Numero 1/2013

TRATTAMENTO DEL TRAUMA:
UN PUNTO DI VISTA
NEUROFISIOLOGICO
(prima parte)

Maurizio Stupiggia*

 

Vorrei discutere qui una metodologia di trattamento del trauma.

Esporrò alcune idee corredate da un esempio clinico, un frammento di seduta che non ha la pretesa di rappresentare un completo processo di lavoro, ma solo utile occasione per riflettere sul comportamento dei pazienti con questo tipo di patologia.

Cercherò di mostrare qui la validità di due assunti:

  1. occorre prendere in considerazione il corpo nel trattamento dei traumi;
  2. è necessario pensare ad una specifica metodologia di trattamento che rispetti alcune regole di funzionamento, e a questo proposito descriverò qui una metodologia di lavoro: la riesperienza sensoriale.

Questa proposta scaturisce da alcune ipotesi emerse dalla recente ricerca in campo neurofisiologico, e tenta di affrontare quelle difficoltà cliniche che tutti i modelli possono incontrare in casi del genere.

Il ricorso fatto qui alle neuroscienze non è quindi solo legato ad una necessità di validazione extra-clinica di rubinsteiniana memoria, ma anche e soprattutto ad alcune difficoltà strutturali presenti nel trattamento di casi di traumi.

E’ qui in gioco, tra le altre cose, la relazione tra esperienza e parola, la possibilità o meno di tradurre verbalmente specifici vissuti, fortemente resistenti alla trasformazione simbolica. E’ in gioco cioè la tradizionale idea di psicoterapia, come pratica della cura che, nonostante le differenze tra modelli, passa comunque sempre attraverso l’atto di parola.

Ciò che ne scaturisce può essere quindi, a mio avviso, utilizzato da terapeuti di indirizzi diversi, che riescano a rimanere in un loro ambito di coerenza metodologica.

Partiamo innanzitutto dalla definizione: per trauma si intende qui quell’evento, o serie di eventi, collegato ad un’esperienza soggettiva di impotenza inerme o di incapacità di evitare il pericolo insito in esso.

Per usare le parole di Henry Krystal, “Il trauma psichico catastrofico è definito una resa a ciò che viene vissuto come un pericolo inevitabile di origine esterna o interna. E’ la realtà psichica della resa a ciò che viene vissuto come una situazione intollerabile senza via d’uscita che fa sì che si abbandonino le attività che salvaguardano la vita. La valutazione che la situazione è di estremo pericolo e la resa ad essa danno inizio al processo traumatico.” (Krystal, 2007, p. 200)

L’autore definisce “trauma psichico catastrofico” quell’evento che, anche da solo, può distruggere la struttura psichica di una persona, e quindi lo distingue dal “trauma cumulativo” di Masud Khan, che ha più a che fare con l’accumularsi di esperienze negative e rimanda sostanzialmente alla capacità soggettiva di tollerare gli incidenti di sviluppo, più che alla distruttività di certi eventi esterni.

E’ opinione diffusa e variamente condivisa che il trattamento analitico incontri difficoltà, spesso insormontabili, di fronte ai casi di trauma.

Molti analisti concordano quindi sul fatto che questi pazienti “non sono adatti ad essere trattati con la psicoanalisi vera e propria. Se il trauma è stato grave o abbastanza precoce può disgregare lo sviluppo dell’Io in modo sufficiente da precludere le capacità necessarie al lavoro analitico. Al paziente può mancare la capacità di instaurare una minima alleanza terapeutica; può mancare l’accesso alle esperienze soggettive interiori ed alle emozioni, così come la capacità di tradurle in parole; può mancare la capacità di introspezione che implica una separazione tra un Io osservatore ed un Io che fa esperienza; può mancare la volontà di cercare di confinare i propri impulsi all’espressione verbale piuttosto che estenderli all’azione; e può mancare un Io sufficientemente forte da evitare gravi regressioni di fronte a potenti vissuti, ricordi e desideri che saranno evocati da un tale procedimento”. (Sugarman, 1999, p. 14)

Un’altra caratteristica cruciale di tali pazienti è la loro compulsione alla ripetizione, così forte da far perdere loro il confine tra realtà e fantasia, e far così perdere al transfert la sua qualità di come se.

 

Il trauma: l’irruzione della realtà

Questi pazienti non sono infatti facilmente ascrivibili all’usuale comportamento di persone con struttura nevrotica e nemmeno possiamo catalogarli come border-line: l’impedimento alla prima categorizzazione è dato dal fatto che, la dissociazione e il distacco dalla realtà improvvisi, raramente si trovano nella comune nevrosi; la seconda possibilità è anch’essa esclusa, dato che essi, nel complesso, non sempre mostrano le caratteristiche di scissione e senso di vuoto tipiche della struttura border-line.

Siamo invece in presenza di un altro tipo di configurazione di personalità, che ha tutto sommato una buona integrazione in molte sue parti, ma che presenta delle vere e proprie sacche di materiale totalmente inelaborato e assolutamente non-integrato. Gli studi sul trauma, e sui conseguenti Disturbi da Stress Post Traumatico (PTSD), ci aiutano su casi come questo. E’ proprio la mancanza improvvisa del come se che caratterizza la situazione di riemersione del vissuto traumatico e che la distingue abbastanza nettamente da altre forme di disturbo psicologico; come ci ricorda Caruth,“è la verità dell’esperienza traumatica che ne costituisce il nucleo psicopatologico; non si tratta di una patologia legata alla falsità o alla rimozione del significato, ma alla storia stessa”(Caruth, 1995, p.5).

E come ci conferma Bessel van der Kolk, una delle massime autorità nel campo, “anche se la psichiatria psicodinamica ci fornisce un validissimo ausilio per comprendere gli adattamenti caratteriali ai ricordi del trauma, la questione centrale del PTSD è che i sintomi primari non sono simbolici, difensivi o provocati da un interesse secondario. Il problema centrale è costituito dall’incapacità di assimilare la realtà di specifiche esperienze con la conseguente riattualizzazione ripetitiva del trauma in immagini, comportamenti, sentimenti, stati fisiologici e relazioni interpersonali.” (van der Kolk, 2004, p.23)

Molti pazienti riferiscono infatti di spaventarsi perché gli occhi del terapeuta sembrano diventare improvvisamente cattivi o la bocca sembra incurvarsi in una smorfia inquietante, o il suo silenzio diventa misteriosa minaccia, oppure il tono della sua voce appare improvvisamente seduttivo e quindi disgustoso: la protensione del tempo passato in un tempo presente (tipica della capacità di discernere l’attualità dal ricordo) fallisce e prende il suo posto una vera e propria deformazione della realtà materiale, cose e persone.

A questo punto viene naturale pensare che il nucleo centrale di questo tipo di terapia sia dato dalle condizioni di sicurezza della relazione terapeutica. E come ci conferma ancora van der Kolk “se il trattamento si concentra prematuramente sull’esplorazione del passato, ciò non farà che esacerbare piuttosto che alleviare le interferenze traumatiche. Indagare il trauma in quanto tale non porta effetti benefici, a meno che non lo si colleghi ad altre esperienze, come la sensazione di sentirsi compresi, al sicuro, fisicamente forti e integri, o di essere in grado di provare compassione e voler aiutare quanti soffrono.” (van der Kolk, 2004, p. 34)

Le ragioni di questo necessario accorgimento stanno nella enorme profondità dell’esperienza del trauma, che rimanda fondamentalmente ad una condizione di impotenza rispetto a situazioni incontrollabili e sconvolgenti, o totalmente incomprensibili.

Quando parliamo di evento traumatico ci riferiamo a momenti in cui la persona sperimenta un terrore indicibile, in assenza di sostegno, nella difficoltà di raccontare l’accaduto e soprattutto nell’incapacità di intravedere la fine del tormento.

Ovviamente ci sono infiniti gradi di intensità del trauma: “la traumaticità di un evento può essere pienamente valutata solo tenendo conto di un insieme di variabili che comprende l’ampiezza, l’intensità e la precocità del trauma, le caratteristiche temperamentali dell’individuo, la personalità, le caratteristiche dello stile di attaccamento, gli aspetti di vulnerabilità e resilienza, ed infine le capacità di contenimento e di elaborazione della rete di relazioni affettive e sociali.” (van der Kolk, 2004, p.XIV)

 

altFlavia Mannucci, Smaterializzazione, acrilico su tela, 2009Flavia Mannucci, Smaterializzazione, acrilico su tela, 2009

Le parole non bastano

“In quei momenti sono paralizzata e non mi escono le parole… vorrei almento gridare ma anche questo non mi riesce”. “A volte cado in dei baratri senza motivo… mi prende una stanchezza tale che non riesco ad alzare un braccio… e mi sembra che potrei stare lì, senza parlare, per sempre!”: queste sono alcune delle frasi riportate da pazienti che esprimono lo stato di improvvisa sospensione delle parole.

E questo è ciò che può succedere quando si è nell’impossibilità di usare le parole.

La domanda che sorge spontanea riguarda l’intervento terapeutico: come può agire in questi casi la psicoterapia, che fondamentalmente cura attraverso l’atto di parola?

E’ una domanda cruciale, perché il trauma ci mette di fronte ad improvvisi flashbacks, a sensazioni slegate dal contesto, a momenti di terrore muto, ecc.: a tutto tranne che a narrazioni coerenti o ricordi contestualizzati. Viene naturale pensare che la ricognizione/ricostruzione verbale del passato traumatico è proprio ciò che occorre ad un paziente di quel tipo; e questo è assolutamente vero, perché solo il ripristino del flusso continuo di coscienza, di memoria e di parola può sanare queste fratture profonde.

Ma è proprio la parola a mancare, e anche l’evidenza clinica ci dice che un lavoro esclusivamente verbale può incontrare enormi difficoltà nel raggiungere lo scopo, o perlomeno è seriamente deficitario. La riemersione di tali vissuti è infatti opera di eventi in cui il corpo, i gesti, le posture hanno un ruolo primario; e forse senza di essi certo materiale sarebbe rimasto inattingibile. Sappiamo inoltre che indagare cognitivamente il trauma spesso non porta benefici, ma anzi comporta dei rischi.

Vi sono inoltre evidenze, frutto delle recenti ricerche neurofisiologiche, che mostrano un paio di cose interessanti, che confermano ciò che l’esperienza clinica quotidiana ci indica.

La prima viene da alcune ricerche (Rauch et al., 1996) condotte con la tecnica della PET su soggetti affetti da PTSD, esposti ai racconti drammatici che avevano scritto sulle loro esperienze traumatiche.

Il risultato più significativo per noi è che, durante questi momenti di enorme intensità, una parte del cervello, l’area di Broca, deputata alla traduzione delle esperienze personali in linguaggio comunicabile, interrompe il suo funzionamento. Dobbiamo concludere che “ciò si riflette nel terrore muto provato da questi pazienti, e nella loro tendenza a provare emozioni sotto forma di stati fisici, piuttosto che come esperienze codificate verbalmente. Questi risultati suggeriscono che le difficoltà incontrate dai pazienti affetti da PTSD nel tradurre a parole le proprie sensazioni sono legate a reali mutamenti dell’attività cerebrale” (van der Kolk, 2004, p.293)

Un’altra serie di ricerche (Vermetten, Bremner, 2004), sempre relativa all’attivazione di ricordi traumatici osservata attraverso metodiche di neuroimaging sembra essere sostanzialmente congruente con questi dati. Il quadro che emerge complessivamente è che durante l’attivazione dei ricordi traumatici sia presente una iperattivazione dell’amigdala, concomitante ad una diminuzione dell’attività di inibizione top-down sulla stessa da parte della corteccia ventrale del cingolo anteriore e da parte della corteccia prefrontale mediale e dorsolaterale (con funzione di problem solving, selezione della risposta, riflessione), una iperattivazione dell’emisfero cerebrale destro, e ancora una ipoattivazione dell’area di Broca. La persona si trova quindi a rivivere, come se fossero nuovamente presenti, esperienze emotivamente intense, senza essere in grado di etichettarle, regolarle e controllarle adeguatamente, ragionare su di esse e comunicarle verbalmente in modo adeguato.

Lanius (2006) conferma definitivamente questa interpretazione, mostrando una serie interessante di dati sulla differenza di reazione dei soggetti affetti da PTSD rispetto a soggetti senza tale disturbo, nel momento di richiamo mnemonico dei fatti traumatici. I soggetti con PTSD mostrano schemi di connessione cerebrale coerenti con i tipici pattern non-verbali (attivazione dei lobi occipitali, lobo parietale destro e giro posteriore del cingolo), e balza evidente la differenza con i soggetti del gruppo di controllo che attivano invece vie neurali coerenti con gli schemi verbali di memoria (corteccia prefrontale sinistra e cingolato anteriore). Tutto questo è congruente con quanto si rileva clinicamente: i pazienti con PTSD sperimentano le loro memorie traumatiche come intrusive, atemporali e frammentate sensorialmente, e quindi con una marcata incapacità di esprimerle in una trama narrativa.

Ma il risultato forse più importante di queste ricerche è il fatto che alti livelli di stimolazione dell’amigdala interferiscono significativamente con il funzionamento dell’ippocampo. Spieghiamo meglio.

L’ippocampo è un sistema anatomicamente contiguo all’amigdala e presiede alla funzione della memoria a breve termine, valutando e registrando la struttura spazio-temporale degli eventi.

Il suo buon funzionamento ci permette di essere consapevoli, in ogni momento, del contesto di accadimento degli avvenimenti, così che, non solo assistiamo ad un fatto, ma anche sappiamo che sta accadendo proprio a noi o davanti a noi in questo preciso momento. E’ ciò che viene chiamata memoria esplicita o dichiarativa. Il cattivo funzionamento di questo organo può portare a degli effetti anche molto stravaganti; uno per tutti è il noto resoconto di Claparede, neurofisiologo francese, che nel 1911 pubblica il resoconto dei suoi studi. Accogliendo nel proprio ambulatorio una paziente affetta da lesione bilaterale dell’ippocampo, egli nascose un ago nella sua mano, e le strinse la mano. La donna ovviamente sentì la trafittura dell’ago e si ritrasse.

Il giorno seguente Cleparede incontrò nuovamente la paziente e fece di nuovo il gesto di porgere la mano, ma stavolta lei ritrasse la propria. Interrogata sul motivo di tale ritrosia, ella disse che “uno ha il diritto di non dare la propria mano agli sconosciuti”, mostrando così la dissociazione tra la memoria esplicita e quella implicita, conservata nel corpo.

Tornando alla nostra questione, noi sappiamo che una situazione di intensissimo stress stimola fortemente l’amigdala, sistema deputato a valutare il significato emotivo degli stimoli afferenti, ma ora sappiamo anche che una stimolazione troppo elevata dell’amigdala danneggia il funzionamento dell’ippocampo.

Si può ipotizzare che, quando ciò accade, le impressioni sensoriali dell’esperienza siano archiviate nella memoria, ma, dato che l’ippocampo non riesce a compiere la sua funzione integrativa, queste diverse impressioni non siano organizzate in un tutto unitario. L’esperienza rimane dunque frammentata, sotto forma di suoni, odori, sensazioni fisiche, immagini improvvise, e percepita come estranea e separata dal resto dell’esperienza. “I ricordi dei traumi sono senza tempo ed estranei all’ego.” (van der Kolk, 2004, p.294)

 

Devo assolutamente reagire: la centralità del corpo

Ecco perchè occorre guardare al trattamento di questi disturbi con un’ottica che vada oltre le parole, che faccia rientrare il corpo, per poter sperare di rimarginare una ferita che è diventata profonda spaccatura.

Ci conferma a questo proposito Peter Levine: “Le persone traumatizzate sono 'istantanee' del loro tentativo fallito di difendersi efficacemente di fronte alla minaccia o al ferimento. E' perchè sono sopraffatte, che l'esecuzione delle loro risposte, normalmente complete, è stata interrotta. Il trauma è fondamentalmente un'incompleta risposta biologica… non viene 'ricordato' in forma esplicita e conscia. Viene codificato come procedura implicita basata su reazioni biologiche di sopravvivenza. Queste procedure non terminate cercano completamento ed integrazione, non di essere ricordate esplicitamente.” (Levine, 1997, p.64)

Entriamo così nel vivo della questione.

Ciò che dice Levine, e che trovo condivisibile, è che la risposta efficace al trauma passa attraverso il ripristino ed il completamento dell’azione fisiologica di risposta all’accadimento traumatico: quando tale azione si è interrotta o bloccata abbiamo tutti quei disturbi già elencati; quando invece la persona riesce a reagire alla minaccia la patologia tende a non insediarsi, o perlomeno a non cronicizzarsi.

E’ l’enorme quantità di energia (arousal) mobilitata e non utilizzata a costituire la base fisiologica del trauma ed è questa energia che va ricontattata. Chi si trova improvvisamente di fronte ad un grande pericolo sperimenta certamente l’innalzamento immediato dell’attivazione interna (battito cardiaco, respirazione affannosa, tensione muscolare, ecc.) ma si accorge contemporaneamente che, se non è possibile agire in qualche modo, entra in una paralisi piena di tensione e comincia un corto circuito psico-fisico totalmente involutivo.

Molti episodi di cronaca mostrano come si possa uscire quasi indenni da situazioni traumatiche, solo che si possa dare libero corso alle proprie spontanee reazioni corporee.

Tutto questo nella realtà dell’esperienza quotidiana. Ma in terapia?

Non è ovviamente facile ripristinare le funzioni fisiologiche, compromesse dagli eventi traumatici, e in special modo dagli episodi di abuso.

Se è vero, allora, che il trattamento terapeutico deve comprendere al proprio interno anche una specifica attenzione alla componente corporea, perché il lavoro esclusivamente verbale può rivelarsi insufficiente, è vero anche che i modelli tradizionali di psicoterapia a mediazione corporea scontano limiti di inadeguatezza di fronte a queste situazioni cliniche. Altrove (Stupiggia, 2007) ho riferito dei rischi dell’applicazione dei metodi psico-corporei al trattamento del trauma: quello che ne può risultare infatti è addirittura il pericolo di ri-edizione traumatica. Analoghe considerazioni sono riscontrabili in ambito cognitivo comportamentale da due autori che si sono occupati specificamente del trauma. (Didonna, Herbert 2006)

Si può dunque lavorare solo se si assume clinicamente la centralità del corpo, ma è proprio il lavoro corporeo ad essere minaccioso per il paziente. Detto in altri termini: se il paziente non sente non ricorda, ma se sente può disgregarsi.

 

La saggezza della gazzella: la riesperienza sensoriale

Come abbiamo detto più sopra, il nucleo problematico del trauma sta nell’incompletezza della risposta corporea: l’individuo esposto alla minaccia entra in uno stato di altissima eccitazione neurovegetativa, ma non riesce a dare corso a tutta quell’energia, l’azione non si compie e quindi il ciclo non si completa. Con tutte le conseguenze che conosciamo. Peter Levine descrive bene questa situazione: “i sintomi post-traumatici sono fondamentalmente delle reazioni fisiologiche incomplete tenute in sospeso dalla paura. Le reazioni alle situazioni che costituiscono una minaccia per la vita restano sintomatiche finchè non sono completate.” (Levine, 1997, p.49).

Egli mette un po’ ironicamente a confronto animali ed esseri umani e ci avverte del fatto che nel regno animale non esistono i PTSD, proprio perché gli animali riescono ad attuare quei processi fisiologici che l’evoluzione ha messo loro a disposizione. La gazzella inseguita dal ghepardo, un attimo prima di essere raggiunta e forse sbranata, si accascia al suolo come svenuta e la sua immobilità la preserva a volte dall’essere uccisa istantaneamente, o dal soffrire troppo nell’essere divorata, dato che quel collassare a terra è accompagnato da un intorpidimento sensoriale.

Se dovesse scampare il pericolo la gazzella si ritroverebbe a risvegliarsi dallo stato di quasi anestesia passando attraverso forti tremiti, scatti muscolari e movimenti senza un focus preciso: il tutto prima di riprendere la propria forza e direzione. Questo perlomeno è il quadro di manifestazioni a cui si assiste quando si risvegliano i grandi animali che sono stati anestetizzati per essere trasportati dal loro habitat naturale ad altri luoghi.

Sono note in questo senso le osservazioni di Konrad Lorenz sugli uccelli liberati dalla gabbia: impiegano molti minuti a svolazzare convulsamente intorno alla gabbia prima di prendere una direzione di volo che li porti verso la libertà.

In questo modo gli animali riescono a dare corso alle loro energie accumulate e a non produrre disturbi post-traumatici.

Ma gli uomini fanno lo stesso?

In un certo senso la risposta può essere affermativa, perché vediamo come le persone traumatizzate possano cadere in stati di quasi paralisi, ma vi sono due importanti differenze da rilevare. La prima è che gli esseri umani sperimentano lo stato di immobilità in maniera fortemente dolorosa e producono stati mentali particolari: scissione, trance e derealizzazione. La seconda è che usualmente non ne escono gradualmente liberando quelle salutari reazioni corporee quali tremiti, scatti muscolari, brividi ed altri movimenti, ma ne escono e basta.

Gli esseri umani hanno dimenticato, cioè, di usare il loro corpo come strumento per affrontare i traumi ed uscirne senza troppi danni. Nelle persone traumatizzate la reazione di immobilità non è infatti uno stato fisiologico in continuità con gli altri stati corporei e di coscienza, ma rimane una sacca isolata dal resto, dove l’individuo cade ogni tanto, a causa degli stimoli riattivatori traumatici, e riproduce e amplifica lo stato di paura e di impotenza. Invece di essere una risorsa diventa una minaccia.

Secondo Levine, questo è il frutto dell’interferenza della neo-corteccia, nel senso che il nostro pensiero prettamente umano ci impedisce di lasciar agire gli istinti: “a causa del nostro cervello altamente sviluppato, il processo di abbandono dello stato di immobilità diviene più complicato per l’uomo. La paura di provare terrore, rabbia e violenza nei confronti di se stessi e degli altri, o di essere sopraffatti dall’energia scaricata nel processo di mobilizzazione, tiene a freno la reazione umana di immobilità. La nostra neocorteccia ci informa anche che l’immobilità assomiglia alla morte. La morte è un’esperienza che gli esseri umani cercano di evitare con tutte le loro forze.” (Levine, 1997, p.118)

E nel caso di traumi legati all’abuso, tutto questo si complica con il fatto che la situazione di immobilità ha anche un significato contestuale di sopraffazione sessuale.

Occorre quindi, se seguiamo l’idea di Levine, aiutare la persona a fare l’esperienza dell’immobilità, in un contesto di sicurezza ed in un pieno sensoriale, che faccia sentire il corpo vivo e pulsante.

“La chiave per uscire dal trauma consiste nello scollegare l’immobilità (che è normalmente limitata nel tempo) dalla paura ad essa associata” (Levine, 1997, p.122).

(Continua)

 

Bibliografia
  • Didonna, F., Herbert, C. (2006), Capire e superare il trauma. Trento: centro studi Erickson.
  • Kristal, H. (2007), Affetto, trauma, alessitimia. Roma: Astrolabio ed.
  • Lanius, R., Blum, R., Lanius, U., Pain, C. (2006), A review of neuroimaging studies of hyperarousal and dissociation in PTSD: heterogeneity of rsponse to symptom provocation, in Journal of Psychiatric Research.
  • Levine, P. (1997), Traumi e shock emotivi. Cesena: Macro ed.
  • Stupiggia, M. (2007), Il corpo violato. Molfetta: la Meridiana
  • Sugarman, A. X. (1999), Vittime di abuso. Torino: Centro Scientifico editore
  • Van der Kolk, B. A., Mcfarlane, A. C., Weisaeth, L. (2004), Stress traumatico. Gli effetti sulla mente, sul corpo e sulla società delle esperienze intollerabili. Roma: Ma.Gi

* Psicologo, Presidente della Società Italiana di Biosistemica, Docente presso l'Università di Bologna.

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