Numero 2/2012

La violenza di genere

 

Cristina Angelini*

 

Sapete di cosa muoiono principalmente le donne in età riproduttiva nel mondo, secondo l’OMS-Organizzazione Mondiale della Sanità e UNFPA-Agenzia delle Nazioni Unite per i Fondi per le Popolazioni? Muoiono di violenza di genere, che sembra mietere lo stesso numero di vittime del cancro (UN Millennium project 2005b, pag 4-5). E’ un dato spaventoso.

L’OMS definisce la violenza come “l’uso intenzionale di forza fisica o di potere, minacciato o messo in atto (…) che causa o che ha un’alta probabilità di causare lesioni, morte, danno psicologico, difficoltà nello sviluppo o deprivazione” (World Report on violence and health. Geneva: World Health Organisation, 2002). “Molte le forme di violenza subìte dalle donne: l’abuso sessuale, fisico ed emozionale da parte del partner intimo o di altri membri della famiglia, la persecuzione (stalking), le molestie sessuali o l’abuso da parte di figure d’autorità, la tratta per lavoro forzato o sessuale, nonché le pratiche tradizionali come matrimoni imposti o di bambine, mutilazioni genitali femminili, delitti d’onore, e gli abusi sessuali sistematici in situazioni di guerra” (Violence against womendal sito WHO). UNFPA ha definito le tre forme più frequenti di violenza di genere: la violenza domestica, l’abuso sessuale e quello infantile (A practical Approach to Gender-Based Violence, UNFPA, Pilot Edition 2001).

Ma innanzitutto, cosa vuol dire esattamente violenza di genere? E prima ancora, cosa vuol dire genere?

Genere è un termine che spesso viene confuso con sesso (in molte lingue non esiste un termine specifico e la parola sesso finisce per inglobare anche l’accezione di genere). In realtà i due termini sono connessi, ma hanno significati diversi. Sesso si riferisce agli aspetti biologici: per esempio una femmina, in assenza di condizioni o sindromi particolari, ha 2 cromosomi X, e dunque un determinato equilibrio ormonale e certi organi comuni a tutte le femmine, mentre un maschio ha un cromosoma X ed uno Y, e dunque un altro equilibrio ormonale e altri organi; genere si riferisce invece agli aspetti sociali legati al sesso, alle aspettative e agli stereotipi rispetto all’essere femmina o maschio.[1]

Il sesso non muta nel tempo e nello spazio, mentre il genere sì. Le femmine hanno un utero in ogni luogo ed in ogni tempo, ma ciò che ci si aspetta da un essere umano femmina può invece cambiare enormemente.

Nei confronti della generazione delle nostre nonne c’erano aspettative molto differenti da quelle che ci sono per le donne di oggi: per esempio la professione medica un tempo in Italia era considerata quasi esclusivamente adatta agli uomini, mentre oggi è sempre più al femminile; pensiamo anche, in questo stesso tempo ma in luoghi diversi, alle aspettative e ai trattamenti riservati alle bambine rispetto all’istruzione: ci sono ancora paesi nel mondo in cui il fatto che una figlia studi è strano o anche mal visto. In alcuni casi può essere addirittura proibito come è avvenuto in Afganistan, dove sotto il regime dei talebani alle bambine era proibito andare a scuola e alle donne lavorare. La negazione del diritto all’istruzione e al lavoro, basata sul sesso, è un esempio di violenza di genere.

Come si può notare violenza di genere è un’espressione spesso adoperata come sinonimo di violenza sulle donne, perché la maggior parte di queste violazioni riguarda la popolazione femminile, in virtù del grande squilibrio di potere tra uomini e donne presente nel mondo.

Da più di 10 anni mi occupo di violenza di genere in progetti internazionali che riguardano la salute delle donne, realizzati da Aidos (Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo) e finanziati da Unione Europea e UNFPA. Ho lavorato principalmente in paesi del medioriente (Giordania, Siria e Palestina), ma anche in Asia e in Africa, in paesi comunemente definiti economicamente svantaggiati. Non dobbiamo pensare però che la violenza di genere sia una prerogativa di queste aree: è diffusa ovunque, sia nei paesi del Sud che in quelli del Nord del mondo.

Un aspetto cruciale del problema è che tutt’ora, sotto tutte le latitudini, le varie manifestazioni di violenza di genere continuano ad essere considerate soprattutto un problema privato, familiare, e non un problema di salute pubblica. Questo è evidente soprattutto per la violenza domestica: proverbi come tra moglie e marito non mettere il dito rispecchiano una visione di questo tipo. In moltissimi paesi non esiste il reato di violenza sessuale coniugale (marital rape) e anche dove è previsto dalla giurisprudenza risulta spesso di difficile applicazione.

D’altra parte la legislazione legata al reato di violenza sessuale è da sempre una questione controversa anche nella nostra cultura: in Italia è stato riconosciuto come reato contro la persona solo negli anni ’70, prima era considerato solo come un reato contro la morale, senza alcun riconoscimento per la sofferenza della persona che lo subiva. Anche recentemente sono state emesse alcune sentenze shock, come quella che ha eliminato l’aggravante della violenza di gruppo al reato di stupro, sostenendo che comunque sempre di atto individuale si tratta. Non considerare questa aggravante ha un impatto significativo non solo sui termini di custodia cautelare, che tra l’altro spesso non vengono neanche applicati nello stupro, ma soprattutto legittima un modo svalutante di sentire e trattare questo tema.

Molte fonti sottolineano come i crimini connessi alla violenza domestica e sessuale siano quelli meno denunciati dalle vittime. Perché le donne non denunciano queste violenze? Cosa induce al silenzio?

Nei gruppi di formazione che da 10 anni conduco sulla violenza di genere il sentimento che emerge più forte nelle donne che l’hanno subìto è la vergogna. Soprattutto nella violenza sessuale, ma anche in quella domestica, nella vittima emerge prepotentemente il sentimento della vergogna. Perché? Cosa fa sì che non sia il molestatore, lo stupratore o l’uomo violento che picchia la moglie a provare vergogna, ma che invece a provarla sia la vittima? S’è mai sentito di un commerciante derubato che provi vergogna, al posto del ladro colto in flagrante?

altfoto di Daniele Filacchionefoto di Daniele FilacchioneE’ il tragico paradosso di molti processi per stupro, dove ad essere investigata è la moralità della vittima con domande umilianti sulla sua vita sessuale, come se questo potesse avere una relazione o divenire un’attenuante rispetto alla violenza subita.

Qual è l’attinenza tra l’essere aggredite sessualmente e la pregressa vita sessuale? Ovviamente l’idea sottostante è che nell’essere aggredite ci sia una provocazione da parte della vittima. E’ lo stesso presupposto, portato alle estreme conseguenze, da cui si parte nei paesi in cui è ancora in vigore la lapidazione. Quando vediamo gli appelli di raccolta di firme per impedire la lapidazione di una donna per adulterio, se si approfondisce la storia che c’è dietro, spesso si rileva che sono casi di violenza sessuale, cosa che stupisce l’osservatore occidentale. Da questa prospettiva il fatto stesso di aver permesso che la violenza avvenisse rende la vittima complice, andando perfino oltre il vecchio concetto, ben conosciuto dalle nostre parti se pensiamo che è stato abolito solo negli anni ’70, del delitto d’onore. Qui il rovesciamento del ruolo da vittima a colpevole è completo. In Giordania c’è un certo numero di donne violentate che sono tenute in prigione, perché hanno causato disonore alla famiglia. A volte le donne violentate vengono uccise da qualcuno della loro stessa famiglia, per lavare l’onta. In molti dei paesi mediorientali in cui ho lavorato era esplicito il fatto che l’onore andava mantenuto dalle donne con il loro comportamento. L’omicidio d’onore, ancora previsto dalla legge, si regge su questo presupposto.

Una certa luce sulle dinamiche profonde della violenza sessuale può venire dalle osservazioni fatte sull’abbigliamento delle donne violentate fuori dall’ambiente domestico. Quello che è emerso è stato che il capo di abbigliamento indossato più spesso erano i blue-jeans, e che molte delle aggredite avevano poco o niente make-up (Utah State University http://www.usu.edu/saavi/pdf/myths_facts.pdf; Wichita State University http://webs.wichita.edu/?u=police&;p=/sexual_assault/).

Apparivano insomma non tanto come oggetti sessualmente provocanti ma soprattutto come vittime. Si sfata così il pregiudizio che se l’abuso viene perpetrato, la vittima ha fatto qualcosa per provocarlo; la vittima tipo sembra proprio essere la donna più dimessa e questo sembrerebbe suggerire che nelle dinamiche che motivano lo stupro la componente seduttiva sia molto più debole di quella di dominio e di potere. Il sesso infatti può veicolare amore ma anche sopraffazione e odio, come spesso avviene nelle cosiddette “perversioni” (Stoller, 1978).

Nei gruppi di formazione sulla violenza di genere che ho condotto è emerso spesso che le esperienze di molestie subìte dalle partecipanti avvenivano con maggiore frequenza quando si era stanche, depresse oppure in giovanissima età. Forse alcune donne che leggono si riconosceranno nella loro esperienza di molestie avvenute soprattutto nei momenti di maggiore fragilità, fisica o psicologica. Anche la violenza su preadolescenti facilmente può essere letta come più facile esercizio di dominio su una vittima particolarmente fragile.

Inoltre, nella mia esperienza decennale di gruppi di consapevolezza e formazione su questo tema e in quella ventennale come psicoterapeuta, è emerso un dato sconcertante: tutte le donne con cui ho parlato di questi temi avevano subìto qualche forma di abuso. Magari non violenze gravissime come lo stupro, ma quale donna può dire di non aver subìto alcuna molestia nel corso della sua vita? Anche solo un palpeggiamento sull’autobus o un epiteto pesante per la strada.

L’estrema diffusione del fenomeno contribuisce a normalizzarlo: ciò che è nella norma, in termini statistici, tende ad essere percepito come socialmente accettabile. Forse nella percezione delle donne, nonostante i grossi cambiamenti sociali avvenuti negli ultimi decenni, rimane una certa rassegnazione a subire questi fenomeni.

Alcuni eventi, anche recenti, sembrano infatti scoraggianti. Una ragazza violentata e ridotta in fin di vita nel febbraio scorso all’Aquila: nonostante fosse stata ritrovata di notte quasi assiderata e sanguinante per le percosse e inizialmente creduta morta, l’aggressore accertato ha proclamato che lei era consenziente. Per la gravità delle lesioni riportate il reato ipotizzato era stato di tentato omicidio. Nonostante questo nel giugno scorso sono stati accordati gli arresti domiciliari all’aggressore (Corriere della Sera, 10 Giugno 2012). Perché le vittime dovrebbero denunciare la violenza, anche dove, come in Italia, ci sono le condizioni giuridiche? E cosa provoca questo sulla psiche femminile a livello collettivo?

Alcune statistiche dicono che nel 64% dei casi di violenza l’aggressore è il partner e in circa il 20% un ex (Corriere della Sera, 7 Giugno 2012). Il vero focus quindi dovrebbe essere sulla violenza domestica, di gran lunga la più difficile da denunciare. Anche qui il sentimento di vergogna sembra fare da padrone. Per di più nella violenza domestica si aggiunge il fatto che l’aggressore non è in questo caso uno sconosciuto ma è qualcuno che, almeno all’inizio, si ama e da cui si presuppone di essere amate. Per questo la violenza è ancora più difficile da riconoscere. Qui aggressore e oggetto d’amore sono sovrapposti, e non di rado la violenza viene giustificata proprio per il grande amore provato, che acceca di passione e gelosia. La vittima è spesso colpevolizzata e pensa di essere stata lei a provocare la violenza. Ma nulla può giustificare la violenza su un altro essere umano. Inoltre l’amore, a mio avviso, dovrebbe sostenere e rispettare l’altro; volere il suo bene e non ridurlo a mero oggetto dei nostri egoistici desideri.

Le definizioni internazionali di violenza domestica ne classificano le diverse forme: violenza fisica, psicologica, sessuale, economica, ed ogni deprivazione arbitraria di libertà. (UNFPA A practical Approach to Gender-Based Violence, UNFPA, Pilot Edition 2001). Spesso viene sottolineato come la violenza domestica aumenti nelle situazioni di disagio e povertà sociale ed economica. Questo è vero, ma sarebbe un errore pensare che siano queste le cause. In realtà sono solo fattori facilitanti: c’è un’ampia casistica di violenze anche in situazioni di alto livello culturale ed economico. La causa ultima, a mio avviso, risiede ancora nei pregiudizi di genere di cui siamo un po’ tutti inconsapevolmente portatori.

In vari paesi del mondo, nei centri di salute per le donne in cui vengono inseriti i servizi sulla violenza di genere ho riscontrato spesso che anche chi dovrebbe prendersi cura del problema (psicologhe, ginecologhe, avvocati, assistenti sociali, ecc.) è intriso di inconsce convinzioni limitanti legate al contesto culturale. Un esempio è la frequenza con cui la vittima non viene creduta o gli abusi minimizzati, soprattutto quelli più largamente diffusi e quindi nella norma. Per fare un esempio lontano dal nostro contesto, e quindi da noi più facilmente percepibile, nei paesi africani in cui vengono normalmente praticate, le mutilazioni dei genitali femminili non sono immediatamente sentite come violenza.

L’approccio suggerito da UNFPA nelle sue linee guida su come creare servizi per diagnosticare, trattare e prevenire la violenza di genere in centri tipo consultori (A practical Approach to Gender-Based Violence, UNFPA, Pilot Edition 2001), è infatti quello di fare un grande lavoro di sensibilizzazione sugli operatori. Sono loro in prima linea ad accogliere le vittime ed il loro ruolo è cruciale nel far sì che sia possibile parlare di quanto è normalmente coperto da tabù. Una mia paziente, in Italia, che mi riferì che nelle 6 volte in cui dovette andare al pronto soccorso per le percosse subìte dal marito, aveva sempre raccontato di essere caduta dalle scale o inciampata. Mai nessun medico aveva cercato di approfondire, di fare qualche domanda in più su l’occhio nero, il braccio rotto o la lacerazione sulla testa, proprio come tenendo fede all’assunto che in fondo quello che le era accaduto era un fatto privato.

Nella mia esperienza di formazione il personale medico è quello che più spesso ritiene che fare domande esuli dalla propria sfera di intervento, cioè l’occuparsi delle ferite fisiche. In realtà creare un ambiente in cui sia possibile indagare apertamente e in tranquillità su eventuali forme di violenza, senza che questo sia tabù, è il primo passo fondamentale. Nei consultori creati da Aidos in Giordania, Siria, Gaza e Nepal abbiamo stabilito una procedura in cui a tutte le nuove utentivengono fatte domande su eventuali forme di violenza insieme alla raccolta anamnestica. Tutte le utenti perché è evidente che tutte sono potenzialmente a rischio, non solo quelle più povere o meno istruite.

Ma c’è un lato agghiacciante e ancora poco conosciuto della violenza di genere che ha avuto bisogno addirittura di una nuova parola: “gendercidio”, neologismo creato per indicare il fenomeno, silenzioso ma dai numeri impressionanti, dell’aborto selettivo o dell’infanticidio delle bambine. Dapprima si pensava che questo riguardasse esclusivamente la Cina e la sua politica del figlio unico. Oggi si stima invece che 160 milioni di bambine non siano presenti, sia perché soppresse prima della nascita o appena nate, non solo in Cina o in India, ma anche in Cambogia, Vietnam, Corea, Azerbaijan e molti altri paesi (Hvistendahl, 2011). Io stessa ho riscontrato anche in alcune aree di paesi mediorientali una pressione familiare ad abortire, o un diverso trattamento riservato alla gestante, se il feto era femmina; questo nonostante chiari divieti religiosi. Negli ultimi anni, insieme all’èquipe con cui lavoro, abbiamo addirittura deciso di non comunicare il sesso del nascituro visto durante le ecografie per evitare questo rischio. Proprio a causa delle moderne tecnologie in grado di individuare il sesso prima della nascita, il fenomeno ha assunto una dimensione particolarmente grave, tale da minacciare l’equilibrio demografico mondiale. Ma se ne parla pochissimo.

Nel Marzo 2010, durante la Conferenza ONU Pechino+15 sui diritti delle donne (New York, 54th Session of the Commission on the Status of Women), il Times dedicò una copertina a questo fenomeno, titolandola appunto “Gendercide”. In Italia invece il settimanale l’Espresso del 29 Settembre 2011, pur pubblicando una ricerca shock sullo stesso tema, intitolata “L’ultima donna” ha rinunciato all’ultimo momento ad una dura copertina di denuncia dedicata al tema per dare la precedenza all’attualità politica nazionale. Alla fine, quindi, in copertina c’erano le solite facce dei nostri politici. Una inchiesta shock sulla soppressione di 160 milioni di esseri umani femmina non era stata considerata abbastanza importante per la prima pagina, rispetto alle beghe politiche nazionali. Questo è un dato su cui riflettere.

Tuttavia, anche la politica potrebbe essere costretta a uscire dall’indifferenza. I costi della violenza per i paesi (spese mediche, processuali, di polizia, scolastiche e di produttività) sono enormi. Negli USA si stima siano circa 12,6 miliardi di dollari l’anno (Target 4 degli Millennium Development Goals; e UN Millennium Project 2005b, pag 10). Questo sta portando sempre di più a considerare la violenza di genere un vero e proprio problema di salute pubblica, con un impatto forte sui bilanci pubblici degli stati. L’entità di questo fenomeno è tale da incidere sull’andamento economico delle nazioni e chissà che non sia proprio a partire da questo risvolto che si possa sviluppare una strategia davvero efficace per affrontare il problema.

Nessun reale cambiamento sarà però possibile se non maturerà una consapevolezza delle potenti emozioni, pregiudizi e convinzioni limitanti che questi temi suscitano. Senza questo passaggio può essere addirittura difficile riconoscere la violenza di genere, impossibile sconfiggerla.

 



[1] La differenza di significato tra sesso e genere ovviamente non vuole spiegare l’impatto che natura e cultura esercitano sull’identità di genere, rispetto a cui c’è un grosso dibattito tuttora aperto e lungi dall’essere risolto. Non vuole altresì entrare nel dibattito sull’identità transgender sviluppatesi negli ultimi anni.

Bibliografia

  • UN Millenium Project 2005b.
  • Geneva: World Health Organisation (2002), "World Report on Violence and health".
  • WHO, Violence against women.
  • UNFPA, (2001) UNFPA, "A practical Approach to Gender-Based Violence", Pilot Edition.
  • Utah State University http://www.usu.edu/saavi/pdf/myths_facts.pdf). Wichita State University
  • Stoller, R.J. (1978), "Perversione – La forma erotica dell’odio", Milano, Feltrinelli.
  • Hvistendahl, M. (2011), "Unnatural selection: Choosing boys over girls and the consequences of a world full of men", NY, PublicAffairs.
  • Target 4 dei Millennium Development Goals.

* Psicologa Psicoterapeuta, Socia SIAR, Consulente Internazionale in Progetti di salute per le donne

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