NEUROSCIENZE E RELIGIONI

Il caso Buddhista di Pomaia

 NEUROSCIENCES AND RELIGIONS

 The Buddhist Case of Pomaia

 

Francesca Benna[*]

 

 

Abstract

     Questo articolo esplora le dinamiche sociali e l’uso dello spazio sacro presso l’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia, uno dei principali centri di buddhismo tibetano in Italia. Adottando un approccio multidisciplinare, questo studio esamina l’interazione tra spazio sacro, pratiche rituali ed esperienza religiosa. In particolare, analizza come l’ambiente influenzi i processi cognitivi ed emotivi dei praticanti e, reciprocamente, come la meditazione modifichi la percezione e l’uso stesso dello spazio. Attraverso un’indagine etnografica basata sull’osservazione partecipante, la ricerca evidenzia il ruolo dello spazio sacro come catalizzatore di significati simbolici e come elemento che contribuisce alla costruzione dell’identità comunitaria. Le neuroscienze mostrano come la meditazione modifichi l’attività cerebrale, potenziando attenzione e consapevolezza, influenzando così la percezione dell’ambiente. Questa dinamica bidirezionale tra mente e spazio solleva questioni più ampie sulla costruzione dell’esperienza religiosa. Infine, il confronto con la fisica quantistica suggerisce un’interessante analogia tra la natura mutevole della mente, osservata nella meditazione e il principio di indeterminazione quantistica, ponendo interrogativi sulla relazione tra coscienza e realtà.

 

Parole chiave

     neuroscienze – religione - spazio sacro – meditazione.

 

Abstract

    This article explores the social dynamics and the use of sacred space at the Lama Tzong Khapa Institute in Pomaia, one of the main Tibetan Buddhist centers in Italy. Adopting a multidisciplinary approach, this study examines the interaction between sacred space, ritual practices, and religious experience. In particular, it analyzes how the environment influences the cognitive and emotional processes of practitioners and, conversely, how meditation modifies the perception and use of the space itself. Through an ethnographic investigation based on participant observation, the research highlights the role of sacred space as a catalyst for symbolic meanings and as an element that contributes to the construction of community identity. Neuroscience shows how meditation alters brain activity, enhancing attention and awareness, thus influencing the perception of the environment. This bidirectional dynamic between mind and space raises broader questions about the construction of religious experience. Finally, a comparison with quantum physics suggests an intriguing analogy between the mutable nature of the mind observed in meditation and the principle of indeterminacy, raising questions about the relationship between consciousness and reality.

 

Keywords

      neuroscience – religion - sacred space – meditation.

 

     Durante il mio soggiorno all’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia, ho condotto una ricerca sul campo con l’obiettivo di esplorare le dinamiche sociali e l'uso dello spazio sacro[1] all'interno di questo importante centro di buddhismo tibetano in Italia. La mia analisi adotta un approccio multidisciplinare, integrando antropologia, neuroscienze e psicologia, per investigare come le interazioni con lo spazio e le dinamiche interpersonali influenzino l’esperienza religiosa e spirituale. Ho utilizzato il metodo etnografico, basato sull’osservazione partecipante, immergendomi per dodici giorni nella vita quotidiana del Centro. Ho preso parte a meditazioni, rituali e insegnamenti, con un’attenzione particolare all’uso dello spazio – sia interno che esterno – come facilitatore di esperienze di sacralità e trascendenza. Ho osservato le interazioni tra i praticanti e lo spazio sacro, esplorando come esso venga percepito come luogo separato dall’ordinario e come catalizzatore di significati simbolici. Ho cercato di dare rilevanza al ruolo dello spazio fisico, ai significati che esso assume all'interno della pratica buddhista tibetana in Italia, e a come questo spazio venga vissuto e reinterpretato dai praticanti occidentali[2].

     L’antropologo Francesco Remotti sottolinea il ruolo centrale dello spazio nella costruzione delle identità e delle relazioni sociali. I luoghi di culto, secondo Remotti, non sono semplici contenitori fisici, ma contesti culturali che strutturano le esperienze religiose e rafforzano la coesione comunitaria. In questo senso, spazi come l’Istituto Lama Tzong Khapa fungono da palcoscenici – secondo la teoria di Erving Goffman – dove i praticanti mettono in scena ruoli rituali che riflettono la gerarchia e l’organizzazione sociale della comunità religiosa.

     Parallelamente, l’intersezione con le neuroscienze offre una prospettiva complementare. Franco Fabbro evidenzia come le pratiche contemplative, come la meditazione, attivino specifiche aree cerebrali legate all’attenzione e alla regolazione emotiva. Tuttavia, Fabbro sostiene che queste esperienze non possano essere ridotte ai soli processi neurobiologici: l’interazione tra mente, corpo e ambiente crea un circolo virtuoso in cui il contesto fisico-culturale, come i simboli e i rituali dello spazio sacro, gioca un ruolo determinante. L’integrazione tra antropologia e neuroscienze arricchisce così la comprensione dell’esperienza religiosa, mostrando come lo spazio sacro sia un costrutto culturale oltre che un catalizzatore di esperienze neuropsicologiche. In questa prospettiva, i luoghi di culto non solo ospitano, ma attivamente modellano il modo in cui i fedeli vivono il sacro[3], rafforzando il legame tra trascendenza, identità e appartenenza comunitaria. Le neuroscienze e la neuropsicologia, come evidenziato da Fabbro, ci permettono di vedere come gli stati di estasi, trascendenza e unione mistica siano correlati a specifiche attivazioni cerebrali, come quelle che coinvolgono il sistema limbico e la corteccia prefrontale. Tuttavia, questa prospettiva neuropsicologica va integrata con un'analisi antropologica e culturale che considera il ruolo dei luoghi e dei rituali nell'attivare questi stati. Remotti ci invita a riflettere che lo spazio fisico in cui questi stati si verificano – che si tratti di una chiesa, un tempio o un monastero – è parte integrante dell'esperienza stessa, in quanto carico di simboli che rafforzano il significato spirituale. Questa ricerca vuole quindi analizzare i luoghi, i rituali e i significati culturali come parte integrante del modo in cui il cervello elabora e vive il sacro, rendendo l'esperienza religiosa un fenomeno in cui spazio fisico, mente e corpo si intrecciano.

     Nel Buddhismo, la meditazione è una pratica centrale volta allo sviluppo della consapevolezza e della concentrazione. La meditazione è considerata non solo uno strumento per raggiungere la pace interiore, ma anche un metodo per esplorare la natura della mente. Tra le forme di meditazione più studiate troviamo la meditazione di consapevolezza, vipassana, che insegna a osservare i pensieri e le emozioni senza giudizio, e la meditazione di concentrazione, samatha, che aiuta a focalizzare l’attenzione su un singolo oggetto o respiro. La ricerca condotta su praticanti di lunga data ha mostrato che la meditazione può promuovere la plasticità cerebrale, ovvero la capacità del cervello di riorganizzare sé stesso in risposta a nuove esperienze. Inoltre, la meditazione è stata associata a una riduzione dei livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, e a una maggiore attivazione della corteccia prefrontale, l’area del cervello coinvolta nella regolazione delle emozioni e nella pianificazione. Dal punto di vista del Buddhismo, corpo, mente ed emozioni sono interconnessi in modo indissolubile. Le emozioni negative, come la rabbia e l’ansia, sono viste come un risultato di una mente non addestrata e possono essere trasformate attraverso pratiche meditative che coltivano la consapevolezza e la compassione.

     Durante le lezioni teoriche di Pomaia, esperti di neuroscienze e intelligenza artificiale hanno discusso le ultime scoperte scientifiche sulla coscienza e sulla cognizione, mentre gli insegnamenti legati al campo della religione hanno approfondito la visione buddhista della mente e delle emozioni. Le sessioni di pratica meditativa hanno offerto ai partecipanti l’opportunità di sperimentare direttamente i benefici della meditazione. Ad esempio, i partecipanti hanno esplorato le somiglianze tra i modelli probabilistici utilizzati nella fisica quantistica e l’indeterminatezza della mente osservata nella meditazione. Nella fisica quantistica, il principio di indeterminazione di Heisenberg stabilisce che non si possono misurare simultaneamente con precisione la posizione e la velocità di una particella subatomica. Ciò significa che lo stato di una particella può essere descritto solo in termini probabilistici. Il comportamento della materia a livello quantistico non segue le leggi deterministiche classiche, ma è governato da funzioni d'onda che descrivono una gamma di possibili esiti, in cui la probabilità gioca un ruolo centrale. Nella pratica della meditazione, soprattutto in tradizioni come quella buddhista, la mente è osservata come un flusso continuo di pensieri, emozioni e sensazioni. Questo flusso è spesso caotico e indeterminato, privo di una struttura fissa o di un punto di riferimento stabile. Nel corso della meditazione, si può arrivare a comprendere che la mente, come le particelle quantistiche, non è un'entità fissa, ma si manifesta attraverso una molteplicità di stati potenziali, ciascuno dei quali è condizionato da fattori contingenti e impermanenti. Sia nella fisica quantistica che nella meditazione, l'incertezza non è vista come un limite, ma come un aspetto fondamentale della realtà. Nella fisica, questa incertezza emerge dalle leggi che governano le particelle a livello microscopico, mentre nella meditazione, l'indeterminatezza della mente riflette la natura mutevole e condizionata della coscienza umana. In entrambi i casi, il tentativo di osservare o controllare porta inevitabilmente alla constatazione di questa imprevedibilità.

compressed buddha pomaiaTra Buddha-Pombia     Un altro parallelismo significativo è il ruolo dell'osservatore: nella fisica quantistica, l'atto di osservare un sistema influisce sul suo comportamento, un fenomeno noto come “collasso della funzione d'onda”. Nella meditazione, l'osservatore interno (il meditante) diventa consapevole dei processi mentali, e questa osservazione cambia la relazione con i propri pensieri ed emozioni. In entrambi i casi, l'osservazione non è neutrale, ma altera ciò che viene osservato. Anche lo spazio in cui si medita gioca un ruolo cruciale nel plasmare l'esperienza mentale. Lo spazio fisico, come lo stato della mente o della materia, è un elemento dinamico che influisce e viene influenzato dall'osservazione e dalla pratica meditativa. La meditazione non avviene in un vuoto neutro, ma è profondamente condizionata dall'ambiente circostante, che può favorire o ostacolare l'apertura mentale e la capacità di accogliere l'incertezza. In molti contesti buddhisti e spirituali, lo spazio sacro è progettato in modo tale da favorire un senso di quiete, apertura e trascendenza. L'organizzazione fisica dello spazio, la disposizione degli oggetti rituali e persino la luce e i suoni che lo abitano, giocano un ruolo nel creare un campo che sostiene la pratica meditativa. Pascal Boyer, nel suo libro “Religion Explained”, suggerisce che i concetti religiosi siano un sottoprodotto del funzionamento della mente umana, evolutasi per risolvere problemi legati alla sopravvivenza e all'interazione sociale. Questi meccanismi cognitivi includono la tendenza a percepire agentività o intenzionalità anche in eventi naturali o inanimati, come il movimento del vento o l’apparizione improvvisa di un suono. Questo schema mentale si sarebbe rivelato vantaggioso per la sopravvivenza, poiché interpretare un movimento come un'azione intenzionale (ad esempio, il fruscio dell'erba causato da un predatore) poteva prevenire un pericolo. Allo stesso modo, la tendenza a vedere l'intenzionalità in eventi naturali ha facilitato lo sviluppo di credenze religiose. La funzione adattativa della religione sarebbe quindi quella di favorire la coesione sociale, promuovendo comportamenti prosociali come l’altruismo e la reciprocità, che sono fondamentali per la sopravvivenza di gruppi di individui. Il testo di Boyer suggerisce che la religione, nonostante possa essere percepita come un fenomeno culturale, affonda le sue radici in meccanismi cognitivi universali. L'interazione tra neuroscienze e religione, esplorata attraverso la neuroteologia, fornisce quindi un nuovo quadro interpretativo in cui lo spazio sacro, la mente e il cervello si influenzano reciprocamente, promuovendo esperienze di trascendenza e benessere personale.

     L’incertezza è una condizione intrinseca della vita umana, ma nel contesto della cultura neoliberale essa assume un significato particolare. Il neoliberismo promuove l’idea che l’individuo sia l’unico responsabile del proprio successo o fallimento, spingendo le persone a interiorizzare il peso della precarietà economica e sociale. In tale sistema, l’incertezza non è affrontata attraverso cambiamenti strutturali, ma è gestita a livello individuale. Gli individui sono incoraggiati ad assumere un approccio proattivo, sviluppando competenze per affrontare l'imprevedibilità. Questo processo porta a una crescente autosorveglianza e automiglioramento costante, attribuendo la responsabilità delle difficoltà personali a carenze individuali piuttosto che a fattori sistemici. Pratiche come la mindfulness e lo yoga, pur essendo potenzialmente benefiche, vengono spesso commercializzate all’interno di questa cornice neoliberale. Presentate come strumenti per gestire l’incertezza, esse insegnano a essere “flessibili” e “calmi” di fronte al caos. Tuttavia, questa loro integrazione nel sistema esistente solleva interrogativi critici. Se da un lato queste pratiche offrono sollievo e supporto individuale, dall'altro rischiano di diventare funzionali al mantenimento dello status quo, distogliendo l’attenzione dalle cause strutturali della sofferenza e normalizzando condizioni di precarietà. Come osserva Fisher (2009), tali strumenti rischiano di diventare meccanismi di adattamento piuttosto che di trasformazione sociale.

     Il mio percorso personale di esplorazione della mindfulness è iniziato nel 2019, quando ho avuto l’opportunità di partecipare al progetto Mp4s (Mindfulness Project for Student in Society) presso l'Università di Roma Tre, un’iniziativa organizzata e finanziata dall'Unione Europea. Questo progetto mi ha permesso di comprendere il potenziale della meditazione non solo come pratica individuale, ma anche come strumento di supporto per affrontare le sfide collettive degli studenti. La vita accademica, caratterizzata da pressioni costanti e alte aspettative, mi ha portato a riconoscere l'importanza di momenti di calma e consapevolezza in un ambiente spesso frenetico e competitivo. Un momento cruciale di questa esperienza è stato il soggiorno a Saint-Michel-de-Maurienne, in Francia, dove, insieme al gruppo Mp4s, ho partecipato a una settimana di meditazione intensiva. Questo programma ha rappresentato un’opportunità unica per esplorare il valore della mindfulness in un contesto comunitario. Le esperienze condivise durante quella settimana hanno creato un’atmosfera di sostegno reciproco, in cui la sofferenza collettiva poteva essere riconosciuta e affrontata in modo condiviso. Tuttavia, questa dinamica ha anche messo in luce una dimensione problematica: la sofferenza, una volta incanalata attraverso pratiche come la mindfulness, tende a essere normalizzata e resa accettabile, spostando l’attenzione dalle sue origini sociali, economiche o politiche verso una gestione interiorizzata e individualizzata. L’esperienza di Saint-Michel-de-Maurienne ha trasformato la mia comprensione della mindfulness. Ho iniziato a considerarla non solo come un metodo per la gestione individuale dello stress, ma come uno strumento per facilitare connessioni sociali e supporto reciproco. Tuttavia, mi sono anche interrogata su una questione fondamentale: attraverso la mindfulness, gli studenti vengono condizionati a gestire il proprio stato emotivo e fisico in funzione delle esigenze istituzionali? In altre parole, queste pratiche rischiano di essere strumentalizzate per adattare gli individui alle condizioni imposte dal sistema accademico e lavorativo, piuttosto che per affrontare le cause profonde del malessere. È fondamentale riflettere criticamente sul modo in cui tali pratiche vengono integrate nelle istituzioni e considerare come possano essere trasformate in strumenti di cambiamento sociale, piuttosto che limitarsi a funzionare come meccanismi di adattamento individuale a un sistema che perpetua incertezza e precarietà.

     Ho continuato poi a esplorare ulteriormente come la meditazione potesse fungere da ponte per creare comunità di apprendimento in grado di affrontare le sfide psicologiche di molti studenti, studiando la letteratura di riferimento.

     Mi sono interessata in particolare alla MBSR: Mindfulness-Based Stress Reduction, utilizzata da diversi esperti in materia. Richard J. Davidson, neuroscienziato americano, noto per il suo lavoro nel campo delle neuroscienze affettive, della meditazione e della mindfulness, professore di psicologia e psichiatria all'Università del Wisconsin-Madison e direttore del Center for Healthy Minds, un centro di ricerca che si concentra sull'esplorazione dei legami tra la mente, il corpo e la salute, ha studiato, insieme al suo gruppo di ricerca, 218 partecipanti, privi di esperienza nella meditazione, effettuando scansioni di risonanza magnetica strutturale durante due momenti: all’inizio e al termine dell'intervento. Dopo la prima fase, 70 partecipanti sono stati assegnati casualmente a un programma MBSR di 8 settimane. Davidson ha cercato di replicare e ampliare i risultati di ricerche precedenti riguardanti i cambiamenti strutturali nel cervello dopo il training di meditazione mindfulness, in particolare l'aumento della densità della materia grigia (GMD) e del volume della materia grigia (GMV) in diverse aree cerebrali, tra cui l'ippocampo e l'amigdala. I ricercatori non hanno trovato differenze significative nei cambiamenti di GMV, GMD o spessore corticale (CT) tra i gruppi, contrariamente alle ipotesi formulate. Tuttavia, l'intervento MBSR ha dimostrato di essere efficace nel migliorare la funzione e la connettività neurale, oltre agli esiti psicologici e cognitivi: i partecipanti all'MBSR hanno mostrato una riduzione della reattività dell'amigdala e un aumento della connettività funzionale tra l'amigdala e la corteccia prefrontale. Lo studio dimostra quindi che i miglioramenti legati all'MBSR potrebbero non essere esclusivi della pratica della meditazione, ma piuttosto derivare da altri aspetti del corso, come la durata della pratica e la partecipazione collettiva e/o individuale. I partecipanti hanno dedicato infatti un tempo maggiore alla pratica della meditazione rispetto a studi precedenti, indicando un alto livello di coinvolgimento nel materiale didattico dell'MBSR[4]. Pertanto, il presente studio fornisce prove iniziali che le riduzioni del volume dell'amigdala correlate all'MBSR possono dipendere dal grado di impegno nella pratica.

     Partendo da questa premessa, mi sono chiesta, spinta dal mio interesse verso lo studio delle religioni, come potrebbe essere riformulato l’esperimento all’interno di un luogo sacro. In questo contesto, la mindfulness potrebbe diventare una forma di sorveglianza invisibile e di disciplinamento del sé che non solo regola il comportamento degli studenti, ma li rende anche agenti attivi nel proprio controllo? Riflettendo sull’esperienza di Saint Michel-de-Maurienne e sugli studi sulla mindfulness, mi sono trovata a considerare il potenziale che un contesto sacro potrebbe offrire alla pratica della meditazione. Il numero di ore dedicato alla meditazione e alla sua efficacia nel ridurre i livelli di stress potrebbe diminuire e quindi creare un “effetto benefico” più immediato? Parte essenziale del programma MBSR è la pratica quotidiana a casa, con esercizi di meditazione e consapevolezza che richiedono circa 45 minuti al giorno, in un luogo sacro invece, l’attenzione è data al gruppo, alla comunità, cosa cambia quindi una meditazione privata da una collettiva? Grazie all’esperienza presso l'Istituto Lama Tzong Khapa a Pomaia, sono potuta venire a contatto, anche se pur a livello basico e solamente per dodici giorni, con pratiche MBSR all'interno di un tempio buddhista. Il mio obiettivo è stato quello di studiare, grazie all’intervento dei Professori della Summer School, non solo i cambiamenti neurobiologici e psicologici associati alla pratica, ma anche le dinamiche sociali che si sono sviluppate in un ambiente sacro. Ho cercato di esplorare come la sacralità dello spazio possa influenzare le esperienze di connessione e supporto tra i partecipanti, e se ciò possa contribuire a un senso di appartenenza che va oltre il singolo individuo. Inoltre, ho cercato di esplorare come i simboli, oggetti sacri, mantra e pratiche rituali, possano arricchire l’esperienza di meditazione.

     Ho concluso che i praticanti, entrando nello spazio sacro, interiorizzano norme e regolamenti, conformandosi ai comportamenti previsti, senza che vi sia una sorveglianza esplicita, questo l’ho notato prima di tutto su di me. Questi spazi hanno disciplinato il mio corpo, regolando la mia mente secondo un determinato ordine spirituale. La meditazione effettuata in un contesto secolare, come avviene nell’esperimento degli studiosi americani, o come nell’esperienza personale di Mp4s, rimuove parte di quella rete disciplinare presente in un luogo sacro: mancano i simboli religiosi e le gerarchie implicite di un luogo sacro. Qui, il potere disciplinare è più debole o decentralizzato, meditare in un contesto secolare non richiede necessariamente una conformità alle pratiche ritualizzate dello spazio sacro, e ciò può dare all’individuo un maggiore senso di autonomia, ma allo stesso tempo, potrebbe ridurre l'effetto di interiorizzazione delle norme e pratiche che un luogo sacro impone. La meditazione perderebbe la sua capacità di creare una rottura radicale con la vita quotidiana, rimanendo più simile a una tecnica di gestione del sé, priva del significato simbolico e rituale che lo spazio sacro conferisce. Quando si medita o si pratica mindfulness in gruppo, i partecipanti sono sottoposti a una sorveglianza reciproca, anche se non esplicita. L'idea che gli altri stiano praticando accanto a me, crea un controllo sociale implicito, che rinforza la mia disciplina interna. Questo potrebbe portare a una normalizzazione del comportamento, dove la presenza degli altri favorisce la conformità alle pratiche richieste. Questo fenomeno potrebbe essere meno presente nella pratica solitaria di mindfulness, dove il controllo sociale è minore e l'individuo è più libero di autodisciplinarsi secondo le proprie regole. Si torna quindi al tema dell’importanza della collettività e della permanenza di pratiche di meditazione all’interno di una società, non si tratta di casi sporadici, la meditazione come forma di auto-controllo era una forma mentis accettata e assorbita dalla popolazione.

     In un contesto moderno, come nei programmi di Mindfulness-Based Stress Reduction, vediamo una versione secolarizzata di questo processo. La meditazione viene utilizzata per ridurre stress, ansia e rabbia, migliorando il benessere individuale e facilitando relazioni sociali più armoniose. All'interno delle istituzioni, come nelle università, ma pensiamo anche alle carceri, la meditazione viene promossa per creare un ambiente più collaborativo e meno conflittuale. Così, la meditazione, sebbene possa sembrare una pratica puramente personale, diventa anche un mezzo per il mantenimento della pace sociale e dell'ordine. Attraverso il dialogo tra neuroscienze e Buddhismo, si apre la possibilità di sviluppare un approccio più completo al benessere accademico, che tenga conto non solo delle esigenze intellettuali degli studenti, ma anche della loro salute emotiva e psicologica. Attraverso i dati raccolti durante l’esperienza a Pomaia, grazie alle lezioni dei professori che ho potuto ascoltare, si è notato come gli studenti che meditano regolarmente mostrino una maggiore capacità di concentrazione e una riduzione di sintomi legati a stress e ansia, condizioni che possono compromettere il rendimento accademico e il benessere generale.

     Tuttavia, queste conclusioni non possono essere esaustive. Sebbene la meditazione offra un chiaro beneficio per il benessere mentale, è essenziale riconoscere che non rappresenta una soluzione universale. Non tutti gli studenti traggono uguali benefici dalle pratiche meditative, e l'efficacia di questi approcci può variare a seconda del contesto culturale, sociale e individuale. Inoltre, l'integrazione della meditazione nell'educazione universitaria richiede un'attenta considerazione delle strutture istituzionali e del supporto necessario per implementare tali pratiche in modo efficace.

[1]Uno spazio è concepito sacro perché dotato di una dimensione simbolica, con una funzione spirituale e rituale che lo distingue dallo spazio ordinario, più legato alla quotidianità e alla dimensione materiale.

[2] Sebbene il sacro implichi una dimensione trascendente, si manifesta sempre attraverso la dimensione concreta del mondo fisico. In altre parole, lo spazio sacro non è un'entità astratta: ha bisogno di essere collocato in un contesto materiale, tangibile, che gli conferisca significato e lo renda accessibile ai praticanti. Lo spazio sacro si esprime tramite il mondo fisico. Gli edifici religiosi, i templi, i monasteri, gli altari e gli oggetti rituali sono manifestazioni concrete di uno spazio che è percepito come sacro. Questi elementi materiali diventano il veicolo attraverso cui il sacro si rende presente e tangibile, lo spazio fisico può essere strutturato per riflettere o rappresentare il sacro. L'architettura religiosa, ad esempio, non è solo funzionale, ma anche simbolica: la disposizione degli spazi, l'orientamento degli edifici, l'uso della luce e degli elementi decorativi possono creare una connessione con il divino. Quindi, lo spazio fisico diventa sacro attraverso il significato che gli viene attribuito. La percezione del sacro è soggettiva e varia a seconda delle credenze e delle esperienze dei praticanti. Uno spazio fisico, che di per sé potrebbe sembrare comune o ordinario, può diventare sacro per coloro che lo abitano o lo utilizzano per scopi religiosi o diversi dall’uso ordinario.

[3] Goffman utilizza il concetto di “palcoscenico” per spiegare come gli individui utilizzino lo spazio per controllare le impressioni che danno agli altri. Lo spazio fisico diventa una parte della performance sociale, suddiviso in “frontstage” (dove si esibisce un comportamento pubblico) e “backstage” (dove le persone si rilassano e preparano la loro performance). Quindi, lo spazio non è neutrale: organizza il comportamento e influenza le dinamiche di potere e comunicazione. Claude Lévi-Strauss, ad esempio, ha sottolineato come le culture organizzino lo spazio secondo schemi simbolici, che riflettono le strutture mentali della società. Pierre Bourdieu, con il concetto di habitus, evidenzia come lo spazio riproduca disuguaglianze sociali e culturali. In tutte queste prospettive emerge un aspetto fondamentale: lo spazio non solo organizza le relazioni sociali, ma è anche uno specchio dell'identità umana. Abitiamo spazi che sono impregnati di significati culturali e simbolici, e questi spazi, a loro volta, definiscono chi siamo. La casa, il quartiere, il luogo di lavoro o di culto sono tutti contesti che strutturano il nostro comportamento e ci attribuiscono un ruolo sociale.

[4] Lo studio riporta una meditazione che variava da 2 a 85 ore, con una media di 32 ore nello studio, rispetto a un intervallo di 7-42 ore e una media di 23 ore di studio, rilevato negli esperimenti precedenti.

 

 

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[*]Dottoranda in ‘Peace Studies’ – Curriculum 2: Identità, Memorie, Religioni e Pace, Università La Sapienza, Roma.  Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

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