensione biologica a quella sociale - comporta un’importante conseguenza: la genitorialità non può essere concepita, in riferimento all’evento centrale della gravidanza, come un’esperienza connotata soprattutto al femminile.

Tradizionalmente, quando in una coppia si preannuncia la venuta di un figlio, il pensiero e la cura - al di là delle legittime attenzioni - sono esclusivamente rivolte alla futura madre, mentre il padre è immediatamente collocato sullo sfondo in un ruolo secondario.

Ancora, mentre il desiderio di maternità è stato giudicato espressione di un istinto e la capacità di essere madre il manifestarsi di una competenza innata[1], per cui alla madre naturalmente compete il ruolo centrale ed esclusivo di cura della prole, la paternità è invece stata considerata un ruolo acquisito socialmente e la funzione del padre - mancando della spontaneità e della sicurezza dell’istinto - è stata risolta nel ruolo importante ma subordinato di protezione del nido familiare. Il padre solo in un secondo momento - quando il bambino tirato su dalle cure amorevoli della madre diventa capace di relazionarsi in maniera più ampia - emergerebbe dallo sfondo assumendo un ruolo normativo e di guida nel mondo sociale.

Nel passato ai padri, dunque, non veniva richiesto di condividere con la madre la cura della prole, di essere coinvolti emotivamente nel processo pedagogico; essere un buon padre significava in fondo essere dediti alla famiglia garantendone il sostegno economico.

Le cose oggi sono profondamente cambiate.

foto per MannellaFoto di Laura De StrobelIntanto non possiamo parlare del ruolo paterno come qualcosa di omogeneo e normativo. L’esperienza di essere padri è un’esperienza unica, diversa per ogni individuo.

La paternità, poi, è considerata un’esperienza precoce che accade fin dal concepimento e i papà di oggi - sebbene non fisiologicamente incinti - partecipano profondamente all’esperienza della gravidanza e sentono il figlio crescere dentro di sé.

Studi recenti, del resto, attestano che durante i mesi della gestazione anche i padri vivono profondi cambiamenti fisiologici e mentali.

Sul piano ormonale diminuisce la produzione di testosterone e si registra l’aumento di ossitocina, di prolattina ed estradiolo. L’ossitocina è un ormone implicato nei processi di socializzazione, nelle esperienze affettive e di caldo contatto sessuale; la prolattina dispone all’accudimento, mentre la produzione di estradiolo, ricreando nei maschi lo stesso clima ormonale avuto durante la propria gravidanza, favorirebbe il riemergere dei vissuti impliciti di gioia e tenerezza intrauterini e dunque la comunicazione e il contatto fra il padre e il feto. (Arrigoni Ferrari, 2005).

Sul piano mentale scemano la libido e l’aggressività, aumenta l’affettività e il padre si dispone ad un atteggiamento di maggiore sensibilità verso la compagna e alla comunicazione con il futuro nascituro.

Sempre più diffusamente i papà accompagnano le partner alle visite di controllo, abbracciano e parlano al figlio abbracciando e parlando attraverso il pancione della madre, entrano in sala parto vivendo in maniera partecipata l’esperienza della nascita. Le visite ecografiche risultano essere particolarmente importanti, non solo perché permettono al padre - ma anche alla madre - di sostanziare le rappresentazioni mentali del figlio, ma anche perché aiutano la coppia a costruire una rappresentazione mentale condivisa del futuro nascituro.

A riprova del coinvolgimento precoce e profondo dei padri è il malessere di tanti di loro, al punto che si incomincia a parlare di depressione post partum per gli uomini.

Infatti - sebbene per lo più accada nel disconoscimento culturale e sociale e dunque nella solitudine psicologica - anche il padre va incontro ad un processo di profonda ridefinizione del proprio sé. Il suo compito è per alcuni aspetti più difficile di quello della madre, perché solitamente non trova nel rapporto avuto col proprio padre un modello interiorizzato di riferimento e deve fare affidamento a se stesso, alla propria sensibilità e intelligenza, per la costruzione del proprio ruolo genitoriale.

Accanto all’esperienza della gioia, i papà possono vivere un senso di inadeguatezza di fronte alla nuova responsabilità o essere sopraffatti dalla paura che la propria vita - perso il carattere della giovanile spensieratezza - sia ormai costretta a svolgersi intorno all’esclusività del nuovo compito. Ma l’esperienza sicuramente più dolorosa è il senso di esclusione che spesso si trovano a vivere per la tendenza propria di tante madri a stabilire un rapporto esclusivo con il bambino.

La nascita di nuovi modi di vivere la funzione paterna è la conseguenza dei profondi mutamenti sociali e culturali avvenuti a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. Diversamente che nel passato, nella maggior parte dei casi entrambi i genitori lavorano e le incombenze del vivere quotidiano e quelle della cura della prole sono state progressivamente distribuite. La rivoluzione culturale e le rivendicazioni del movimento femminista degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, hanno poi fatto sì che i ruoli di genere abbiano perso ogni rigida definizione e che gli stessi compiti genitoriali siano il frutto di una negoziazione fra i partner, oppure assunti in base alle diverse attitudini psicologiche[2].

La dicotomia e l’esclusività dei ruoli - la madre accudisce e il padre si occupa del sostentamento materiale della famiglia e, nel migliore dei casi, subentra successivamente nella relazione pedagogica - sono oggi definitivamente superate e i genitori si pongono su un piano paritario, occupandosi congiuntamente di tutte le incombenze - di cura, pedagogiche, lavorative, sociali - della famiglia.

È tempo pertanto di smettere di porre l’accento esclusivamente sul fenomeno della crisi della paternità. Se è vero, infatti, che il venir meno del tradizionale ruolo paterno ha comportato da una parte l’accentuazione del carattere periferico e decentrato della figura del padre, capace di relazionarsi ai figli esclusivamente attraverso un atteggiamento ludico, e dall’altra l’affermazione della realtà dei mammi, dei padri cioè che hanno risposto alla crisi della tradizionale figura paterna attraverso l’assunzione della funzione tradizionalmente materna è però, nello stesso tempo, doveroso registrare la nascita di un nuovo tipo di padre, responsabile, affettivamente e fisicamente presente fin dal concepimento.

Il fenomeno epocale dei nuovi padri - espressione della rivoluzione nei rapporti fra i generi - ha contribuito alla ridefinizione dell’esperienza della genitorialità.

In passato gli studi sull’infanzia e sulla genitorialità hanno enfatizzato soprattutto una psicologia fra due persone, concentrando la propria attenzione sulla relazione fra madre e bambino; recentemente l’interesse è stato spostato su una psicologia fra tre persone, orientata all’esplorazione delle interazioni fra madre, padre e bambino. (Ammaniti, Gallese, 2014, p.109).

A differenza, dunque, che nel passato in cui si pensava che un sano sviluppo evolutivo si fondasse innanzitutto sulla diade madre-bambino, oggi si giudica fondamentale allargare lo spazio relazionale e si pone l’accento soprattutto alla collaborazione co-genitoriale[3]. I bambini, infatti risentono positivamente non solo del rapporto col singolo genitore o dell’atmosfera familiare, ma risultano molto sensibili alla qualità dei comportamenti co-genitoriali, anche in presenza di dinamiche coniugali conflittuali.

La co-genitorialità si fonda su un progetto educativo condiviso; è l’impegno dei genitori nei confronti del bambino all’interno del contesto familiare, e riguarda non solo la cura del bambino ma anche le rappresentazioni mentali condivise dai genitori e quelle che riguardano il partner nel suo ruolo di genitore. La co-genitorialità, quindi, è un processo bidirezionale - potremmo dire interattivo e intersoggettivo - in cui le azioni di un partner influenzano e sono influenzate da quelle dell’altro. (Ammaniti, Gallese, 2014, p. 111).

La definizione di un comportamento co-genitoriale non accade spontaneamente, ma è un processo che ha nell’impegno al dialogo e nell’accettazione dell’altro i suoi presupposti. Un comportamento co-genitoriale positivo dovrebbe fondarsi sul lasciar essere l’altro genitore se stesso, nella convinzione che la diversità degli stili genitoriali sia motivo di arricchimento per il figlio. Tale atteggiamento, per produrre fino in fondo i suoi effetti benefici, deve trasparire dai gesti, dalle emozioni e dai pensieri dei partner ed essere empaticamente comunicato al figlio.

I bambini, per parte loro, pur sviluppando un legame di attaccamento centrale - che generalmente si realizza nel legame con la madre[4] - sono precocemente in grado (fra i tre e i sei mesi) di prendere parte ad una comunicazione triadica. L’uso dello sguardo, dei gesti, delle vocalizzazioni e un’attitudine alla comunicazione che si evidenzia, ad esempio, attraverso l’utilizzo di regole come l’alternanza dei turni nel dialogo - gli consentono di entrare in relazione in maniera efficace e denota la presenza di una serie di competenze sociali innate. (Materazzo, Zammuner, 2009).

La scelta della co-genitorialità è una delle sfide più delicate. Caduti gli stereotipi di ruolo, stabilita la pariteticità delle funzioni materna (funzione di accudimento) e paterna (funzione normativa), e, in qualche modo e misura, la possibilità di esser proposte da entrambi i partner, riconosciuta per il bambino la necessità del rapporto con entrambi i genitori, il comportamento co-genitoriale è proprio dei partner che, in coppia o no, psicologicamente maturi ed eticamente responsabili, sono capaci di mettere da parte le problematiche interpersonali o relazionali di coppia, concentrandosi sui bisogni evolutivi del bambino.

 


[1] Uno studio ha evidenziato che, "durante la gravidanza, non esiste una correlazione tra gli ormoni materni e la propensione materna, soprattutto in relazione ai sentimenti di attaccamento al feto. Solo i sentimenti di attaccamento materno nel post-partum sono risultati correlati agli ormoni gravidici. Sulla base di questi risultati si potrebbe ipotizzare che i cambiamenti nell’attitudine materna durante la gravidanza possono essere spiegati dai cambiamenti nel funzionamento emozionale e cognitivo, più che dalle trasformazioni ormonali. Questi dati sottolineano una differenza tra la crescita della responsività materna negli esseri umani rispetto a quella di altri animali, che appare invece fortemente condizionata dalla componente ormonale". (Ammanniti, Gallese, 2014, p. 85).

[2] Un partner si sentirà maggiormente portato ad assumere la funzione di normatività e supporto (la tradizionale funzione paterna), l’altro si sentirà predisposto verso il compito del prendersi cura, di caregiver (la tradizionale funzione materna), oppure le diverse funzioni potranno essere proposte indifferentemente da entrambi a seconda della situazione e del contesto. Questa nuova realtà è palesemente evidente nelle cosiddette famiglie arcobaleno in cui le tradizionali funzioni materna e paterna – giudicate entrambe necessarie al sano sviluppo evolutivo del piccolo – risultano svincolate da ogni riferimento al sesso e al genere.

[3] Sconosciuto soltanto fino a qualche anno fa, il termine co-genitorialità in senso specifico è l’impegno di due (o più) persone, non necessariamente in relazione di coppia, ad educare congiuntamente dei figli. Questa situazione ha riguardato originariamente le coppie di coniugi divorziati o le coppie in cui uno o entrambi i genitori sono LGBT.

[4] Per madre si intende chiunque svolga la funzione di madre psicologica o caregiver, cioè chiunque, indipendentemente dal sesso o dal genere, si prenda stabilmente, anche se non esclusivamente, cura del piccolo.


 
Bibliografia
  • Cadoret, A. (2008), Genitori come gli altri – Omosessualità e genitorialità. Milano: Feltrinelli.
  • Ammaniti, M., Gallese, V. (2014), La nascita della intersoggettività. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Arrigoni Ferrari, G. (2005), La comunicazione e il dialogo dei nove mesi. Roma: Edizioni mediterranee.
  • Materazzo, O, Zammuner, V. L. (a cura di) (2009), La regolazione emotiva. Bologna: Il Mulino.

* Psicologo, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R.

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