IL TERZO CAMPO RELAZIONALE

seconda parte

THE THIRD RELATIONAL FIELD

part two

 

Marcello Mannella[*]

 

 

Abstract 

        Occorre un risveglio delle coscienze. Se mai sorgerà un nuovo modo di essere-nel-mondo, si dovrà basare sull’impegno individuale a “prendersi cura” di sé, a “coltivare” con amore il proprio giardino interiore, a dare una forma consapevole all’interiorità aperta e indefinita dell’animo umano.

 

Parole chiave 

        risveglio delle coscienze - coscienza transpersonale - interiorità - paradigma sistemico.

 

Abstract

        An awakening of consciences is needed. If a new way of being-in-the-world ever arises, it will have to be based on the personal responsibility to “take care” of themselves, to lovingly “pursue” one’s own inner garden, to give a conscious form to the open and indefinite interiority of the human soul.

 

Keywords 

        awakening of consciousness - transpersonal consciousness - interiority - systemic paradigm.

 

 

Cui prodest?

     L’esito conclusivo di questa scena sociale grottesca, eccitata, parossistica, è la disperazione. Kierkegaardianamente, la disperazione non è disperarsi per qualcosa, ma lo stato d’animo che viviamo per l’impossibilità di poter essere se stessi. Parafrasando il filosofo, possiamo dire che un uomo che pratica il divertissement vive solo nel momento, tende a perdersi nello stato d’animo, la sua vita si risolve in una serie incoerente di episodi, e, mancando di un centro interiore, il suo essere si disfa in una molteplicità perché ha perso ciò che di più intimo possiede un uomo: il potere che lega insieme la personalità. Un tale Io rischierà di mancare la propria sintesi e – lo sappia o non lo sappia – sarà disperato. Di questa forma di disperazione nel mondo non ci si accorge quasi per niente. (Kierkegaard, 1965).

     Anche dalla disperazione rifuggiamo e nel tentativo di silenziarla cadiamo in un circolo vizioso praticando ancor più il divertissement, finendo con l’aumentare l’eccitazione e il disordine. E infine, quando vuoto e disperazione raggiungono livelli insostenibili, la strategia del divertissement sfocia in atteggiamenti auto ed etero distruttivi. Assumiamo alcool e droghe in dosi sempre più massicce, pratichiamo il gioco d’azzardo, diventiamo dipendenti da attività sessuali perverse ed estreme. Ormai preda della più assoluta indifferenza morale ed esistenziale, persino la violenza, la guerra, la morte, finiscono col diventare banali. Questi drammatici caratteri sociali e culturali non sono il frutto inevitabile del corso della storia, né di un decreto divino o del destino, quanto, piuttosto, conseguenza di una precisa strategia politica.

     Per tutto il Novecento, gli sforzi congiunti di uomini e donne animati dall’ideale politico e dalla fiducia nell’azione collettiva erano riusciti a conseguire misure sociali a garanzia del lavoro, del sistema pensionistico, della famiglia, dell’assistenza sanitaria, del diritto allo studio, insomma tutta una serie di iniziative legislative volte a creare pari opportunità, sicurezza e benessere anche per i cittadini meno abbienti o fortunati. Tutto ciò era stato possibile grazie al ruolo centrale di conciliazione degli interessi particolari svolto dallo stato e dalla politica. Ma a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, a causa della proposizione di politiche neoliberiste, l’attenzione per il benessere generale ha lasciato decisamente il posto al perseguimento della ricchezza e del benessere individuali, al consolidarsi e al formarsi di vecchie e nuove caste, al ricomparire di pronunciate condizioni di privilegio e diseguaglianza sociale, all’affermazione di un’economia globalizzata e canaglia (Napoleoni, 2008). “Gran parte di ciò che oggi appare ‘naturale’ risale agli anni Ottanta: l’ossessione per la creazione di ricchezza, il culto della privatizzazione e del settore privato, le disparità crescenti fra ricchi e poveri. E soprattutto la retorica che accompagna tutto questo: l’ammirazione acritica per mercati liberi da lacci e laccioli, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione di una crescita senza fine” (Judt, 2012, p.3).

     A partire dagli ultimi decenni del Novecento,[1] pertanto, abbiamo progressivamente assistito a tutta una serie di decisive trasformazioni. Sul piano politico internazionale dobbiamo registrare l’esautoramento della sovranità degli stati nazionali a favore di istituzioni politico-giuridiche sovranazionali, che, nate con l’intento ideale di promuovere l’amicizia e relazioni pacifiche fra i popoli, di portare avanti politiche inclusive e di benessere universale, hanno però finito con l’essere controllate e con il garantire gli interessi di potenti gruppi economico/finanziari transnazionali. La forza economica di tali gruppi è enorme e consente loro di condizionare la vita politica degli stati, di controllare e indirizzare l’informazione, la cultura, la scienza, finanziando partiti, network, giornali, riviste, ricerca, università, scuole. Sono essi a dettare l’agenda delle grandi questioni da affrontare e a decidere quali soluzioni debbano avere. Crisi ed emergenze – vere o presunte – ambientali, geopolitiche, militari, energetiche, finanziarie, sanitarie, finiscono pertanto, con l’essere gestite in maniera funzionale ai loro interessi, rivelandosi, in ultima analisi, dei formidabili strumenti di egemonia politica ed economica. Tali crisi ed emergenze si susseguono senza soluzione di continuità e non lasciano inalterati i rapporti di forza sociali e politici, ma implicano uno spostamento della ricchezza verso l’alto ed erodono lo spazio delle libertà individuali, dei diritti umani e civili.

     Un caso paradigmatico è rappresentato dalla gestione della recente emergenza sanitaria Covid-19. Scrivono le Eumenidi: “Tutta l’attenzione appariva rivolta alla ricerca di un vaccino, sottovalutando la ricerca delle cure mediche di base. Mono-direzione che ha provocato l’aggravarsi dello stato dei pazienti con l’invio spesso tardivo ai pronto soccorso ospedalieri che arrivavano al collasso. […] Come non pensare che la scelta monodirezionale sia stata determinata da un orientamento sempre più consolidato negli anni, che ha visto la ricerca sempre più concentrata nelle mani delle case farmaceutiche private?”. (Le Eumenidi, 2024, p.10). Da non sottovalutare i significati e le finalità politiche della gestione della pandemia. Da più parti, intellettuali, filosofi, politici, scienziati, lo hanno evidenziato. In particolare, si è considerato che le presunte misure di profilassi – i lockdown, il “distanziamento sociale”, l’uso delle mascherine, il green pass – non fossero tanto degli strumenti di contrasto alla diffusione del virus, ma piuttosto veicolavano una precisa strategia di controllo e di educazione dei popoli alla docilità e alla ubbidienza. Lo spiegamento di forze mediatico è stato massiccio. Come una sola rete unificata, tutti i più importanti mass media hanno alimentato, attraverso un martellamento tambureggiante, una narrazione comune spettacolarizzata e drammatica (l’enfasi giornaliera dei contagi, dei ricoveri, delle morti), instillando angoscia e paura in un’opinione pubblica sempre più stordita e stremata. “Una società democratica, liberale (pensavamo) si è trasformata senza possibilità di contraddittorio e di una riflessione integrata. La linea ufficiale scelta non ha ammesso alcun dialogo” (Ibidem).immagine seconda parte art. Marcello

     Sul piano politico e sociale interno, le politiche neoliberali, hanno comportato la crisi e la sfiducia nei partiti, nei sindacati, nell’associazionismo, nel senso di appartenenza e nell’azione comune. Parimenti, sul piano culturale e dei costumi, si registra l’affermazione di stili di vita edonistici ed individualistici, che, rifuggendo da ogni impegno valoriale, non intrattengono altri rapporti con il mondo che non siano quelli improntati al divertissement, al possesso, al consumo. Questi profondi rivolgimenti politici e sociali sono affiancati e sostenuti sul piano ideologico da una precisa strategia culturale. Da qualche decennio - nel mondo anglosassone in particolare e occidentale nel complesso - domina la cosiddetta ideologia woke[2], o cancel culture, tesa a sradicare gli individui da ogni esperienza identitaria e di appartenenza ad una etnia, ad una tradizione, ad una cultura, ad una religione, persino ad un genere, ad un sesso, ad un orientamento sessuale. L’ideologia woke è aggressiva, animata da furore nichilistico verso ciò che per secoli ha dato significato alle nostre vite: la famiglia, l’educazione, l’arte, la storia. È una ideologia pervasiva che domina i media, le università, le scuole, la scienza, le istituzioni culturali, la politica. Il fine è di rendere gli individui isolati, senza vincoli identitari, affettivi e sociali forti, quindi facilmente manipolabili e senza altra possibilità identitaria se non di essere dei meri consumatori sradicati e apolidi.

     La società neoliberale ha bisogno di soggettività deboli, disincarnate, massificate, e persegue, pertanto, “l’idea di ‘civilizzare’ le emozioni, di costruire cittadini rispettosi dei diritti liberali, ‘dotandoli’ di quelle emozioni che favoriscono società tolleranti e inclusive… (Costa, 2024, p.15). È il trionfo del politically correct. Basta osservare la cronaca culturale del nostro tempo per rendersi conto che questa tendenza culturale non è estemporanea, ma portata avanti scientemente con l’intento di imporre una nuova ortodossia. Non ammette pertanto tentennamenti e, men che meno, voci critiche e fuori dal coro, pronta, in tal caso, a punire con l’ostracismo e ad additare il malcapitato alla pubblica gogna con epiteti quali patriarcale, maschilista, sessista, razzista, fascista. La condanna dell’intera tradizione culturale occidentale è assoluta, sostenuta da un furore ideologico, isterico, cieco, che rifiuta ogni contestualizzazione storica.

       L’ossessione woke è quella di revisionare la cultura, di riscrivere la storia, giudicandole attraverso il crivello dei propri criteri morali e culturali e alla luce di una narrazione semplicistica e manichea: buoni contro cattivi, oppressi contro oppressori, dimenticando la storicità e la complessità dei fenomeni culturali. Nulla è risparmiato, tutto è suscettibile di critica woke: i capolavori della letteratura mondiale antica e contemporanea, l’arte, il cinema, i personaggi storici, le narrazioni religiose, i miti, le fiabe, il linguaggio, la scrittura dei documenti e degli atti amministrativi. Persino essere uomini e donne bianchi occidentali è un marchio di infamia, in quanto eredi di una cultura che ha colonizzato e dominato il mondo. I capolavori della letteratura greca e latina sono, ad esempio, rifiutati perché razzisti, schiavisti e misogini. Alcuni studenti della Columbia University nel 2015 hanno chiesto al corpo docente di introdurre un "trigger warning" - un avviso - su Le Metamorfosi di Ovidio, a causa delle rappresentazioni di stupri e aggressioni sessuali. (internet, Il Giornale, 11 novembre, 2022). Il New York times ha dato notizia e condiviso l’iniziativa di un gruppo di studiosi accademici che ha dichiarato che i classici dovrebbero essere rimossi dai programmi universitari in quanto sono espressione della supremazia bianca e ostili alle minoranze. (ibidem). Negli USA nel 2021 sono state abbattute più di 200 statue di personaggi storici, fra cui quelle di Colombo, Lincoln, Gandhi, giudicati colpevoli di razzismo. Fra i bersagli preferiti dell’ideologia woke annoveriamo l’istituto della famiglia e l’amore romantico, associati, tout court, alla dominanza del paradigma eterosessuale, e, dunque, retaggi di una società patriarcale, di un passato oppressivo e bigotto.

     Dominante nel mondo politico e culturale progressista anglosassone, l’ideologia woke è presente nel complesso del mondo occidentale, abbracciata e fatta propria dagli ambienti culturali e politici di sinistra, che, rinnegando le proprie radici, hanno abbandonato ogni atteggiamento di critica sociale e di classe, ed entusiasticamente aderito alla visione del mondo neoliberista e globalista. La sinistra[3] europea non profonde più le sue energie a sostegno e difesa dello stato sociale, non si batte più per attenuare o superare le diseguaglianze economiche e sociali, ma si indentifica nel ruolo di paladina dei diritti civili, e, in particolar modo, di quelli delle minoranze di genere e sessuali del nostro tempo. È di qualche giorno fa, la presa di posizione della deputata del PD Laura Boldrini, ex Presidente della Camera - o meglio “Presidentessa”, come, in puro stile woke, politicamente corretto, aveva chiesto di essere appellata – che, plaudendo alla recente deliberazione della Cassazione che elimina la dicitura padre e madre dai documenti ufficiali dello stato italiano in favore di quelli più generici di genitori – ha dichiarato che quei temini rappresentavano un vero e proprio atto di “bullismo di Stato”. L’ex ministro della cultura e attuale deputato del PD Dario Franceschini ha di recente proposto che i nuovi nati assumano per legge il cognome della madre. L’ideologia woke dilaga anche nelle scuole ed università italiane. Un gruppo di studenti maschi del Liceo Zucchi di Monza, per denunciare il sessismo e la “mascolinità tossica” si è recato a scuola indossando le gonne. (Internet: Peggio del marxismo. La rivoluzione "woke" sbarca in Italia, 26 novembre 2021). Il Dirigente scolastico del Liceo Cavour di Torino ha adottato per il suo istituto la scrittura “inclusiva” che prevede l’uso dell’asterisco al posto di sostantivi e aggettivi connotati secondo il genere maschile. (ibidem). Anche le Università, un tempo centri di pensiero libero e critico, sono oggi dominate dall’ideologia woke che non lascia spazio al dibattito e al pensiero dissidente. Il Consiglio di amministrazione dell’Università di Trento ha approvato il documento “del cosiddetto ‘femminile sovraesteso’ (sic), che si traduce nell’obbligo di indicare nei documenti ufficiali dell’Ateneo tutte le cariche al femminile anche nel caso vengano svolte da uomini (dunque la Presidente, la Rettrice, la Segretaria, la Direttrice, la Professoressa, la Candidata)”. (Internet: La pandemia woke si diffonde nelle università italiane, 2 Aprile 2024). Il 4 marzo 2024, nella Scuola Normale Superiore di Pisa si è tenuto il seminario “Il genere di Achille. Una prospettiva queer e trans sull’Iliade”. L’evento ha anticipato un altro appuntamento particolare: “Falli lunari, oratori pelosi, e degli incinti. Disabilità e ansie di genere in Luciano di Samosata”. (Internet: Achille icona trans: alla Normale di Pisa il seminario sull’Iliade queer, 6 marzo 2024).

     C’è da restare senza parole di fronte a tale liquidità culturale!!! È evidente che siamo di fronte ad un nuovo conformismo (di sinistra). L’ideologia Woke nata per difendere le minoranze etniche e per superare le ingiustizie sociali e a favore di una maggiore inclusività, ha finito con il trasformarsi in cancel culture, in un fenomeno culturale grossolano e intollerante. Incredibilmente profetiche appaiono oggi le parole di Pier Paolo Pasolini: “Io profetizzo l’epoca in cui il nuovo potere utilizzerà le vostre parole libertarie per creare un nuovo potere omologato, per creare una nuova inquisizione, per creare un nuovo conformismo. E i suoi chierici saranno chierici di sinistra”.

 

Necessità di un quarto campo spirituale

     Nel quadro politico, culturale, esistenziale, spirituale, del nostro tempo, quadro desolante, annichilente, che mozza il respiro, non per caso si parla di fine della storia. Allo sgretolarsi delle prospettive ideali che hanno animato la cultura occidentale – il cristianesimo, la democrazia, il socialismo, la fede nella ragione e nella scienza (Lyotard, 1985) - si affianca la perdita di fiducia verso ogni possibilità di emancipazione ed elevazione. Sembra che il genere umano si sia cacciato in un cul de sac esistenziale e spirituale. Non è, pertanto, nemmeno per caso, che Il filosofo Martin Heidegger abbia sostenuto che, nell’epoca della dimenticanza dell’Essere e del totale dispiegamento e dominio della razionalità tecnica, “soltanto un Dio ci può salvare”.

     Pur condividendo con il filosofo tedesco l’esigenza di una nuova dis-posizione intellettuale e spirituale, non penso, però, si debba passivamente sostare nell’attesa di “una nuova venuta”, attendere che accada spontaneamente uno scatto coscienziale. La crescita spirituale – di un individuo, così come dell’intera umanità – non può avvenire inconsapevolmente né passivamente. Certo, all’orizzonte non si intravede, realisticamente, nessuna possibilità di un progetto comune di emancipazione e liberazione. Sembrano mancare del tutto i presupposti ideali e politici, ed è sempre più diffusa la disperante convinzione che nessun impegno valoriale e ideale possa ormai avere cittadinanza nel mondo. Ma è proprio nel tempo della massima dimenticanza, della mancanza di senso più radicale, che può sorgere il sentimento della nostalgia e si può avvertire la mancanza di ciò che si è dimenticato o smarrito.

     Certo, ciò che deve rinascere deve avere caratteri completamente nuovi. Il risveglio delle coscienze presuppone e comporta la responsabilità individuale dei progetti possibili; l’agire esistenziale, morale, politico, non può più fondarsi sulla delega ai capi, ai martiri, agli eroi, ai partiti, alle religioni, alla scienzaSe mai dovesse sorgere una nuova civiltà, un nuovo modo di essere-nel-mondo dell’umanità, questa si dovrà basare sull’impegno individuale a “prendersi cura” di sé, a “coltivare” con amore il proprio giardino interiore, a dare una forma consapevole all’interiorità aperta e indefinita dell’animo umano[4].

     A tal proposito, belle e intrise di saggezza psicologica e esistenziale risuonano le affermazioni di Nietzsche: “Si può governare i propri istinti come un giardiniere e, cosa che sono pochi a sapere, si può coltivare i germi dell’ira, della pietà, del ruminio mentale, della vanità, in maniera tanto feconda e profittevole come un bel frutteto a spalliera; si può fare tutto questo col buono o col cattivo gusto […] si può anche lasciar comandare la natura e limitarsi a curare qua e là un po’ di abbellimento e di pulizia; infine si può anche […] lasciar crescere le piante nelle loro naturali condizioni favorevoli e svantaggiose, e permettere che ingaggino tra loro una lotta mortale […] Tutto questo ci possiamo permettere: ma quanti sono a saperlo? […]” (Nietzsche, 1964).

     Occorrono, dunque, forme della personalità come espressione di un sé tendenzialmente armonico, che non siano più un campo di forze in lotta per il sopravvento e l’egemonia: emozioni e sentimenti contrastanti, oppure scissi dal pensiero; o caratterizzate dal dissidio fra la volontà e le abitudini mentali e corporee. Forme della personalità non più, pertanto, animate da rabbia, astio, malanimo, portate reattivamente a proiettare nel mondo la propria disarmonia.

     Forme della personalità che, proprio perché capaci di impegnarsi nel difficile, e mai del tutto definitivo, compito di superare i contrasti interiori, porranno le condizioni per il superamento di tutte quelle opposizioni e scissioni - corpo/anima, terra/cielo, natura/cultura, maschile/femminile, uguale/diverso, soggetto/oggetto, noi/loro – che hanno erroneamente e dolorosamente caratterizzato la storia della umanità. La costruzione di forme integrate della personalità risulta, dunque, non soltanto importante per il benessere della persona, ma ha anche la valenza di impegno morale verso la comunità umana e costituisce il terreno fondamentale per muovere verso la realizzazione di ulteriori prese di coscienza. È soltanto su tali presupposti che può infatti realizzarsi la decisiva consapevolezza che l’esistenza sia una totalità costituita da una fitta e inestricabile rete di connessioni e da soggettività unite nel comune intento di creare bellezza ed elevazione.

     Il carattere unitario dell’esistenza non è più soltanto affermato dalle grandi tradizioni religiose o filosofiche occidentali e orientali, ma anche da importanti esperienze scientifiche del nostro tempo - si consideri ad esempio la rappresentazione del mondo da parte della fisica quantistica – che hanno messo capo alla nascita del paradigma sistemico. La rappresentazione unitaria, sistemica, dell’esistenza è a sua volta retroattivamente necessaria per poter andare oltre lo stato mentale che ha fin qui caratterizzato l’umanità e che ha confinato le nostre esistenze negli asfittici spazi dell’egoicità. Quest’ultima dà origine ad uno stile comportamentale ed esistenziale che fa centro esclusivo intorno alla propria persona. Non ci si riferisce necessariamente ad uno stile di vita egoistico – si può essere egoici anche nell’altruismo - quanto piuttosto ad una condizione mentale, la difficoltà, cioè, a sentire, pensare ed agire in maniera oggettiva, universale, tutte espressioni di un diverso stato psicologico improntato alla chiara consapevolezza di essere parte di una totalità, di appartenere alla comunità sociale e umana, al tutto della natura e dell’esistenza.

    Nella storia della psicoanalisi, dobbiamo riconoscere a Jung il merito di essere stato il primo ad aver evidenziato la funzione prospettica della psiche e ad aver indicato la realtà di un processo coscienziale di trascendimento dell’Io e di espansione della coscienza. In Simboli della trasformazione (Jung, 1965), egli considera il processo di individuazione un processo insieme di integrazione e di differenziazione di elementi psichici individuali e collettivi, che - se portato fino in fondo – realizza l’espansione della consapevolezza attraverso lo spostamento del centro della coscienza dall’Io al Sé. Se dunque tradizionalmente la psicologia occidentale ha focalizzato la sua attenzione sul processo di sviluppo del Sé dalla dimensione prelogica fino alla definizione dell’Io, la riflessione psicologica è oggi pervenuta ad una considerazione più ampia e complessa dello sviluppo della coscienza. Lo sviluppo psicologico muove da condizioni pre-egoiche, prelogiche (corporee, istintive, impulsive, emozionali) e dopo aver raggiunto lo stadio egoico o personale dell’autocoscienza, può raggiungere condizioni trans-egoiche (spirituali, contemplative, trascendentali). (Wilber, Engler, Brown, Ubaldini, 1989). Incamminarsi lungo la via che conduce alla realizzazione di una coscienza trans egoica, sovra individuale, costituisce il terreno psicologico fondamentale per pervenire pienamente al pensiero/sentimento di appartenere alla totalità del genere umano e dell’esistenza, per poter mettere mano alla costruzione di possibili significati spirituali e religiosi della nostra vita in grado di connettere l’alto e il basso, il cielo e la terra.

     In Alla ricerca di Spinoza, Damasio ricorda che “le norme che governano la nostra condotta personale e sociale dovrebbero essere forgiate su una più profonda conoscenza dell’umanità, una conoscenza che stabilisca un contatto con il Dio e la Natura dentro di noi” (Damasio, 2003, p.25). La convinzione di poter realizzare un tale stato di coscienza non corrisponde, del resto, ad un’esperienza ed aspirazione puramente filosofica e spirituale. Da tempo ha fatto strada la convinzione che rappresenti un importante valore di sopravvivenza e che tale possibilità sia addirittura iscritta nella realtà della nostra biologia. Damasio ha più volte rimarcato il fatto che il superamento degli angusti limiti della personalità attraverso l’esperienza morale e spirituale non è qualcosa che accade al di fuori della nostra biologia, ma qualcosa che si iscrive nella realtà del nostro stesso corpo. Sempre in Alla ricerca di Spinoza sostiene che “lo sforzo di vivere in un’armonia condivisa e pacifica con gli altri è un’estensione dello sforzo di preservare se stessi. I contratti sociali e politici sono estensione dell’imperativo biologico individuale” (Ibidem, p.210). In Emozione e coscienza afferma che fra tutte le capacità consentite “dalla coscienza estesa due in particolare meritano rilievo: la capacità di ergersi sopra i dettami del vantaggio e dello svantaggio imposti dalle disposizioni legate alla sopravvivenza, il desiderio di costruire norme e ideali di comportamento e analisi dei fatti” (Damasio, op.cit., p.278) e che “alla fine della catena della coscienza estesa vi è la coscienza morale” (Ibidem, 279).

     È bene ricordare però, che la realizzazione di una coscienza transpersonale, così come la realizzazione di autentiche condotte morali e spirituali, non ricade sotto il controllo del genoma, non è destinata meccanicamente ad accadere. Sono soltanto possibilità che, per quanto proprie dell’uomo, richiedono un deciso atto di assunzione di responsabilità e un’impegnativa disciplina di vita. Non esistono centri nervosi del comportamento morale. I sistemi cerebrali sottesi ai comportamenti etici non sono dedicati esclusivamente ad essi. “Piuttosto, sono dedicati alla regolazione dei processi biologici, alla memoria, ai processi decisionali e alla creatività” (Damasio, op. cit., p.200). I comportamenti etici sono “i meravigliosi e utilissimi effetti collaterali di tutte quelle altre attività” (ibidem). “Al di là della biologia di base vi è una decisione umana: anch’essa ha radici biologiche, ma nasce solo nell’ambiente sociale e culturale” (Ibidem, 210). Un ruolo decisivo può e deve essere svolto da una nuova pedagogia. È necessaria una prassi pedagogica che tenga conto della totalità dell’essere umano, che fornisca ai bambini e agli adolescenti l’affezione all’osservazione di sé, che favorisca la costruzione di personalità integrate e insieme plastiche, aperte, in grado di orientarsi nella complessità del nostro mondo. Educati alla consapevolezza corporea, al sentire – all’integrazione del corpomente (Mannella, op. cit.) - e non soltanto all’acquisizione di conoscenze, competenze e abilità, essi potranno essere in grado di non soggiacere alle spinte dissipative che attraversano la nostra società, di sviluppare una forte attitudine empatica e il pensiero/sentimento di appartenere al corpo comune del genere umano e della Terra.

 

[1] Paradossalmente, eventi storico-politici di grande portata ideale, come il crollo del muro di Berlino e della Russia sovietica, non hanno inaugurato un nuovo corso storico votato agli ideali di libertà, di fratellanza dei popoli e di giustizia sociale, ma paradossalmente hanno segnato l’egemonia incontrastata del modello economico occidentale – vedi il processo di globalizzazione dei mercati - che, nella totale assenza di un modello economico alternativo,  è stato proposto nella sua forma radicale – quella neoliberare – come unico e migliore dei mondi possibili.

[2] Il termine woke, proprio dello slang afroamericano, in origine aveva il significato di “sveglio” o “risvegliato” rispetto alle ingiustizie sociali, in particolare riguardo i temi del razzismo e delle diseguaglianze sociali. Oggi indica, invece, l’impegno a superare ogni forma di sessismo, a difesa dei diritti LGBTQ+.

[3] Non che le cose siano migliori nei partiti della destra europea, perché pur contestando l’ideologia woke e pur dichiarando di voler difendere le prerogative della sovranità nazionale e di combattere il globalismo neoliberale, nei fatti agiscono in funzione della difesa degli interessi economici e politici delle grandi lobby transnazionali. 

[4] Sul carattere aperto e indefinito della “natura” e interiorità umana si veda Mannella M., L’educazione del corpomente, op. cit., in particolare il capitolo L’uomo come essere carente.

 

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[*]Psicologo, Psicoterapeuta, Didatta S.I.A.R., Membro dei Comitati Scientifico e Direttivo della S.I.A.R., Membro del board scientifico della collana CorporalMente dell’Editrice Alpes, Membro della redazione della Rivista PsicoterapiaAnaliticaReichiana. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Indirizzo professionale: Via Flaminia, 19-00196 Roma.

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