Numero 2/2023

PARASITE

Regia di BoonJoon-ho

Corea, 2019

A cura di Luisa Barbato [*] 

 

     Parasite è il film dell’affermato regista coreano BoonJoon-ho che ha vinto la Palma d’oro al festival di Cannes 2019.

     C’è una storia all’apparenza banale: due famiglie della moderna Seul. La prima, poverissima, è quella dei Ki-taek, che vive in un seminterrato dei bassifondi della città, con alle spalle una lunga storia di fallimenti e di espedienti per sopravvivere, che ambisce ad una vita normale da ottenere a tutti i costi. La seconda, è quella dei Park, che rappresenta il modello della famiglia urbana borghese e ricca, in cui tutti sono belli e politically correct. Ma i Park sono anche ingenui e i Ki-taek riescono, con l’astuzia, ad ingannarli e manipolarli al fine di farsi assumere al loro servizio, fingendo di non conoscersi tra loro. Quindi, a forza di colpi bassi, tutti i Ki-Taek vengono impiegati rispettivamente come governante, autista del capofamiglia e insegnanti dei due figli di casa. Finalmente mangiano a volontà e vivono comodamente, sarebbe una pacchia, se non fosse che l’inaspettato, come sempre nascosto dietro l’angolo, li colpirà. Perché la precedente governante (di lungo corso) ha un segreto nascosto proprio nella splendida villa. Quindi due famiglie, due volti della Corea del Sud, dove il modello dell’occidente capitalista viene applicato, come in molte delle economie emergenti, in maniera estrema.

     Parallelamente alle differenze di classi sociali, lo spazio assume nel film un ruolo allo stesso tempo realistico e simbolico, incarnato dalle case, i luoghi dove le famiglie vivono. Per la prima famiglia si tratta di un seminterrato squallido, dagli spazi stretti e angusti, tra le cui quattro mura i Ki-taek si dimenano alla ricerca di un segnale wi-fi senza password, illuminato da una finestra stretta e lunga che dà su un vicolo usato dagli ubriachi per urinare. Per la seconda famiglia, abbiamo invece una lussuosa villa progettata da un famoso architetto, con un’enorme vetrata sul giardino. Questa villa è la chiave di volta di tutto il film e la sua importanza è tale che il regista ha preferito non usare una villa esistente, ma farne progettare una apposta con l’aiuto dello sceneggiatore Han Ji-Won e di alcuni architetti. Si è trattato di un lavoro complesso che ha prodotto una villa dalle linee pure e geometriche, che sembrano disegnate da Frank Lloyd Wright, in realtà essenziali alle esigenze della regia, ma al tempo stesso molto articolata tra i piani nobili, dal primo in su, dove stanno i ricchi, e lo scantinato dove stanno i poveri, i reietti della società. Ed è proprio questa articolazione della villa tra il fuori e il dentro, la ricchezza e la povertà, la luce e l’ombra che costituisce la metafora principale di tutto il film.

     Il pregio maggiore di questo film sta infatti nei diversi registri sui cui si alterna continuamente. Il primo è il genere: commedia, drammatico, catastrofico, psycho-thriller che si susseguono in maniera disinvolta, senza creare particolari strappi o incongruenze.

     Il secondo è la riflessione sociale, una visione amara e disincantata dei moderni capitalismi, in cui le differenze sociali sono drammatiche e per questo la lotta di classe rimane un sottofondo più vivo che mai. Si tratta di una lotta di classe moderna, senza slogan, bandiere, ideologie, operai, picchetti, ma proprio per questo più sotterranea e crudele.

IMG PARASITE OKLocandina del film "Parasite"     L’odio di classe non esiste più, ingoiato dall’omologazione dei moderni capitalismi? Esiste, eccome, sembra suggerirci il film, i poveri hanno un odore insopportabile che i ricchi subito riconoscono; i poveri disprezzano profondamente, ma allo stesso tempo invidiano, la vanità, la superficialità e l’egoismo dei ricchi. In questa dissimulata convivenza, alla fine l’odio non può che esplodere e nessuno è buono o cattivo in assoluto, non siamo in un film americano, e tutti hanno qualcosa da perdere.

     Alla fine, tuttavia, la logica capitalistica trionfa sempre, e in questo assetto sociale malato l’unico sogno di evoluzione e di redenzione passa attraverso i soldi. Il giovane figlio Ki-taek sogna di liberare il padre e tutta la famiglia dalla loro condizione tramite un’immaginaria ricchezza che simbolicamente fa affiorare il padre da uno scantinato alla bellezza del giardino.

     Esiste però anche un livello più sottile di lettura del film che ci riguarda direttamente ed è quello dell’evoluzione interiore. Questo livello è tutto giocato simbolicamente. La ricchezza e l'eleganza della facciata, della vita dei ricchi, cela dei mostri che sono rinchiusi nel profondo, nei sottoscala. Questi mostri sono pieni di rabbia, di emarginazione e non aspettano altro che di uscire, di salire ai piani alti per rivendicare, finalmente, i loro diritti, anche a costo della violenza. Tutto ciò che non viene riconosciuto e accolto, ma rimosso, prima o poi emerge e reclama disastrosamente il proprio diritto. In queste vite stereotipate, annegate nel benessere economico, i mostri dell’inconscio prima o poi reclamano la loro parte, la violenza si annida ed esplode. Abbiamo l’illusione, tramite il potere economico, di padroneggiare delle forze che in realtà devono essere riconosciute ed accolte per non diventare distruttive.        Questo è vero a livello personale, a livello sociale come scontro di classi e a livello mondiale come scontro tra paesi, sembrerebbe suggerire il film. La vicenda personale è infatti sempre contestualizzata nella situazione più generale di una Corea, possiamo dire specchio di un mondo profondamente ammalato.

     Questo risultato così complesso, che ha fatto considerare da molti il film come un capolavoro, è il frutto non solo di una sceneggiatura senza buchi, di grande stile formale, ma soprattutto di come il film è girato. Il tutto viene raccontato non solo con bellissime ed esplicative riprese in campo lungo, ma soprattutto tramite la dialettica, tipica di BongJoon-ho, tra primo piano e sfondo. Questo stile è tale per cui le informazioni non vengono raccolte dallo spettatore solo da ciò che accade in primo piano, ma soprattutto dall’interazione tra il primo piano e il secondo piano, tra le due persone che parlano e le altre due che nello sfondo stanno facendo qualcos’altro, qualcosa di fondamentale. È un modo di girare complesso, molto basato sulle immagini, così come il vero cinema dovrebbe sempre essere, dove lo spettatore interagisce soprattutto con le immagini per carpire il senso e l’emozione di quello che avviene, e solo secondariamente con i dialoghi. Abbiamo la presunzione di dire che è dalla dialettica delle immagini che il cinema può arrivare al cuore dello spettatore, alle sue emozioni più profonde, e solo questo è il grande cinema.

 

  

[*] Psicologa, Psicoterapeuta, Analista Reichiana

 

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