Van Gogh: sulla soglia dell'eternità

diretto da J. Schnabel

Francia, USA 2018

A cura di G. Bertotto[*]

 

     Il film di J. Schnabel è un viaggio contemplativo negli ultimi anni del tormentato artista olandese, incompreso nella sua vita terrena, ma capace di segnare una svolta nella storia dell'arte del post-impressionismo.

     Vediamo il protagonista fare piroette e stendersi tra le vivide canne di un fiume e tra le spighe di grano che scintilla di sole, estasiato nell'incanto della mescolanza di tutte le cose, e d'improvviso afflitto dal distacco: Van Gogh sembra non riuscire a sopportare le più comuni e momentanee separazioni, regredendo a una condizione infantile di attaccamento drammaticamente insicuro. Van Gogh sente la relazione ontologica (e non solo eco-logica o bio-logica) di tutte le cose, la connessione metafisica e al tempo stesso sensuale di tutti gli organismi e i campi pulsanti di energia. E non tollera invece le separazioni: quella dall'amico Paul Gauguin e dal fratello Theodorus. Ogni separazione è per lui un dolore lancinante, uno strappo inconsolabile a cui non trova ragione, un'eco energetica che ripropone spietatamente il suo lutto originario.

     Vincent, infatti, conobbe energeticamente la morte, prima di nascere.

     La mamma, Anna Cornelia Carbentus, lo diede alla luce il 30 marzo del 1853. Esattamente lo stesso giorno dell'anno precedente, aveva partorito un bambino morto, e chiamò Vincent con lo stesso nome di quel bimbo mai nato davvero. Molti psicologi hanno ravvisato in questa nascita mortifera l'origine della disperazione radicale dell'artista.

     Vincent nacque in qualche modo già fantasma di se stesso, ricevette l'amore carico di lutto e senso di disfatta di una mamma che dà alla vita una creatura morta, di una mamma che non è riuscita nella propria metamorfosi di divenire madre. Ecco il paradosso energetico-uterino e cosmico di Van Gogh.

     Ecco perché dichiarerà «la tristezza durerà per sempre».

     Il pittore venne apprezzato e riconosciuto solo dopo la sua morte; quindi anche nel campo professionale-pubblico ha sempre iniziato a vivere dopo la morte di sé stesso.

     È nato due volte, da una memoria uterina spettrale e da un probabile suicidio, per compiere la propria identità personale e di artista. L'arte è sempre aspirazione all'immortalità, come lo è la riproduzione filiale. Vincent è stato figlio di un lutto ma padre di quasi novecento dipinti, mille disegni, e tanti altri schizzi incompleti.

imagesImmagine tratta dal film "Van Gogh - Sulla soglia dell' eternità"

     Le pennellate frenetiche, le dita convulse, la mano rapita in uno stato febbrile, nel film vediamo che lo stesso Gauguin non era pronto a capire la sovrabbondanza di colore, lo spessore materico dei paesaggi e degli elementi naturali che si sollevano dalle tele polpose del suo collega. Il post-impressionista francese lo invitava a una rivoluzione artistica che il suo amico stava già realizzando come esigenza energetica e tentativo espressivo-salvifico di sé.

     Van Gogh aveva fondato un genere artistico e pittorico assolutamente unico e non dipingeva paesaggi o nature morte, ma la vita energetica che vibra dalla materia, quell'orgone che si condensa e organizza in forme di corteccia, fili d'erba, polvere di terra.

     Dipinti morbidi e languidi come “Ramo di mandorlo fiorito”, il flessuoso “Iris” indaco e verde , l'iconica e carnosa “I girasoli”, gli astri tremanti di “Notte stellata sul rodano”, esplodono di quell'energia sinuosa che l'uomo percepisce: «Vedo ovunque nella natura, ad esempio negli alberi, capacità d'espressione e, per così dire, un'anima». E quest'anima universale lo invade, lo inebria e soffoca, sente lo strazio e la gioia di tutti gli esseri e le sostanze delle campagne, delle mura gialle della sua stanza e di “Un paio di scarpe”, perfino.

     Nel dialogo con il sacerdote chiamato a decidere per la sua dimissione dall'ospedale psichiatrico, Van Gogh mostra di avere un forte senso spirituale, una irriducibile fiducia nel proprio talento in quanto Dio non avrebbe mai permesso una dote inutile, non avrebbe mai dato una tale urgenza creativa senza una funzione nella storia umana. Vincent mostra un alto concetto di Dio come scriveva Agostino d'Ippona. Un'idea del divino che non si ridicolizza in un antropomorfismo autoritario ma trova un senso alla sua necessità pittorica e anche all'incomprensione della sua arte, accettando che forse sta dipingendo per qualcuno che verrà, per uomini del futuro. È così che questo artista concepisce nel divino la razionale provvidenza senza la quale l'esistenza non si sarebbe neppure data.

     Eppure il protagonista è anche profondamente scisso, la scissione di Vincent sembra trovare nello scompenso psichico un'ultima risposta a quella schizofrenia mistico-meccanicistica in cui si è organizzata la società.

     Scrive Reich “il punto di vista meccanicistico-materialistico non fu in grado di includere la vita umana emotiva e così i dogmi mistici e spirituali colmarono le lacune. Qui, come è ben noto, lo spirito, l'anima, quel qualcosa entro l'uomo che sente e piange e ride e ama e odia sembra essere collegato con uno spirito universale immateriale; esso rappresentava in termini più o meno chiari il legame dell'uomo con il creatore dell'universo, con Dio. In tal modo meccanica e spiritualismo s'integravano a vicenda, senza un ponte tra i due regni. Avevamo di conseguenza una scienza della natura fisica e una scienza della condotta morale o etica”. Quando l'artista dipingeva, percepiva quel “ponte”, eliminava lo scarto tra mistico e meccanico, tra ragione e pulsione, si manifestava radicato nella propria integrità pulsante.

     Da quella forza naturale e al contempo soprannaturale si plasmano fiori, si impennano alberi, si srotola un cielo magico ma non patinato in “notte stellata”. Van Gogh non si è ucciso per carenza di vitalità o scarsa ricezione agli stimoli, ma perché la vita lo attraversava senza filtri, e colarla sulla tela era l'unico canale psichico ed emotivo-energetico per trovare un'omeostasi esistenziale.

     Finché non si è tolto la vita.

     Ma Van Gogh, vorrei dire, non si è tolto la vita, ha trovato il suo personalissimo modo di sopportare la vita e trattenere le bellezze evanescenti, la tragedia soffocante del morire di tutte le cose, nell'immortalità della condivisione artistica.

[*] Dottoressa in Filosofia

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