QUALE SPAZIO QUALE TEMPO - Ricerche per una grammatica dell’abitarsi

WHICH SPACE WHICH TIME

 

Loredana Sucato* Antonella Messina**


 

 

Abstract 

     L’articolo pone domande sul rapporto tra essere umano e tecnologia. Viene indagata se e come cambia la relazione tra persone quando gli incontri avvengono su social ed app. Si pongono delle questioni sul come la malattia del corona virus abbia modificato le relazioni on line.

 

Parole chiave

     Tempo – Consapevolezza corporea - Utilizzo delle tecnologie – La voce come emblema di chi parla

 

Abstract 

     The article asks questions about the relationship between human being and technology. It is investigated whether and how the relationship between people changes when the meetings take place on social and apps. Some questions on how coronavirus disease (Covid 19) has changed the online relationships.

 

Key words

     Time - Body awareness - Use of technologies – The voice emblem of the speaker

 

     Da anni le scienze umanistiche pongono riflessioni e interrogativi in merito al tema di una società in accelerazione i cui ritmi del corpo, nello spazio e nel tempo, sono sollecitati ad essere sempre più veloci.

     Anni fa, all’interno degli studi (Messina, Sucato, 1/2019) sulla Sofferenza Urbana[1] tra tutte le domande ne aleggiava una: perché la frase più diffusa al giorno d’oggi è non ho tempo? Appariva urgente interrogarsi sulle origini e sugli effetti che un ritmo di vita, così accelerato, potesse avere avuto sul tempo della connessione sentire-pensare. Le ipotesi di un disagio specifico, relativo al contemporaneo stile di vita, erano supportate, dai racconti di persone che narravano di malesseri e disagi connessi all’inseguire ritmi di vita veloci. Costoro raccontavano di non avere tempo, di arrivare a sera senza sapere dove esso fosse finito e di sentire una coazione a riempire il tempo. Il fare tante cose dava la dimensione di un tempo ben investito in termini di efficienza e di un tempo rubato, se valutato rispetto a consapevolezza, relazionalità e nutrimento personale.

     Apparve un paradossale iato: per un verso il ritenersi padroni del tempo delle lancette, ovvero svolgere quanto programmato, per un altro verso perdere il sapore del tempo ed avere la sensazione di non avere fatto nulla di importante e profondo. La domanda iniziale del non avere tempo divenne via via più puntuale: quale tempo non abbiamo? Accantoniamo sonno, respiro, desiderio, relazioni, appartenenti al tempo interno (Ferri, 2012) e nel mentre assopiamo le modalità che questo richiede, dimentichiamo il tempo e lo spazio dello stare con noi stessi, oscilliamo tra il polo dell’accelerazione performante e quello del vacuo premuscolare non fare inteso come noia. Quando il tempo vorace della produttività è momentaneamente pago, il tempo dedicato al percepirsi, all’abitare la propria consapevolezza, risulta inopportuno, vuoto, sconosciuto, posticcio, poiché, nel frattempo, si è infeltrito il nostro rapporto con esso.

     Facciamo questo excursus storico delle ricerche, perché mentre lavoriamo alla stesura definitiva del presente articolo, il mondo è stato travolto dall’emergenza Covid-19. Questa realtà ci ha posto di fronte alla necessità di riconoscere che, rispetto al rapporto tra tempo ed accelerazione, tale pandemia segna un punto di  osservazione, di delimitazione, di conversione[2] delle nostre abitudini, dei nostri modi di pensare, delle nostre certezze quotidiane e delle fenomenologie che segnano l’interazione tra individuo, tempo e società. L’essere umano che aveva accettato di valutare la qualità del proprio esistere, basandosi sulla quantità di azioni compiute, si ritrova a dover fare accelerando azioni e connessioni virtuali dentro casa. L’accelerazione osservata nel paradigma della sofferenza urbana (Messina, Sucato, n°1/2018), si manifesta, durante questi giorni, perché ne sentiamo l’impossibile attuazione: non possiamo più correre fuori. Il tempo esterno, del fare, è stato ridotto, in alcuni casi fermato e, come per il principio di inerzia che ci fa rimbalzare in avanti in auto, se la frenata è brusca, bisogna comunicare al corpo che l’auto è stata rallentata.img sucatoMorning Sun E. Hopper

     La copresenza di connessioni virtuali e incontri reali del mondo ante-corona virus, avevano già posto il tema di un’accelerazione che negava al corpo ritmi sostenibili (Sucato, Messina, 2017); il corpo, rimasto inascoltato, era a tratti divenuto un accessorio da portarsi dietro per realizzare i comandamenti di una società veloce; adesso, però, nel momento in cui è conclamata e reale l’impossibilità del contatto corporeo, il corpo diviene l’assente invocato e convocato. Ci si accorge che il corpo manca, si asserisce che c’è nostalgia del contatto, si discute di abbracci e si dialoga di strette di mano e intimità negate. Già prima della pandemia, il corpo rischiava sommessamente una trasparente trascuratezza, costretto dentro prestazioni di funzionanti meccaniche. Ora, ridotti gli spazi del fuori, i ritmi accelerati della nostra vita rischiano di riprodursi all’interno delle nostre case. In un piccolo spazio, nella nostra abitazione, costretti a rimanervi da disposizioni ministeriali insindacabili, possiamo anche scegliere di muoverci ancora più in fretta, riempiendo il nostro tempo con una quantità di cose che ci fanno giungere a fine giornata stremati.

      Aperitivi on line, corsi di fitness, yoga, lezioni di inglese, partite a carte, pranzi e cene online, riunioni condominiali, sono affastellati dentro lo schermo. Lo spazio dell’intimità privata continua a ridursi, inglobato anche dallo smart working (lavoro agile da casa) all’interno del quale lo spazio dell’ufficio con le sue regole e i suoi ritmi, assimila lo spazio della nostra casa.

     La pandemia ha offerto l’opportunità al genere umano di incontrare la propria umanità, fuori dal fare estraniante meccanico e ripetitivo. Rimane da affrontare il trauma che proviene dall’abitare con noi stessi, rimasti senza nulla da fare che ci rappresenti davvero, reduci da una lunga non frequentazione del nostro sentire.

     Cosa può accadere all’essere umano nel momento in cui viene posto nelle condizioni di non poter più mettere in atto i rituali accelerati e rassicuranti dello shopping, degli incontri mondani, del lavoro fuori ufficio, degli apericena, delle pizze, del teatro, dei cinema, della palestra, dei centri benessere?

     Ipotizziamo che si stiano ponendo all’umano domande scarne ed essenziali. Siamo presenti a noi stessi? Quale spazio e quale tempo abitiamo?

     Abbiamo registrato da media e soggetti singoli, differenti modalità di non abitare lo spazio ed il tempo del proprio corpo, durante l’allarme di una pandemia. In alcuni casi è stata applicata la nota e già praticata procedura di accelerazione e straniamento da sé: fare tante cose e continuare a non abitare il proprio esistere. Si dice molto della potenza del virus e poco delle forze anche immunitarie dell’umano. Le fantasie che vengono proiettate parlano di un umano che subisce un esterno più o meno minaccioso. Si discute con toni di:

  • cospirazione (“Il virus di laboratorio è sfuggito al controllo degli scienziati”. “Ci impianteranno un microcip per controllarci tutti”);
  • romanticismo sentimentale (“Dopo tutto questo saremo tutti più uniti in una catena di abbraccio universale”);
  • psicoterapia omologata e somministrata in forma collettiva (“Dopo dovremo andare tutti in psicoterapia per sindrome post traumatica da stress”);
  • pseudo-religione (“Come faremo a salvarci se le chiese non aprono?”);
  • ambientalismo al netto della relazione di sofferenza dell’umano e della complessità geografica (“Ogni male non vien per nuocere! Meno inquinamento consente agli animaletti di scorazzare per le nostre città ... che bello!!!);
  • tecnologia provvidenziale (“Stiamo imparando tutti nuove modalità di contatto, anche gli anziani”).

     Un minuscolo, insignificante organismo invisibile agli occhi, codificabile tramite app, intralcia e modifica, senza avere ricevuto il consenso, le nostre vite immunodepresse. Pochi sui media gli sguardi critici che pongono interrogativi sulle forze immunitarie dell’essere umano.

     In alcuni stati pare sia stato ridotto il contagio tramite l’utilizzo di una app. Possiamo certo affermare che se uno strumento salva delle vite costituisce un buon supporto, ma ciò non può mettere a tacere le conseguenze che sottendono all’affidare le distanze, le prossemiche e gli incontri, allo schermo valutante di una app che trasformerà l’altro in un’immagine di contagio o di scampato pericolo.

     Possiamo delegare a spazi dell’altrove, virtuali e connessi, le negoziazioni delle distanze relazionali? Quali costi e quali benefici di consapevolezza nell’affidare ad un dispositivo la nostra convivenza con la minaccia di contagio o con l’angoscia di morte? Nonostante gli aperitivi online, palestra su youtube ecc., qualcosa non sta funzionando, ci scopriamo insoddisfatti, alla ricerca di incontri reali. È cambiata in alcuni casi la delega ai social: non più l’evasione ma l’incontro, non più una seconda vita immaginata ma un supporto per la vita presente.

     Fuori da schematismi rigidi e da pregiudizi, ci pare che permangano delle domande, valide anche in tempi non pandemici, sul senso dell’intercorporeità. Possiamo essere presenti all’altro da dentro uno schermo? Come possiamo abitare una relazione fatta di immagini? Come può la voce portare la presenza?

 

[1] Si intende per Sofferenza urbana, l’insieme delle dinamiche psicologiche e sociali che si creano tra le grandi metropoli e i soggetti che le abitano. Per approfondimenti A. Bonomi, E. Borgna (2011), Elogio della depressione. Einaudi: Torino.

[2]   Il vocabolario Treccani  riporta per conversione “Rivolgimento, movimento di un corpo nello spazio intorno a un altro corpo; azione che fa cambiare la natura di qualcosa; cambiamento di stato, di condizione; mutamento radicale in materia di fede, ideologia e sim. che generalm. comporta un mutamento di condotta.

  
Bibliografia

Bauman, Z. (1999), Modernità liquida. Bari: Laterza.

Bonomi, A., Borgna E. (2011),  Elogio della depressione. Torino: Einaudi.

Byung-Chul, Han (2012), La società della stanchezza. Torino: Edizioni Nottetempo.

Ferri, G. (2005), Chi mi ha rubato le lancette? in Liberazione, 6 Marzo.  

Ferri, G.(2020), Tempo 0. 2020: il  Tempo del limite. In www.anaisi-reichiana.it. Messina A., Sucato L., Nuove intelligenze e stati di sofferenza urbana, in rivista di Psicoterapia Analitica Reichiana, Rivista Semestrale della Società Italiana Analisi Reichiana , n.1/19, 2019, Roma.

Messina A., Sucato L., Processi di  sofferenza urbana, in rivista di Psicoterapia Analitica Reichiana, Rivista Semestrale della Società Italiana Analisi Reichiana, n.1/2018, Roma.

Sucato, L., Messina, A. (2017), Sofferenza urbana ed ambito d’azione. in Quotidiano Sanità Sicilia, 14 Luglio 2017.

Sucato, L., Messina, A. (2019), Processi di Sofferenza Urbana. Spazio e tempo in un’epoca in corsa. Catania: Malcord Edizioni.

 

*Responsabile U.O. Servizio Sociale Professionale ASP di Catania-Coordinatore Agorà - Centro per la Prevenzione per le malattie della povertà e dell’immigrazione - ASP 3. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.Studio professionale: Via S. Maria La Grande, 5. 95124 Catania. 

**dottore in Filosofia, Psicologa, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R., Formatrice per i processi interculturali, si occupa di etnopsicoterapia. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Studio professionale: Via Cuturi, 8. Catania.

                                                                                 

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