Numero 2/2012
LA BAS - GUIDO LOMBARDI - 2012
IO SONO LI - ANDREA SEGRE - 2012
IMMIGRAZIONE NON FA RIMA CON ACCETTAZIONE
Luisa Barbato*
“Immigrazione non fa rima con accettazione”, è questa una delle frasi più significative che si legge sul web a proposito del film Là-Bas, opera prima di Guido Lombardi, giovane regista che si cimenta sul tema dell’integrazione sociale degli immigrati africani. Degli stranieri che vengono in Italia a cercare fortuna parla anche il film di un altro esordiente, Andrea Segre, che invece narra la storia di una giovane immigrata cinese.
Due diverse comunità, quella africana e quella cinese, così distanti tra di loro, non solo per l’appartenenza culturale, ma anche per la diversa sedimentazione storica dell’arrivo nel nostro Paese, ma un tema comune che colpisce il cuore prima ancora della ragione. E’ possibile che queste persone così diverse da noi, questi migranti verso una nuova vita che forse non verrà mai, abbiano qualche possibilità di integrarsi, costruire con noi un futuro migliore, essere considerati delle persone, prima ancora che forza lavoro?
La riflessione tocca vari aspetti: sociale, economico, culturale e, ovviamente, psicologico, così la Federazione Italiana delle Società di Psicoterapia (FIAP) ha deciso quest’anno di dedicare un convegno all’argomento, con il titolo “La psicoterapia nel Villaggio Globale”, che si terrà a Roma dal 9 all’11 novembre.
Osserviamo quindi i due film come rappresentazioni metaforiche di questi molti aspetti, come incarnazioni cinematografiche di realtà che ci passano accanto tutti i giorni, anche se spesso non ce ne accorgiamo.
Il protagonista di “Là Bas” – in francese, ma anche in napoletano, Laggiù – è Yssouf (Kader Alassane), un giovane senegalese con aspirazioni artistiche che arriva in Italia e inizialmente trova ospitalità presso una comunità di immigrati africani che vive a Castelvolturno, località balneare a circa 30 km dal capoluogo campano. Yssouf ritrova ben presto suo zio Moses che si rivela essere un potente boss del traffico di cocaina locale e che lo convince, seppur recalcitrante, a lavorare con lui nello spaccio di droga Il film si ispira a un episodio criminale avvenuto nel settembre 2008 a Castelvolturno, in cui il Clan dei Casalesi uccise sei giovani clandestini in una sartoria, come atto deliberato di violenza razziale e di affermazione del controllo del traffico di droga sul territorio. Il sottotitolo del film recita “educazione criminale”, ad indicare il taglio da action movie che il regista vuole dare al film, ma allo stesso tempo l’avviamento al crimine che è quasi una strada obbligata per chi vive ai margini della società, è sfruttato e stritolato da meccanismi ai quali non ci si può opporre. Dopo un apprendistato come trafficante di cocaina al seguito dello zio, Yssouf diverrà spettatore involontario della strage di Castelvolturno e infine ritroverà la propria dignità e onestà tramite la solidarietà della comunità africana che sceglie nuovamente di accoglierlo, offrendogli l’unica vera integrazione possibile.
Tra le tante riflessioni che il film stimola, anche visive, vi è lo sguardo dilatato sulla cittadina campana nella quale il regista e la troupe hanno passato un lungo periodo cercando di capire il tessuto sociale di un luogo che, da meta di vacanze marine, è diventata in pochi decenni una città africana. A Castelvolturno la maggior parte della popolazione è di colore e immigrata, l’architettura è quasi spettrale, oscillando tra antichi fasti turistici e degrado metropolitano, e ci si chiede come sia possibile una realtà di questo genere a pochi passi da Napoli. Il degrado non è solo architettonico, ma soprattutto sociale perché, come ha dichiarato il regista: “non c’è un lavoro vero per i clandestini, l’unica alternativa è tra lo sfruttamento e il crimine”.
Tutto questo viene presentato con un buon ritmo narrativo e senza alcun moralismo, sempre alla porta quando si parla di integrazione razziale. Nel film non ci si lava i panni sporchi della cattiva coscienza, non si cerca una redenzione, ma piuttosto si osserva con uno sguardo comprensivo e accettante cosa accade tutti i giorni ai margini delle nostre città, delle nostre campagne e dei nostri impianti produttivi.
Il film presenta poi alcune felici scelte stilistiche, dovute probabilmente anche al budget contenuto, che ne rafforzano l’incisività narrativa, come la decisione di mantenere le lingue originali parlate dagli immigrati – soprattutto francese e inglese – e la presenza prevalente di attori presi dalla strada che si rivelano perfetti nei loro difficili ruoli.
E’ così che il film, in concorso alla Settimana della Critica di Venezia 2011, è stato insignito del Leone del Futuro - Premio Opera Prima “Luigi De Laurentiis”.
La protagonista di “Io sono Li” è Shun Li (la bravissima Zhao Tao, attrice molto conosciuta nel suo paese), giovane immigrata cinese che lavora in un laboratorio tessile per pagare il debito e riavere i documenti che sono in mano a dei boss cinesi. Spera così di potere, un giorno, riabbracciare suo figlio di otto anni che alla scadenza del debito dovrebbe essere portato in Italia. Lì è così brava nel suo lavoro che viene trasferita dalla periferia di Roma a Chioggia, sulla laguna veneziana, per fare la barista in un'osteria locale acquistata dalla mafia cinese. Qui Lì entra in contatto con gli italiani, ne impara la lingua, ne osserva le abitudini e stringe una delicata amicizia con Bepi (un altrettanto bravo Rade Šerbedžija), pescatore slavo che vive da trent'anni nella Laguna. Sono due anime sensibili e riservate che si incontrano, entrambi vivono la condizione di immigrati, li accomuna la passione per la poesia e la nostalgia di quanto hanno dovuto lasciare. Questo tentativo di comunicazione e, per Lì, di trovare un’integrazione che non sia solo finalizzata al lavoro, scuote le abitudini consolidate delle due comunità, quella dei pescatori locali e quella cinese, suscitando sconcerto e ostilità. Entrambi i protagonisti pagheranno un duro prezzo per avere rotto le rigide regole sociali delle loro rispettive comunità, ma Lì riuscirà alla fine del film a realizzare il suo sogno di libertà dalla schiavitù, forse anche grazie all’appoggio che Bepi le ha dato per un breve periodo.
Il regista Andrea Segre, ci mostra un mondo delicato e crudele allo stesso tempo, pieno di chiusure e incomprensioni, e ci dice: "Il tentativo è quello di mostrare gli immigrati come persone che raccontano quello che vivono e pensano”.
Anche in questo film l’ambientazione prende lo spazio di un protagonista silenzioso, quasi lirico, in gran parte grazie alla splendida fotografia di Luca Bigazzi. La laguna, con la sua apparente immobilità, con i suoi cicli e le stagioni che si snodano, è una potente scenografia dove la sofferenza, la solitudine e la speranza si alternano senza sosta. Il mondo dei pescatori che la abitano sembra un mondo di sopravvissuti, con il chiuso dialetto, con la percezione di un contesto sociale circostante in cui tutto è cambiato e con un attaccamento al luogo, tanto potente, quanto nostalgico, come potente e pieno di nostalgia è il ricordo dei paesi di origine da parte di tutti gli immigrati.
Il merito principale del film è di essere riuscito a raccontare l’incontro-scontro tra due culture diverse tramite un’opera romantica e delicata. L’amore e la poesia possono aiutarci a superare le barriere razziali, sociali e culturali, questo sembra essere il messaggio più profondo che il film riesce a darci.
I due film pongono così l’accento, pur se in modo differente, sugli aspetti psichici e esistenziali dei fenomeni migratori che investono il nostro Paese da molti anni, ponendosi alcune importanti domande alle quali la psicoterapia può contribuire a dare una risposta. Il fenomeno dell’integrazione dei migranti è sociale e culturale, oltre che economico, tocca mondi e costumi lontani obbligati a confrontarsi, con esiti incerti.
Il tema dell’accettazione, del dialogo e del rispetto è essenziale e la psicoterapia può avere un ruolo molto importante nella ricerca di una comunicazione che valorizzi le differenze, invece che contrapporle, dove le persone possano mantenere o ritrovare la propria integrità psico-fisica, pur provenendo da o ritrovandosi in situazioni di emarginazione, isolamento o sfruttamento. La psicoterapia può indicare il percorso per conservare la propria forza e la propria dignità, non solo da un punto di vista socio-economico, ma innanzi tutto interiore. E’ adeguato pensare a un concetto di integrazione rivolto anche verso l’interno, verso il mondo soggettivo che coinvolge tutti gli aspetti dell’essere da quello fisico a quello emozionale a quello psichico. Molto spesso, infatti, gli immigrati vivono una lacerazione che è innanzi tutto interiore, psichica, in cui il dolore della separazione dagli affetti importanti, dai luoghi di origine, dalla matrice culturale e linguistica, si unisce a un vissuto di nostalgia e rimpianto. O peggio ancora queste persone arrivano nel nostro paese con esperienze traumatiche di violenza, torture, guerre, migrazioni forzate, persecuzioni, esperienze che creano la necessità di un percorso di elaborazione, di integrazione delle proprie parti interiori. Infine, in molti casi, l’esperienza della violenza e dello sfruttamento continua nel nostro paese sotto forma di sfruttamento o schiavitù al servizio di organizzazioni criminali.
Su tutti questi aspetti, e molti altri ancora, la psicoterapia può interrogarsi e definire degli spazi e dei percorsi di accoglienza e di cura.
Si tratta della sfida attuale che riguarda in maniera più estesa l’identità dell’uomo contemporaneo sempre più globalizzato, sempre più profugo dai modelli sociali e culturali tradizionali che tendono a scomparire e a non nutrire più le collettività sociali del nostro tempo.