Numero 1/2013

Sessualità tra violenza e amore

Marina Pompei*

Perché sessualità tra violenza e amore?

Sono tre parole che si riferiscono a tre dimensioni diverse.

Ho cercato la definizione di sessualità nel Dizionario di Psicologia di Galimberti: “Complesso di caratteri fisici, funzionali, psichici e culturali atti alla perpetuazione della specie. Nell’uomo l’atto sessuale si manifesta come un fenomeno molto complesso dove, accanto alle espressioni genetiche, alla funzionalità endocrina e nervosa, si aggiungono componenti individuali e norme culturali che influenzano in maniera diversa il vissuto e la condotta sessuale di ciascun individuo”. (Galimberti, 1992, p.869).

Quindi “un fenomeno molto complesso” di cui non è facile parlare. Esempi di questa difficoltà sono già in questa definizione, riduttiva come tutte le definizioni. Per esempio, è vero che la sessualità è finalizzata alla perpetuazione della specie, ma non solo, è anche altro, lo vedremo. E ancora: “Nell’uomo l’atto sessuale si manifesta…”. Nell’uomo. E nella donna? La domanda è evidentemente provocatoria; certamente qui si sta parlando sia di uomini che di donne. Sì, certo: il nostro linguaggio è strutturato sul maschile. Uomo ingloba in sé anche donna, il contrario no.

D’altra parte, uno dei grandi miti fondanti della nostra cultura, il racconto della Genesi, nella Bibbia, ci dice che la donna è tratta dalla costola dell’uomo.

Perché sottolineo questo? Perché penso ci aiuti a capire un po’ di più la relazione della sessualità con la violenza e con l’amore.

La sessualità nell’essere umano ha la funzione biologica di riproduzione della specie, come nel mondo animale e vegetale. In più, nel mondo umano, molto in più, ha una funzione relazionale: ha a che vedere con i comportamenti (la violenza attiene ai comportamenti) e con i sentimenti (l’amore è un sentimento), perché siamo molto più complessi delle piante e degli animali.

Nell’evoluzione della specie ci sono salti di qualità: l’energia si organizza e si struttura in forme capaci di generare funzioni sempre più complesse e più evolute.

L’essere umano è frutto di questa straordinaria capacità dell’energia vitale di costruire forme e funzioni.

Un esempio di questo mirabile intreccio di forme e funzioni è il cervello umano, che non è una formazione tutta nuova e originale: è il risultato della filogenesi della specie.

Noi abbiamo, lo sappiamo, non uno ma tre cervelli interconnessi strettamente tra loro, o per lo meno, che dovrebbero essere interconnessi tra loro!

Sono il cervello rettiliano, il limbico e la neocortex.

E la sessualità dove si trova? In tutti e tre.

Lo racconto attraverso una storia. Una storia vera raccontata nelle lettere che una donna ha scritto al medico del manicomio in cui è stata rinchiusa a 26 anni, uscendone solo a 92, dopo la legge Basaglia che ha chiuso i vecchi manicomi.

Ho conosciuto questa storia attraverso uno spettacolo teatrale a Milano: “Lola che dilati la camicia”.

Uno spettacolo messo in scena da Marco Baliani a partire dalle lettere che Adalgisa Conti scriveva al medico del manicomio. La sceneggiatura è stata scritta dal regista insieme all’attrice protagonista: Cristina Crippa che, prima di diventare una bravissima attrice, ha studiato psichiatria. E’ lei che si è imbattuta nelle lettere di Adalgisa.

alt“Lola che dilati la camicia” è la rappresentazione della vita affettiva di questa donna affamata di qualcosa che non ha mai conosciuto: la relazione d’amore.

Non l’ha conosciuta dall’inizio della sua vita, per una quotidianità misera, che prende tanta fatica del corpo e che genera anaffettività per l’impossibilità di fermarsi un momento a sentire il cuore.

Non l’ha conosciuta con il marito che di lei vede solo il corpo, e distrattamente, senza condivisione del piacere.

Ma la bambina e poi la giovinetta Adalgisa era carica di pulsioni vitali, sensuali, emozioni e desideri che si muovevano nel corpo senza avere gli strumenti per essere elaborati e diventare sentimenti. Restavano sensazioni biologiche.

Ma come si arriva alla confusione drammatica di Adalgisa che la porterà in manicomio?

Attraverso un conflitto per lei ingestibile tra diverse dimensioni di sé.

La sua istintività, che proviene dal biologico, e che costituisce tanta parte vitale del nostro essere, non sa come connettersi all’affettività, ed è contemporaneamente richiamata a confrontarsi con il Super Io giudicante che si è formato alle leggi rigide di una vita dura e di una società di forme senz’anima.

Possiamo dire che la sua dimensione rettiliana si confronta con le regole morali conosciute dalla neocortex in una dolorosa e drammatica mancanza di vissuti positivi nella sua dimensione limbico-affettiva. Il risultato è un enorme senso di colpa.

Dice Adalgisa: “Bene ha fatto mio marito a portarmi qui dentro.” E il marito, a conferma inappellabile e assoluta di tutto questo, si chiama, incredibilmente, Probo; questo è proprio il suo nome, sì. E se lui è probo, lei è necessariamente depravata.

Tutto questo le implode dentro, portandola a ripetuti tentativi di suicidio.

Anche il marito non ha strumenti di elaborazione, e il suo disagio lo risolve col potere autoritario: manicomio. E la cultura dominante, e l’ambiente sociale glielo permettono. Siamo nel 1914, nella provincia Toscana.

La confusione di Adalgisa viene etichettata e rinchiusa.

Le sue lettere al medico sono il tentativo disperato di farsi vedere come persona, la narrazione della sua storia un tentativo di trovare un senso, di cercare quell’interconnessione biologica, affettiva e razionale che ci fa esseri umani, ma non troverà risposta.

Nello spettacolo la scena finale è un urlo, senza parole e senza voce, di un corpo vecchissimo che non ha potuto vivere insieme alla sua anima.

“Lola che dilati la camicia”. Perché questo titolo? Si tratta della deformazione popolare del primo verso introduttivo dell’opera di Pietro Mascagni ”Cavalleria rusticana” . Turiddu canta alla sua amante Lola:

“O Lola ch’hai di latti la cammisa “

Ascoltando un’opera lirica non si capiscono bene le parole, ma si coglie benissimo il senso. E la camicia di Lola non è più “di latti”, bianca come il latte, ma si dilata, si apre sul seno sensuale e sul cuore d’amore.

È la sintesi poetica del muoversi disordinato tra violenza e amore in Adalgisa e intorno a lei: la violenza di Adalgisa contro se stessa, la violenza del manicomio.

Nella “Cavalleria rusticana” la violenza sarà agita da Alfio, il marito di Lola, che ucciderà Turiddu, l’amante della moglie, ed anche da Santuzza, la fidanzata tradita di Turiddu. Santuzza violenza di parole, Alfio violenza di coltello.

Di questo finale tragico Turiddu ce ne parla subito, già nell’introduzione.

 

O Lola ch’hai di latti la cammisa,                   O Lola Ch’hai di latte la camicia,

Si bianca e russa comu la cirasa,                   Sei bianca e rossa come la ciliegia,

quannu t’affacci fai la vucca a risu,                         quando t’affacci la tua bocca ride,

biato cui ti dà lu primu vasu!                        beato chi ti ha dato il primo bacio!

Ntra la porta tua lu sangu è sparsu,                Dentro la porta tua il sangue è sparso

e nun me mporta si ce muoru accisu               E non m’ importa se ci muoio ucciso…

e s’iddu muoru e vaju mparadisu                   E se io muoio e vado in paradiso

si nun ce truovu a ttia, mancu ce trasu.           Se non ci trovo te, nemmeno c’entro.

(Targioni-Tozzetti, Menasci, 1890)

 

Turiddu fa violenza a sé, mettendosi consapevolmente a rischio di morte. Le regole sociali saranno inesorabili nella loro violenza: Alfio ucciderà Turiddu. Sarà delitto d’onore.

Perché la donna doveva essere sottoposta al potere maschile. D’altra parte, nei secoli le donne hanno trovato molte vie alternative di violenza sugli uomini.

Nell’ambito di un lavoro fatto in una scuola superiore di Roma[i] su queste tematiche, una ragazza ha risposto così alla domanda - La violenza secondo te è più maschile o femminile?-

“La violenza non è né maschile né femminile. Prevalentemente forse è maschile, poiché è difficile pensare ad una donna che violenta un uomo, ma ciò non toglie il fatto che esista una forte violenza tra donne. È importante anche, secondo la mia opinione, distinguere la violenza fisica, in prevalenza degli uomini contro le donne, da quella psicologica che compare in entrambi i sessi.”

Torniamo a Turiddu: “E se io muoio e vado in paradiso”.

La prima volta che, alle origini della nostra cultura, si parla di Paradiso, è nella Genesi: il paradiso terrestre da cui siamo stati cacciati. Vediamo perché ne siamo stati cacciati.

Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.

Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: -Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti-.

Poi il Signore Dio disse: -Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile-. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome.

Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche, ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.

Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto.

Il Signore Dio plasmò con la costola che aveva tolto all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.

Allora l’uomo disse:-Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta-.

Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne.

Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna.” (Genesi 2, vv. 15-25).

“Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: - è vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?- Rispose la donna al serpente: – Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete – Ma il serpente disse alla donna: - Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male -. Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi: intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.” (Genesi 3, vv. 1-7).

 

“Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono le foglie di fico e se ne fecero cinture”. Dunque si coprono i genitali: la sessualità comincia ad essere vissuta come un problema difficilissimo da gestire.

Non c’è più il chiaro, piacevole, diretto istinto dell’animale. La sessualità comincia ad avere a che fare con la conoscenza del bene e del male.

  altPablo Picasso: Il centauroPablo Picasso: Il centauroLa nostra specie umana sta facendo solo i primi passi su questa via, dal centauro a noi, tra mille contraddizioni e paure.

Perché fa paura riconoscere l’altro se siamo fragili. E allora ci illudiamo di diventar potenti agendo violenza.

E allora, la sana affermatività sessuale, maschile e femminile, che è espressione della grande potenza creativa che dà piacere, può diventare violenza distruttiva.

Una violenza agita fisicamente più dai maschi. Il 90% dei delitti di coppia ha il maschio come aggressore. In Europa vengono uccise sette donne ogni giorno,trasversalmente a tutti gli strati sociali e culturali. In Italia nel 2011 sono state uccise 127 donne[ii].

Violenza agita più psicologicamente dalle donne, e su questo è difficile avere statistiche.

La sessualità dell’essere umano può innalzarsi verso la dimensione d’amore man mano che si allontana da quella del possesso.

La violenza nasce dalla brama del possesso in tutte le sue declinazioni, dove troviamo il bisogno, la dipendenza, la paura di essere abbandonati, il non tollerare di perdere l’oggetto del proprio desiderio, l’affermazione disperata del proprio ego.

Ci muoviamo verso l’amore quando riconosciamo l’altro come distinto, separato e diverso da noi, un’altra persona in tutta la sua dignità da rispettare.

Ci muoviamo verso l’amore quando ci riconosciamo come complementari, entrambi piccoli pezzi di universo.

Perché questa è l’evoluzione dal rettile al mammifero all’essere umano: vivere la vita, sentirla in relazione agli altri, riconoscerla come particella di un movimento misterioso e grande.

Quando riusciamo ad aprirci all’altro, agli altri, alla vita, cominciamo a conoscere l’amore che, come ci ha detto Dante “move il sole e l’altre stelle”. (Dante, Pradiso, XXXIII, 145).

altGustav Klimt: Il bacioGustav Klimt: Il bacio     



[i]Il lavoro è stato presentato nel convegno “ La violenza del silenzio, l’empatia dell’ascolto nella violenza sulle donne”. Roma, 3-4 Novembre 2010.

 

[ii]Dati tratti dal documento del Relatore Speciale dell’O.N.U. sulla violenza contro le donne, Rashida Manjoo, presentato a Ginevra il 24.06.2012.

 

Bibliografia
  • Galimberti, U. (1992), Dizionario di psicologia. Torino: UTET.
  • Targioni-Tozzetti, G., Menasci, G. (1890), Cavalleria Rusticana. Musica di Pietro Mascagni. Torino: Sonzogno.
  • Dante, A., Paradiso. XXXIII, 145.

* Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R.

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