AL PRINCIPIO FREUD

AT THE BEGINNING FREUD

 

Marcello Mannella[*]

 

Abstract

     Per Freud la sessualità umana non è un istinto chiaro e definito, ma un processo al cui sviluppo contribuiscono in maniera inestricabile fattori biologici e culturali. Aver umanizzato la sessualità, averla sottratta alla stabilità e rigidità del biologico e averla inserita nell’ordine del discorso, è uno dei suoi principali meriti intellettuali. Se dunque, per tanti versi risultano giustificati gli strali polemici dei movimenti delle donne, dei gay, dei transessuali e dei transgender, di quanti cioè si sentono eccentrici rispetto alla normatività del paradigma eterosessuale che la psicoanalisi ha finito col sostenere, è però non soltanto poco generoso ma anche controproducente sul piano culturale, disconoscere la sua immensa portata innovatrice.

 

Parole chiave

     Pulsione - Fasi – Corpo organismo – Corpo vivente – Ordine del discorso.

 

Abstract

     For Freud, human sexuality is not a clear and defined instinct, but a process whose development is inextricably linked to biological and cultural factors. Humanizing sexuality, removing it from the stability and rigidity of the biological and inserting it in the order of discourse, is one of its main intellectual merits. If, therefore, in so many ways are justified the contentious arrows of women, gays, transsexual and transgender, that is, of those who feel eccentric with respect to the normativity of the heterosexual paradigm that psychoanalysis ended up supporting, however, it is not only ungenerous but also counter-productive on the cultural level, disregard its immense innovative scope.

 

Key words

     Pulsion – Phases – Organism body - Living body – Order of discourse.

 

 

     Non potremmo pensare il mondo contemporaneo senza il genio di Freud. La sua riflessione non è stata importante soltanto per le ricadute in ambito medico – gli sviluppi in psichiatria, psicologia e medicina - ma ha riguardato il cinema, la letteratura, l’arte, la filosofia, la politica, l’antropologia, contribuendo ad una profonda rivoluzione culturale e antropologica.

     Con Freud l’immagine dell’uomo occidentale è radicalmente cambiata. All’ontologia cartesiana, che aveva suggellato l’umanesimo moderno, di un uomo coerente e trasparente a se stesso, capace di comprensione chiara e distinta del mondo, così come di volizioni coscientemente e razionalmente motivate, se ne è sostituita una problematica.

     L’essere dell’uomo per Freud non è intrinsecamente razionale. La ragione non governa con mano ferma la psiche e non è neppure originaria. La psiche è primariamente inconscia e la ragione è soltanto il frutto dello sviluppo filo e ontogenetico: “L’Io, in fin dei conti, è soltanto una parte dell’Es, una parte opportunamente modificata dalla vicinanza del minaccioso mondo esterno” (Freud, 1978, p. 482).

     L’io del resto non è costitutivamente votato alla verità, ma è piuttosto rivolto ad evitare il dispiacere. Trovandosi nella situazione di dover scegliere, non è affatto raro che scelga di evitare l’esperienza dell’angoscia piuttosto che prendere coscienza della verità dei suoi comportamenti e che a tal fine metta in atto tutta una serie di elaborate strategie (meccanismi di difesa).

     I comportamenti umani pertanto sono spesso incoerenti, contraddittori, perché più della ragione prevalgono motivazioni inconsce infantili e irrazionali. La condizione dell’Io allora è tutt’altro che invidiabile. È simile a quella del servitore che deve continuamente conciliare la volontà di tre padroni severi (il mondo esterno, il Super Io e l’Es) e “si dà da fare per mettere d’accordo le loro esigenze piene di pretese” (ivi, p. 483).

     Soltanto attraverso un faticoso e umile esercizio di attenzione, nel riconoscimento costante della propria problematicità, l’uomo può dare una direzione coerente alla propria vita.

     Freud ebbe chiara coscienza del carattere culturalmente dirompente della psicoanalisi, dell’azione inevitabilmente smascherante[1] che avrebbe esercitato nei riguardi delle certezze cui l’uomo occidentale si era tradizionalmente affidato per dare stabilità e sicurezza alla propria esistenza. Egli la considerava la terza grande ferita narcisistica che l’umanità aveva subito nel corso della sua storia, l’ultima e decisiva frustrazione affinché potesse uscire da una rappresentazione illusoria e infantile della propria condizione ed entrare finalmente nella maggiore età.

     La prima era stata inferta dal decentramento copernicano del nostro pianeta. L’umanità realizzava improvvisamente che il cosmo non era stato creato per lui e di non potersi più considerare la creatura prediletta di Dio.

     La seconda ferita narcisistica era stata inferta dalla teoria dell’evoluzione biologica darwiniana che aveva mostrato l’origine mondana dell’uomo. Egli scopriva di non godere di uno statuto ontologico privilegiato, che la sua origine non era divina, ma prosaica in quanto frutto – seppure il più alto – di un processo evolutivo casuale delle specie animali inferiori.

     All’uomo restava ancora un residuo del suo antico splendore, sufficiente ad inorgoglirlo. La sua presunta essenza razionale, che aveva trovato in età moderna la sua giustificazione nel cogito cartesiano, e che continuava a fare di lui un essere del tutto unico e speciale. La psicoanalisi crudelmente distruggeva anche quest’ultima illusione mostrando che il povero Io non è padrone neanche in casa propria.

     L’azione smascherante della psicoanalisi non si fermava però qui.

     Sebbene Freud non l’abbia esplicitato – costituendo pertanto uno dei suoi fertili “non detti”[2] -  la psicoanalisi finiva con affermare la “precarietà” dell’esistenza umana anche rispetto al mondo animale. Operando la distinzione fra istinto (istintk) – proprio degli animali - e pulsione (trieb) – propria degli uomini - Freud ha mostrato il carattere aperto della ontologia umana, la sua realtà di essere carente[3].

     “Carenza istintuale da un lato ed eccesso pulsionale dall’altro. Questa almeno è la lezione di Freud che, sostituendo, nel caso dell’uomo, la parola ‘istinto’ (Instinkt) con la parola ‘pulsione’ (Trieb), sancisce la differenza tra l’uomo e l’animale e salda le forze oscure che agitano i corpi con le espressioni più alte che la nostra cultura attribuisce allo spirito. Questo nesso, che è poi il modo freudiano di oltrepassare il dualismo anima e corpo, racchiude la specificità dell’umano che, a differenza dell’animale, è privo di istinti e carico di pulsioni” (Galimberti, 2000, p. 186).

     L’esigenza di affermare la realtà pulsionale dell’uomo nasceva dalla costatazione che i suoi comportamenti erano complessi, sovradeterminati, plastici, variabili, e non potevano pertanto essere compresi attraverso il concetto di istinto.

     L’istinto dà luogo a comportamenti stabili e definiti su base ereditaria.  L’istinto è univoco così come univoca è la sua meta; è rigido al punto da non poterne essere differita la scarica. La pulsione pur essendo anch’essa ereditariamente determinata, presenta una carica energetica ridotta, ed è suscettibile di essere modulata dall’esperienza individuale. Ancora, la pulsione è plastica, non univoca – le pulsioni si possono fondere (impasto pulsionale) – può essere sublimata; le sue mete possono essere molteplici (dalla soddisfazione orgastica alle creazioni artistiche, morali e spirituali), la sua scarica può essere procrastinata. Le pulsioni, ancora, sono anarchiche perché non sono fra loro coordinate e tendono al piacere in modo autonomo (pulsioni parziali).

     È in Metapsicologia (Freud, 1978), che Freud aveva provato a dare spiegazione dei fondamentali principi della psicoanalisi. A proposito della pulsione, egli ne aveva individuato una fonte, i distretti corporei e gli organi da cui promana l’eccitamento; una spinta, ovvero l’intensità con cui la pulsione si manifesta; una meta, ovvero la ricerca del soddisfacimento, inteso come una vera e propria scarica delle sostanze prodotte dall’organismo (libido) e che provocano l’eccitamento; un oggetto, parziale o intero, attraverso cui realizzare il soddisfacimento. Ad esclusione della meta, le altre componenti della pulsione (la fonte, la spinta e l’oggetto) risultavano essere variabili da individuo a individuo e nello stesso individuo nelle diverse fasi evolutive.

     La pulsione per Freud – e qui possiamo cogliere un altro decisivo bagliore del suo genio – è qualcosa al limite fra il somatico e lo psichico, un fenomeno cioè che non ha un carattere puramente biologico, ma che si intreccia e si costituisce nell’incontro fra natura e cultura.

     La condizione umana, pertanto, non risponde alla ferrea determinazione degli istinti, come quella animale[4]. Essa risulta piuttosto incerta e problematica perché la costitutiva carenza biologica (l’assenza di un corredo istintuale) pone l’uomo di fronte alla necessità di attuare strategie per poter vivere e dare stabilita alla propria esistenza.

     Orientarsi nel mondo esterno non costituisce, del resto, la sua unica responsabilità. Simultaneamente, la carenza biologica lo impegna nel compito di dare ordine al proprio mondo interno. Infatti, mentre le specie animali riconoscono del proprio ambiente solo gli stimoli suscettibili di innescare comportamenti adattivi, la vita dell’uomo è caratterizzata da una continua eccitabilità perché è costretto a elaborare il profluvio di stimoli che gli si fanno incontro dal mondo esterno. L’interiorità umana è dunque costitutivamente indefinita, disordinata. Inibire, negare, procrastinare, sublimare, trasformare e dare forma ai contenuti del mondo interno, è un compito che caratterizza l’intero arco della nostra esistenza.

     L’intuizione freudiana del carattere aperto dell’ontologia umana e dell’intreccio costitutivo di natura e cultura[5], trova una chiara esemplificazione nella narrazione psicoanalitica della vita sessuale. Se è vero, infatti, che ne i Tre saggi sulla vita sessuale – in sintonia col meccanicismo imperante nella sua epoca - egli aveva esposto una concezione energetico-pulsionale[6] dell’organismo umano, è anche vero che egli aveva sentito il bisogno di operare – come abbiamo già visto - la distinzione fra istinto (istintk) e pulsione (trieb).

     Freud non considera la sessualità una realtà stabile e definita fin dal suo sorgere. La concepisce piuttosto come un processo che solo attraverso un difficoltoso cammino raggiunge - ancorché conservando un carattere precario - una definizione matura. Nella infanzia la pulsione sessuale è caotica, polimorfa, autoerotica; le stesse fasi del suo sviluppo, l’orale, l’anale e la fallica-genitale, non si susseguono in maniera lineare, ma piuttosto assistiamo al loro sconfinare, sovrapporsi, confondersi – la libido può del resto rifluire sulle fasi precedenti - divenendo impossibile demarcarle con chiarezza.

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     Con la psicoanalisi la sessualità ha smesso di essere un fatto puramente biologico.

     “Ciò che fa scandalo non è, come comunemente si crede, parlare di sessualità e neppure di patologia sessuale. A quell’epoca le perversioni erano oggetto di ricerca scientifica e persino di divulgazione. Ciò che si stenta ad accettare è che, per Freud, la sessualità umana è anche questione di pensiero, di fantasia, di parola” (Vegetti Finzi, 1986, p. 12).

     Prima di Freud la sessualità era considerata un dato biologico stabile e definito; una proprietà esclusiva del corpo. L’istinto sessuale – perché di istinto si trattava – sorgeva nella pubertà nella forma della sessualità adulta eterosessuale ed era inscindibile dalla capacità riproduttiva. La considerazione naturale della sessualità aveva comportato una logica normativa dei costumi sessuali e dunque, per converso, un elenco nutrito di perversioni, cioè di stili di vita sessuale deviati tanto nella forma – gli orientamenti sessuali diversi da quello eterosessuale – che nelle finalità – le pratiche sessuali che esulavano dalla finalità riproduttiva.

     Sfidando il tradizionalismo perbenista della società medica viennese del tempo, incurante dell’accusa infamante che la sua teoria sessuale fosse il frutto inevitabilmente perverso del suo essere ebreo, Freud ha il coraggio da solo di andare controcorrente, di mettere in discussione credenze secolari, di affermare il carattere evolutivo della sessualità, di mostrare la realtà perversa polimorfa della sessualità infantile – altro che angioletto asessuato! - di considerare la funzione riproduttiva soltanto una delle funzioni della sessualità, ma, soprattutto, come abbiamo già affermato, di sottrarla alla stabilità biologica e di iscriverla in un orizzonte semantico.

     “La commistione che si produce infrange il dualismo corpo-anima, la loro collocazione antinomica. Il corpo può parlare (‘linguaggio d’organo’ definirà Freud il sintomo isterico) e la parola può curare perché entrambi sono animati da una medesima energia sessuata” (ibidem, p.12).  “La sessualità non è per lui un oggetto opaco, riducibile a parti del corpo anatomico o a funzioni dell’organismo, ma un’energia vitale che informa tanto il corpo quanto lo psichico” (ibidem, 1986, p. 12).

     Pertanto, anche se la riflessione sessuale freudiana finirà col restare irretita nel dispositivo di sessualità della Scientia sexualis (Foucault, 2001), occorre evidenziare l’importanza di averne sollecitato la presunta natura biologica, di averla scalzata da una considerazione meramente naturale, di averla inserita in un orizzonte discorsivo aprendo nel tempo la strada - seppur indirettamente – alla sua decostruzione e alla moltiplicazione dei discorsi intorno ad essa.

     Con Freud la sessualità acquista un diverso statuto. Essa non è più espressione del corpo organismo, del corpo che ho (korper), ma del corpo vissuto, del corpo che sono (leib), che in quanto unità di percezione e movimento, in quanto intenzionalità, mi permette di fare esperienza del mondo[7].

     Il richiamo alla fenomenologia è di fondamentale importanza perché ci consente di comprendere l’unione indissolubile di natura e cultura, di individuo e ambiente, e, pertanto, di venir fuori dalla fondamentale antinomia in cui inevitabilmente ci si imbatte quando riflettiamo intorno alla sessualità umana.

     L’antinomia è rappresentata dal confronto/scontro fra quanti sostengono la tesi del carattere biologico, naturalmente determinato della sessualità umana, e quanti invece ne perorano l’antitesi: il suo carattere puramente culturale. Entrambe le posizioni sono radicali e foriere di errori e di pericolose conseguenze perché pervengono o ad atteggiamenti di intolleranza normativa che respingono nel campo dell’abietto e del patologico gli stili sessuali e le identità di genere che non si fondano sull’allineamento normativo di sesso, genere e orientamento sessuale, o, all’opposto, perché sostengono la liberalizzazione della vita sessuale, affermando il carattere assolutamente fluido dell’identità e dell’orientamento sessuale che, liberamente scelti, possono essere cambiati più volte e a piacimento durante il corso dell’esistenza.

     Per uscire da questa decisiva antinomia, che è in qualche modo sempre presente, anche quando assume forme meno radicali e che ci costringe allo stallo teoretico, è necessaria una diversa considerazione del corpo. Bisogna lasciare cadere contemporaneamente sia la considerazione biologista (il corpo come dato naturale stabile e immutabile che dà esito al determinismo e alla normatività eterosessuale), sia, all’opposto, la considerazione del corpo come superficie opaca e passiva in cui la cultura può scrivere a piacimento i propri copioni (costruttivismo radicale). Occorre una diversa e più complessa epistemologia.

     Bisogna considerare i corpi nella propria particolarità e individualità, nella concretezza della propria storicità, frutti unici e irripetibili dello sviluppo evolutivo (si veda Mannella, Desiderio amoroso e costruzione del sé, in PsicoterapiaAnaliticaReichiana, rivista online, n.1/2020). Il corpo così inteso rappresenta un vincolo ineludibile alle pratiche sociali. Il vincolo, però, non limita semplicemente i possibili, non definisce soltanto il limite del possibile, ma è anche opportunità (Ceruti, 1986), rende cioè possibile i possibili che altrimenti non potrebbero avere corpo, non potrebbero incarnarsi.

     Alla luce del pensiero complesso, la sessualità umana e il processo di costruzione dell’identità di genere dunque non sono né il frutto di un processo biologicamente determinato, né conseguenza esclusiva delle pratiche sociali. L’identità sessuale è un processo stocastico, in cui necessità (il vincolo corporeo, il corpo considerato non nell’astrattezza della sua presunta naturalità, ma nella sua concretezza storica-evolutiva) e libertà (il “voler essere”) sono indissolubilmente intrecciati e danno origine alla realtà molteplice e variegata delle identità sessuali individuali. La sessualità umana è una creazione autopoietica che scaturisce dall’accoppiamento strutturale fra il sé (il sistema vivente individuo) e il mondo sociale e culturale (l’ambiente).

     Il corpo, dunque, pur essendo uno dei luoghi privilegiati sul quale si plasma il discorso sociale, non è però passivo di fronte all’azione delle pratiche sociali, ma partecipa attivamente alla definizione della propria identità.

     “I corpi sono sia oggetti delle pratiche sociali, sia attori di quelle stesse pratiche”. (Connell, 2006, p. 127)

     “I corpi hanno una realtà che non può essere ridotta: sono immersi nella storia senza per questo cessare di essere corpi. Non si trasformano in segni o posizioni del discorso (anche se i discorsi fanno costantemente riferimento ai corpi). La loro materialità continua a contare”. (ibidem, p. 127)

     Ma ritorniamo a Freud. Per il padre della psicoanalisi dunque la sessualità umana non è un istinto chiaro e definito, ma un processo punteggiato da fasi al cui sviluppo contribuiscono in maniera inestricabile fattori biologici, psicologici e culturali. Aver umanizzato la sessualità, averla sottratta alla stabilità e rigidità del biologico, è come abbiamo visto uno dei suoi principali meriti intellettuali. Questa comprensione della sessualità umana gli consentirà di maturare ed assumere posizioni sorprendenti e inusitate per il suo tempo.

     A proposito dell’omosessualità - un tema allora assai discusso che animava il dibattito intorno alla natura dell’identità sessuale – Freud, al netto della sua ambivalenza, tese a superare la considerazione meramente clinica in cui solitamente era inquadrata. Ad una madre americana che gli scriveva per essere aiutata a comprendere l’omosessualità del figlio, Freud rispondeva che “Certamente l'omosessualità non è un vantaggio, ma non è nulla di cui vergognarsi, né un vizio, né una degradazione; né può essere classificata come una malattia: la consideriamo come una variante della funzione sessuale prodotta da un certo arresto dello sviluppo sessuale. Molti individui altamente rispettabili dei tempi antichi e moderni sono stati omosessuali, e fra loro alcuni dei più grandi (Platone, Michelangelo; Leonardo da Vinci ecc.). È una grande ingiustizia perseguitare l'omosessualità come un crimine, ed anche una crudeltà” (Jones, 1995, p. 236).

     In un’aggiunta del 1915 ai Tre saggi, Freud, coerentemente alla convinzione della bisessualità originaria dell’essere umano[8], dichiarava che “L’indagine psicoanalitica si rifiuta con grande energia di separare gli omosessuali come gruppo di specie particolare dalle altre persone. Essa, studiando eccitamenti sessuali diversi da quelli che si manifestano normalmente, sa che tutte le persone sono capaci di scegliere un oggetto sessuale dello stesso sesso e che hanno fatto questa scelta nell’inconscio” (Freud, 1905, p. 460).

     “Nel senso della psicoanalisi, dunque, anche l’interesse esclusivo dell’uomo per la donna è un problema che ha bisogno di essere chiarito e niente affatto una cosa ovvia da attribuire a un’attrazione fondamentalmente chimica” (ibidem).

     In Metapsicologia Freud rimarca il carattere aperto della sessualità umana affermando che l’oggetto “è l’elemento più variabile della pulsione, non è originariamente collegato ad essa, ma le è assegnato soltanto in forza della sua proprietà di rendere possibile il soddisfacimento […]. Può venir mutato infinite volte durante le vicissitudini che la pulsione subisce nel corso della sua esistenza”. (Freud, 1978, pp. 32/3).

     Freud pertanto era contrario alla cosiddetta terapia riparativa. Il trattamento analitico degli omosessuali era legittimo soltanto qualora questi ultimi ne avessero fatto esplicita richiesta, ma, in ogni caso non era la loro omosessualità a dover essere curata. L’attenzione terapeutica doveva essere rivolta piuttosto al vissuto egodistonico della propria omosessualità (oggi diremmo all’omofobia internalizzata) da parte del paziente.

     Jones, che si mostrava titubante circa la possibilità che anche gli omosessuali potessero accedere al training di formazione analitico, così Freud rispondeva: “Caro Ernest, abbiamo considerato la sua domanda concernente l’eventuale associazione di omosessuali, e non siamo d’accordo con lei. In realtà non possiamo escludere tali persone senza avere sufficienti ragioni d’altro tipo” (Bassi, Galli, 2000, p.10).

     L’apertura e la problematicità concettuale della psicoanalisi freudiana rimangono vere anche quando lo stesso Freud nel corso della sua vita e della sua opera non ebbe sempre il coraggio e la forza – e lo si può capire - di sostenere fino in fondo le sue stesse idee e la psicoanalisi progressivamente rifluisce su posizioni intellettuali – e politiche - conservatrici. 

     La ricchezza concettuale della psicoanalisi era destinata ad essere inficiata dalla considerazione energetico-pulsionale della mente umana e dal prevalere dell’inspirazione darwiniana di fondo che fecero trionfare la considerazione biologista della sessualità che come quella animale doveva culminare nella sessualità genitale riproduttiva. La teoria e la pratica psicoanalitiche assumeranno infine posizioni definitivamente conservatrici alla morte di Freud.

     Se dunque, per tanti versi risultano giustificate le critiche e gli strali polemici – lungo tutto il corso del XX sec. - dei movimenti delle donne, dei gay, dei transessuali e dei transgender, di quanti si sentono eccentrici rispetto alla normatività del paradigma eterosessuale e del binarismo di genere che pure la psicoanalisi ha finito col sostenere, è però non soltanto poco generoso ma anche controproducente sul piano culturale, disconoscere la sua immensa portata innovatrice.

     È importante tenere a mente che senza di essa, senza il suo sforzo di sottrarre la sessualità umana alla stabilità e alla rigidità del biologico, non sarebbe stato possibile pervenire ad una comprensione di essa aperta e complessa.

     Senza la psicoanalisi dunque non avrebbe potuto aver inizio quella difficile e contrastata avventura intellettuale ed esistenziale che durante tutto il XX sec. ha visto le donne, gli omosessuali, le lesbiche, i transessuali, i transgender – tutti quei soggetti cioè che sono stati relegati in una posizione di inferiorità e subalternità o respinti nell’ambito dell’abietto dal paradigma del binarismo di genere e della eterosessualità normativa - lottare per il riconoscimento della propria dignità e legittimità. In fondo, per il riconoscimento della loro umanità. (per uno sviluppo critico dell’argomento si veda il 2° capitolo – in particolare i paragrafi Gli studi di genere e La teoria psicoanalitica di genere - del mio libro Wilhelm Reich. Il dramma e il genio, 2014, Alpes, Roma).

[1] Insieme a Marx e Nietzsche, Freud è considerato da Ricoeur un maestro del sospetto, nel senso che la sua opera ha operato una azione di smascheramento dei miti e delle illusioni che hanno caratterizzato la cultura occidentale. (Ricoeur, 1991).

[2] La grandezza di un’opera non è costituita soltanto da ciò che l’autore ha esplicitamente detto, ma anche, se non soprattutto, dai suoi impliciti, dai suoi “non detti”. È per il loro tramite che l’opera assume un carattere immortale, suscettibile cioè, se adeguatamente interrogata, di istituire sempre nuovi universi semantici - heideggerianamente di aprire nuovi mondi - per le generazioni a venire.

[3] Tali concetti saranno problematizzati e sviluppati da quella esperienza di pensiero novecentesco che va sotto il nome di antropologia filosofica. Tale scuola di pensiero riconosce all’uomo una posizione unica fra gli esseri viventi ed afferma che la differenza che marca la distanza dal mondo animale non è di grado ma qualitativa. L’uomo ha sul piano biologico qualcosa in meno rispetto all’animale perché manca di specializzazioni (di istinti); ed è proprio la sua realtà di essere carente che lo pone di fronte alla necessità di attuare strategie per poter vivere e relazionarsi al mondo. Dalla sua carenza biologica deriva la sua differenza ontologica: egli è l’unico essere costretto a progettare la sua esistenza. Biologicamente costretto a dominare la natura attraverso l’agire tecnico, l’uomo ha dato creativamente origine ad una molteplicità di forme culturali e sociali, riuscendo ad abitare ogni luogo del mondo. La cultura viene così a costituirsi come la vera natura dell’uomo. Fondatore della disciplina è considerato Max Scheler (1847 – 1928). Helmut Plessner (1892 – 1985) ed Arnold Gehlen (1904 – 76) ne sono i più importanti continuatori.

[4] In effetti di comportamento istintivo si può parlare solo per le specie animali inferiori (rettili e insetti), le specie animali superiori presentano una maggiore variabilità dei comportamenti che sono in gran parte appresi. Del resto, anche nell’uomo possiamo riconoscere l’esistenza di comportamenti istintivi – attivi soprattutto nei primi momenti della sua esistenza – come il riflesso della suzione e della prensione.

[5] L’intreccio fra natura e cultura nell’uomo trova decisive corroborazioni sia sul piano filogenetico che ontogenetico. Gli antropologi sostengono la tesi, apparentemente paradossale, che la cultura sia lo stato originale dell’esistenza umana. Le scoperte della paleontologia attestano la presenza della cultura umana a circa tre milioni di anni fa, mentre l’attuale forma umana (Homo sapiens) daterebbe appena 400.000 anni. La cultura sarebbe sorta a livelli molto meno evoluti dello sviluppo biologico umano, che si sarebbe pertanto completato sotto la pressione della selezione culturale. Secondo Geertz è erronea la tesi “che ritiene l’evoluzione mentale e l’accumulazione culturale due processi completamente separati, per cui il primo sarebbe stato essenzialmente completato prima che iniziasse il secondo” (Geertz, 1998, p. 93). A suo parere è evidente “che non solo l’accumulazione culturale era avviata ben prima che cessasse lo sviluppo organico, ma che, molto probabilmente, questa accumulazione ebbe un ruolo attivo nel modellare le fasi di sviluppo finali […] Poiché la fabbricazione di arnesi valorizza l’abilità manuale e la capacità di progettare, la sua comparsa deve aver influenzato lo spostamento delle pressioni selettive così da favorire lo sviluppo del proencefalo, come fecero con tutta probabilità i progressi dell’organizzazione sociale, nella comunicazione e nella regolamentazione morale che – vi è ragione di credere – avvennero pure durante questo periodo di sovrapposizione del mutamento culturale e di quello biologico. […] Il punto è che la generica costituzione innata dell’uomo moderno (quella che in tempi più semplici si chiamava ‘natura umana’) appare ora essere un prodotto sia culturale che biologico, dato che è probabilmente più corretto pensare a gran parte della nostra struttura come risultato della cultura che pensare ad uomini anatomicamente simili a noi che scoprono lentamente la cultura”. (ibidem, pp. 85/6).  Sul piano ontogenetico e dello sviluppo fisiologico umano, assai significative sono le affermazioni dello zoologo Portnamm che ha definito il neonato “un parto prematuro normalizzato, tipicizzato”, e considera il suo primo anno di vita “un anno embrionale extrauterino” (Portmann A, 1989). Mentre, infatti, nel mondo animale il processo di maturazione fisiologica accade fondamentalmente nel grembo materno, e nella maggior parte delle specie a poche ore dalla nascita i nuovi nati sono in grado di sopravvivere autonomamente, è caratteristica propria dell’uomo, invece, che la maturazione delle funzioni motorie e percettive si completi fuori dell’utero nell’ambiente familiare e sociale. Solo dopo circa un anno il neonato acquisisce i caratteri che specificano la nostra specie: l’andatura eretta e la facoltà del linguaggio.

[6] La metapsicologia freudiana era figlia dello spirito positivista dell’‘800 ed era tutta tesa a spiegare il funzionamento della mente secondo i principi meccanicisti della scienza dell’epoca. La mente era assimilata ad un meccanismo di tipo idraulico attivato dalla produzione e dall’accumulo dell’energia biologica che, superata una certa soglia, doveva essere scaricata dando luogo ai comportamenti mentali o motori. Il sistema nervoso centrale era considerato assolutamente estraneo, e quindi sostanzialmente passivo, rispetto alle dinamiche pulsionali. Esso poteva al più operare nel senso della repressione e del controllo di determinate pulsioni o del loro grado espressivo. Progressivamente, nella seconda metà del XX secolo, l’originario paradigma biologista è stato sostituito – a partire dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby - dal nuovo paradigma dell’intersoggetttività, per cui l’individuo è da sempre inglobato in una matrice di relazioni che rappresentano il nutrimento e il terreno fondamentale per un sano sviluppo evolutivo.

[7] L’attuale ricerca neuroscientifica sembra corroborare tale posizione. La mente è considerata incarnata ed enattiva. I processi cognitivi non sono più considerati espressione di una mente separata e qualitativamente diversa dal corpo, ma come complessi processi sensomotori e, dunque, sono considerati espressione dell’intero sé. Non solo. La considerazione enattiva della mente afferma anche che nei processi cognitivi è sempre in atto la sinergia tra organismo e ambiente. Dove finisce la mente individuale e dove comincia la mente collettiva? Dove finisce la biologia e dove comincia la cultura?

[8] Ne I tre saggi sulla vita sessuale Freud afferma la normalità di un certo grado di ermafroditismo. “In nessun individuo di normale formazione maschile o femminile mancano le tracce dell’apparato dell’altro sesso […] (Freud, 1905, p. 457) e più avanti, “Da quando ho acquistato familiarità con l’idea della bisessualità, ritengo che questo fattore sia decisivo; senza tener conto della bisessualità, si potrà difficilmente giungere a comprendere le manifestazioni sessuali effettivamente osservabili nell’uomo e nella donna” (ibidem, p. 526). Freud, come spesso gli è capitato, si è contraddice. Egli, infatti, ha parlato di pulsione e non di istinto sessuale e ne ha affermato la plasticità e il carattere aperto e indefinito, mentre qui sostiene il carattere definito – bisessuale – della sessualità umana. In ogni caso tale convinzione attesta ancora una volta quanto egli abbia contribuito a sollecitare la realtà dell’eterosessualità naturale e normativa.

 

 

Bibliografia

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Freud, S. (1905), Tre saggi sulla teoria sessuale, in Opere (1970 vol. IV). Torino: Boringhieri.

Freud, S. (1977), Introduzione alla psicoanalisi. Torino: Universale Scientifica Boringhieri.

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Geertz, C. (1998), Interpretazioni di culture. Bologna: Il Mulino.

Jones, E. (1995), Vita e opere di Sigmund Freud. vol. 3. Milano: Il Saggiatore.

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Mannella, M. Desiderio amoroso e costruzione del sé, in PsicoterapiaAnaliticaReichiana, rivista online, n.1/2020).

Portmann, A. (1989), Le forme viventi. Nuove prospettive della biologia. Milano: Adelphi.

Ricoeur, P. (1991), Della interpretazione. Saggio su Freud. Genova: Il Melangolo.

Vegetti, Finzi S. (1986), Storia della psicoanalisi. Milano: Mondadori.

 

[*] Psicologo, Psicoterapeuta, Didatta S.I.A.R., Membro dei Comitati Scientifico e Direttivo della S.I.A.R., Membro del board scientifico della collana CorporalMente dell’Editrice Alpes, Membro della redazione della Rivista PsicoterapiaAnaliticaReichiana. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Indirizzo professionale: Via Valadier, 44 -00193 Roma

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