Numero 2/2014

Un lavoro psicocorporeo con sopravvissute a violenza di genere in Medio-Oriente1

Cristina Angelini*
Edoardo Pera**

Dopo 12 anni di esperienza di lavoro con AIDOS2 in Medio Oriente (Giordania, Siria e striscia di Gaza) oltre che in Nepal ed in Tanzania, vorremmo condividere il ruolo fondamentale del lavoro corporeo anche in contesti culturali lontani, a volte molto conservatori, in cui questo approccio è poco diffuso o totalmente ignorato, applicato alla violenza di genere (Gender Based Violence - GBV), intesa qui come violenza domestica e sessuale.

Il nostro lavoro si è svolto all’interno di strutture sanitarie di salute riproduttiva simili ai nostri consultori, in collaborazione con lo staff locale.

Perché inserire un servizio sulla GBV all’interno di una struttura sanitaria? In primo luogo perché la GBV è ampiamente riconosciuta come un problema di salute pubblica. Inoltre in alcuni paesi e in alcune situazioni umanitarie, come quelle di conflitto, la diagnosi di GBV è possibile solo all’interno di strutture sanitarie: spesso l’unica chance di poter parlare di argomenti sensibili con un professionista avviene quando la donna va a fare una visita medica. Molti studi mostrano che le vittime di GBV raramente parlano del problema spontaneamente, per la vergogna che da sempre circonda questi temi, e che solo di rado vengono loro fatte domande al riguardo3. Ci preme ricordare che i crimini legati alla GBV sono i meno denunciati in assoluto in tutto il mondo.

In particolare vorremmo esplorare due aspetti: il lavoro proposto alle pazienti e la formazione degli operatori che lavoreranno nei centri di salute.

Il lavoro con le pazienti

Nel lavoro con le pazienti sopravvissute a violenza domestica e sessuale, il lavoro corporeo riveste un ruolo fondamentale. Questo anche in contesti sociali a volte di emergenza (come nei campi di rifugiati palestinesi a Gaza, o quelli iracheni e siriani in Giordania), a volte caratterizzati da violenza sociale e istituzionale: vedi il rischio di omicidio d'onore ancora molto diffuso e tollerato istituzionalmente in molte aree, o il fortissimo stigma sociale verso le donne che denunciano violenze sessuali, che a volte diventa forzatura alla prostituzione, perché la donna violentata è ormai sporcata irrimediabilmente.

In molte situazioni di conflitto, come ora in Siria, la violenza sessuale è usata come vera e propria arma di guerra4 e moltissime donne ne sono vittime, ma spesso questo aspetto non è adeguatamente affrontato dagli operatori e le vittime sono lasciate sole.

Il lavoro corporeo si è rivelato fondamentale sia nel processo di elaborazione del trauma, sia in quello di empowerment e presa di consapevolezza dei propri diritti.

E’ stato fatto spesso in gruppo, insieme ad altre utenti che hanno affrontato lo stesso problema, perché il gruppo si è rivelato una formidabile risorsa per rompere il senso di solitudine e di vergogna, sia per la possibilità di rispecchiamento che offre e sia per la possibilità di un ambiente con un contatto caldo e accogliente.

Il lavoro corporeo è stato fatto attraverso esercizi per riprendere il contatto con sé e ritrovare la possibilità di ristabilire fiducia negli altri.

Fondamentale è stata anche l'elaborazione verbale di ogni attività pratica svolta, per comprenderla ed integrarla anche a livello cognitivo.

Il trattamento di tutti i traumi risulta molto difficile per le caratteristiche specifiche dei ricordi traumatici, che sembrano non solo incistati all’interno della struttura psichica, ma i traumi da violenza domestica e sessuale sembrano anche incapsulati nel sistema famiglia e addirittura nel sistema sociale, con un fortissimo divieto a parlarne, che è spesso un vero e proprio tabù.

Questo tabù diventa poi una vera congiura del silenzio quando anche gli operatori che dovrebbero parlarne con le vittime non lo fanno.

Quando i ricordi traumatici riemergono, solitamente non hanno una trama narrativa logica, ma sono frammentati, intrusivi, come flashback, sensazioni slegate dal contesto presente, in cui l’esperienza è percepita come estranea e separata.

Negli ultimi 20 anni lo sviluppo delle tecniche di brain imaging, come la risonanza magnetica e altri approcci biochimici, ha portato ad una comprensione più profonda degli effetti biologici del trauma psichico (Solomon, Siegel, 2003).

Molti autori sottolineano come la base comune di queste esperienze sia una sorta di disorganizzazione cerebrale che comporta anche l’interruzione delle connessioni con le aree del linguaggio. L’area di Broca smette di lavorare, l’amigdala (un nucleo centrale del cervello limbico, particolarmente implicata nella paura, nell’allarme e nell’immagazzinamento mnemonico) si iperattiva e la corteccia prefrontale, che ha un ruolo centrale nei processi integrativi, ha invece una bassa attivazione.

"Nel momento di richiamo mnemonico dei fatti traumatici i soggetti con Post Traumatic Stress Disorder (PTSD) mostrano schemi di connessione cerebrale coerenti con i tipici pattern non-verbali (attivazione dei lobi occipitali, lobo parietale destro e giro posteriore del cingolo), e balza evidente la differenza con i soggetti del gruppo di controllo che attivano invece vie neurali coerenti con gli schemi verbali di memoria (corteccia prefrontale sinistra e cingolato anteriore). Tutto questo è congruente con quanto si rileva clinicamente: i pazienti con PTSD sperimentano le loro memorie traumatiche come intrusive, atemporali e frammentate sensorialmente, e quindi con una marcata incapacità di esprimerle in una trama narrativa" (Stupiggia, 2013, n°1).

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Se la ricostruzione verbale del passato traumatico rimane quindi un passaggio importantissimo, l'introduzione del lavoro corporeo, sia pure con la dovuta attenzione ai rischi di riaperture dei vissuti traumatici, è per noi essenziale per uscire dall'esperienza di terrore e fornirne una correttiva, per quanto possibile.

La traumaticità di certi eventi provoca a volte un fenomeno ben noto ai clinici: la dissociazione dal corpo. Molte persone, cioè, riferiscono di non percepirsi più nel proprio corpo e di sentirsi fuori guardando se stessi come un osservatore esterno. E' una reazione dovuta alla necessità di proteggersi dall’eccesso di terrore e impotenza.

L'area cerebrale più sollecitata in questi casi è quella corrispondente al cosiddetto cervello rettiliano, la zona più arcaica del nostro cervello. Risulta quindi fondamentale favorire l'integrazione con le aree più evolute (zona limbica e neo-pallium) per un'elaborazione che sia funzionale e permetta l'uscita dallo stato di terrore-panico-paralisi.

Occorre, quindi, guardare al trattamento di questi disturbi con un’ottica che aiuti le persone a rientrare nel corpo, anche come base sufficientemente sicura per poter elaborare l’esperienza traumatica.

Tutte le reazioni al trauma possono riaffiorare durante il lavoro corporeo, bisogna quindi procedere a piccoli passi, non forzare mai la persona ad andare oltre la propria soglia di sostenibilità, essere capaci di creare un clima di fiducia e accoglienza senza il quale l'integrazione non può avvenire.

Cruciale appare anche aiutare la persona a modificare la percezione che ha dell’ambiente circostante: trasformare il senso di minacciosità in senso di sicurezza.

Qui entra la peculiarità del lavoro di gruppo, dove si possono sperimentare relazioni di fiducia non solo col terapeuta, ma anche con altre persone che hanno vissuto le stesse esperienze e che le stanno elaborando.

Nei centri di salute che abbiamo contribuito a creare in Giordania, Siria e a Gaza abbiamo promosso molto la formazione di alcune utenti motivate, in modo da renderle soggetti attivi nel processo terapeutico delle altre pazienti e, in un certo modo, nel processo di trasformazione sociale.

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Vogliamo anche sottolineare come le vittime di violenza domestica, sperimentino una situazione particolare in cui i perpetratori della violenza sono solitamente persone con cui si ha un legame affettivo. C’è dunque una sorta di doppia minaccia: dall’esterno (l’aggressione) e dall’interno (perdita dell'oggetto d’amore, perché spesso chi usa la violenza è comunque una persona amata, vicina, e da cui si suppone di essere amati).

In continuità con la metodologia analitico-reichiana (Ferri, Cimini, 2012) sono proposti degli acting, secondo una sequenza flessibile a seconda della specifica situazione del gruppo.

Il lavoro proposto parte da esercizi di consapevolezza corporea per ricominciare piano piano a sentirsi, a respirare, a muoversi nello spazio.

E’ molto incoraggiata e rinforzata la presenza oculare, la capacità di mettere gli occhi senza disgregarsi e quindi di integrare le sensazioni frammentarie. E’ stimolato anche un aumento della sensazione di radicamento, di grounding, così importante per tutti ma soprattutto per i rifugiati, che oltre ad aver subìto traumi spesso multipli, sono all’interno di una situazione traumatica ancora attiva, quella dell’allontanamento forzoso dalla propria terra.

Alcuni acting proposti sono quelli del livello oculare (attivando convergenza, mobilità e la rotazione degli occhi, proposti sempre con molta attenzione alla situazione e alla sostenibilità della persona). Tutti gli esercizi oculari stimolano la corteccia prefrontale e favoriscono i processi integrativi.

In particolare si è rivelato importante l’acting dello spostamento della convergenza oculare da un punto fisso alla punta del proprio naso, per la sua capacità di stimolare un ritorno a sé all’interno di una relazione con l’altro da sé.

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Un altro acting utile, sempre nell’ottica di tonificare il sé, è stato quello che chiede alla persona di dire la parola “Io” appoggiandola al finale dell’inspirazione, con ritmo regolare.

Molto gradualmente poi si passa a esercizi di contatto con l'altro: prendersi per mano, guardarsi negli occhi, fino a veri e propri esercizi di fiducia e affidamento quando è possibile. Tutto sempre seguito da una fase di elaborazione verbale dei vissuti che emergono.

E’ spesso proposto un lavoro espressivo-artistico, che aiuta l’elaborazione verbale. Molti disegni sono davvero belli e impressionanti per la carica emotiva che comunicano, sia quando descrivono l’abuso subito, sia quando esprimono le emozioni provate.

La formazione del personale

Il secondo punto riguarda il ruolo fondamentale del lavoro corporeo nella formazione del personale socio-sanitario locale (ginecologhe, infermiere, ostetriche, psicologhe e assistenti sociali) che lavora in servizi di GBV, per andare oltre i tabù e gli stereotipi che impediscono di approcciare adeguatamente il problema e per non incorrere nel rischio, molto frequente, di rivittimizzazione delle utenti.

Questo tipo di training ha affiancato all'elaborazione teorica moltissime attività pratiche, utilizzando prevalentemente esercizi corporei allo scopo di mettersi nei panni delle utenti e comprendere nel corpo, prima ancora che nella mente, i loro vissuti e bisogni. E’ importante comprendere in prima persona le difficoltà che le utenti provano nel chiedere aiuto, e come il proprio lavoro necessiti di uno spirito di squadra in collaborazione con i colleghi. L'importanza della cooperazione del team è cruciale non solo per dare aiuto all'altro, ma anche per prevenire il rischio di burn-out degli operatori, altissimo in questi contesti.

Nell’ultimo anno abbiamo inserito, sia nella formazione degli operatori che nel lavoro con i pazienti, anche la pratica della mindfulness (pratica di consapevolezza).

In convergenza con il lavoro analitico-reichiano sono stimolate le funzioni correlate all’attività delle aree mediali della corteccia prefrontale. L’utilizzo di questa pratica è stato adottato per aiutare ulteriormente a rientrare nel corpo e allo stesso tempo a modificare il rapporto con le emozioni, modulandole ed integrandole. Anche in questo caso numerosi lavori scientifici hanno mostrato effetti importanti sulla neuroplasticità e sulla regolazione delle emozioni. Sono stati registrati cambiamenti strutturali cerebrali: le scariche ripetute dei neuroni determinano un aumento significativo della densità sinaptica delle regioni attivate dalle pratiche mindful e in particolare in quelle preposte all’integrazione (Siegel, 2009).

E’ in fase di attuazione un progetto di ricerca per monitorare e quantificare gli effetti dei trattamenti su campioni significativi di utenti.

 


[1] Sintesi di lavori presentati:
- in occasione della Commission on the Status of Women (CSW) 58° a NewYork, USA, in due occasioni, nel "Prioritizing Sexual and Reproductive Health and Rights in the Context of the Humanitarian/Development Continuum" - United Nations Population Fund (UNFPA), 14th March 2014 e nel "Workshop: Innovative approach to sexual and reproductive health and violence against women in the Middle East", The Armenian Church, 15th March 2014.
- nel 14th European Congress of Body Psychotherapy: The Body in Relationship SELF – OTHER – SOCIETY. EABP (European Association for Body Psychotherapy), 11-14th Sept 2014, Lisbona, Portogallo.
 
[2] AIDOS (Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo). Attualmente, all'interno di un nuovo progetto AIDOS finanziato dall'Unione Europea, stiamo formando un nuovo gruppo di operatori in Giordania in 3 luoghi (Salt, Zarqa e Balqa) dove sono stati creati 3 centri di salute indirizzati soprattutto ai rifugiati siriani dislocati in quelle aree. Ogni centro ha un medico donna, un'infermiera, una psicologa donna e uno psicologo uomo, un facilitatore che lavora con i giovani e un'assistente sociale.

[3] A Practical Approach to Gender-Based Violence: A Programme Guide for Health Care Providers and Managers, UNFPA, United Nations Population Funds, Pilot Edition 2001.

[4] RCT Field Manual on Rehabilitation, Rehabilitation and Research Centre for Torture Victims Version 1:1, Copenaghen 2007.

 

Bibliografia
  • Ferri G., Cimini G. (2012), Psicopatologia e Carattere. Roma: Alpes Italia.
  • Siegel, D., (2009), Mindfulness e cervello. Milano:Cortina ed.
  • Solomon M.F., Siegel D. J., (2003), Healing Trauma: Attachment, Mind, Body and Brain. W.W. Norton, New York.
  • Stupiggia M., (2013) rivista Psicoterapia Analitica Reichiana, n. 1.

 


* Psicologa, Psicoterapeuta, Socia S.I.A.R., Coordinatrice della formazione nei progetti internazionali su salute della donna e violenza di genere.

** Psicologo, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R.

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