Numero 1/2012

CARNAGE

di ROMAN POLANSKI

anno 2011

 

Luisa Barbato*

Carnage, l’ultimo film di Roman Polanski, presentato al festival di Venezia del Settembre scorso, è tratto dalla pièce teatrale “Le Dieu du Carnage”, letteralmente il dio del massacro, della scrittrice franco-iraniana Yasmina Reza che ne ha anche curato, insieme al regista, la sceneggiatura.

La trama è molto semplice, quasi lineare, due coppie si incontrano in un appartamento di un sobborgo elegante di New York per risolvere la lite scoppiata tra i loro rispettivi figli undicenni: Zachary che è il figlio dell’avvocato e dell’intermediatrice finanziaria (Christoph Waltz e Kate Winslet) e Ethan che è il figlio della scrittrice attiva nei temi umanitari e del venditore di articoli casalinghi (Jodie Foster e John C. Reilly). La lite è stata violenta, come spesso accade a quell’età: Zachary ha colpito con un bastone Ethan rompendogli due incisivi. I quattro genitori si incontrano per un confronto civile, almeno così sono le intenzioni, e il tutto inizia all’insegna della cordialità e del “politically correct”, ma il rapporto tra le due coppie si trasforma, precipitando verso una crescente ostilità che diviene presto uno scontro aperto talmente crudele da essere paragonabile, appunto, a una carneficina.

Accade così che vengano portati alla luce sentimenti e frustrazioni insospettati, con l’intenzione di mostrare allo spettatore cosa davvero si nasconde e si agita sotto le buone maniere e le convenzioni sociali che regolano la vita quotidiana. Si passa dalle cortesie ipocrite, alle critiche più o meno esplicite, per finire agli insulti.

Il tutto continua ad avvenire tra le pareti di una casa, in un set che assomiglia ad un palcoscenico teatrale opprimente e claustrofobico, metaforicamente senza via d’uscita, come l’intrigo di emozioni che sovrasta i protagonisti.

Detto così, parrebbe di trovarsi in un film cupo e disperante, in realtà ci si mantiene sempre sul tono della commedia, a tratti ironica e grottesca, che fa anche molto ridere, come uno specchio impietoso che mostra quanto ridicoli possano essere i piccoli attaccamenti di tutti i giorni. Molto del merito di questa “leggerezza” è dovuto alla bravura degli attori, tutti molto noti, che riescono a rendere il clima grottesco e tragico allo stesso tempo, tramite repentini cambi di umore e di espressione. Il film è molto sottile e si gioca su particolari apparentemente poco significativi: un sorriso forzato, un’improvvisa esplosione di rabbia, dei dialoghi serrati come solo gli americani sanno costruire.

Questa la storia. Ne sono state date soprattutto interpretazioni sociologiche e antropologiche. Le prime per sottolineare la falsità e inconsistenza delle nostre convenzioni sociali: basta un banale incidente, un contrattempo, a farle saltare; le seconde a ribadire che di fondo l’essere umano ha una natura selvaggia pronta a mostrare aggressività a difesa dei propri interessi e bisogni. “Basta un niente per trasformare i quattro in belve iraconde” hanno scritto. Più in generale, è stata colta una critica alla nostra società moderna occidentale, alla violenza che la permea, all’anaffettività dei suoi valori borghesi, tra i quali il denaro e l’interesse fanno da padroni. E’ come se tutte le sovrastrutture culturali e comportamentali esplodessero di botto in uno spazio chiuso mostrandone la crudeltà e il cinismo profondi.

Tuttavia, oltre a queste interpretazioni, senza dubbio molto appropriate, si può rivolgere lo sguardo a una lettura più intimista del film, a una notazione dei molti spunti psicologici che vengono offerti. E’ vero, a una prima visione risalta innanzi tutto la critica sociale, ma quello che in realtà davvero colpisce è l’estenuante e crudele rete delle relazioni tra i quattro protagonisti. Se dovessimo sintetizzare queste relazioni, potremmo dire che il film è il luogo delle proiezioni individuali. Quando le convenzioni e la buona educazione cadono, non emerge la belva iraconda, ossia la peggiore parte istintuale, ma piuttosto l’universo soggettivo di ciascuno di noi, del quale l’istintività è solo una componente.

Nell’ora e mezzo di dialogo serrato si rimane colpiti dall’evidenza che si tratta di un non-dialogo, ciascuno parla del proprio mondo interiore, dei propri desideri, delle proprie esperienze senza essere veramente ascoltato o accolto dagli altri, ciascuno è nel proprio delirio personale. Certamente l’altro coglie il senso del nostro discorso personale, ma lo fa solo per rimandarlo al proprio monologo che viene rovesciato di rimando sull’altro in un gioco infinito in cui non c’è vera comunicazione, ma solo il soprapporsi di contenuti soggettivi che non ricevono mai una vera accoglienza, che non colgono mai il segno.

Un mondo terribile, parrebbe essere la conclusione, in cui ciascuno vive “nel proprio mondo”, ma non “nel mondo”, il mondo dove sarebbe possibile davvero incontrare gli altri. Ma se ciascuno vive nel proprio delirio individuale, allora quello che viene detto o sperimentato è sempre una forma di proiezione sull’altro, un appoggiare all’esterno la propria soggettività che non incontra mai la soggettività dell’altro. Il risultato è dapprima rancore e rabbia, poi solitudine e tristezza, come viene espresso molto bene nelle sequenze finali in cui i protagonisti appaiono stremati.

In questo gioco, il corpo ha una rilevanza importante, la materialità dei bisogni corporei apre la strada al confronto diretto e brutale. Si inizia con l’oralità, i protagonisti nei primi passaggi del loro incontro mangiano insieme una torta di mele che dovrebbe avere una valenza riappacificante e di godimento collettivo, ma qualcuno è troppo vorace, ingurgita piuttosto che mangiare, inoltre questo “latte materno” non è poi così buono e si ha una conseguente reazione di vomito. Il vomito irrompe brutalmente nel film, segnando il rifiuto sottostante la cordialità iniziale e avvia le reazioni intolleranti successive. Rifiuto dell’appagamento orale, rifiuto del malessere fisico, mentre il parlare, parlare e ancora parlare cerca di coprire il disagio dei corpi. A questo punto entra in gioco l’alcool, come estrema difesa in cui rifugiarsi, e tramite l’alcool emergono l’infelicità e la disperazione di ciascuno.

Al fondo si percepisce una grande richiesta orale inappagata che per uno diventa depressione, per un altro reazione mordace, per un altro ancora voracità intellettuale o dipendenza.

In questo panorama di non comunicazione, si creano delle alleanze temporanee, quelle tra i componenti di una coppia che sparlano dell’altra coppia, o tra i maschi che si coalizzano contro le femmine e viceversa, o tra coloro che hanno visioni più concrete e materiali della vita che si contrappongono alle visioni idealiste o intellettuali degli altri. Ma si tratta sempre di sodalizi basati su proiezioni condivise, finalizzati al bisogno di rivincita o di difesa momentaneo, sodalizi che si rompono presto per passare ad un altro schema di alleanza, esattamente come spesso avviene nella vita di tutti i giorni o su un campo di battaglia.

Sarebbe veramente un quadro desolante, ma siamo in una commedia e lo sguardo del regista, finalmente, nelle sequenze finali ci porta all’esterno dell’appartamento-setting per scoprire che c’è un mondo che, fortunatamente, ha ancora delle possibilità evolutive.

Nella scena conclusiva si vedono i due ragazzini (uno è il figlio del regista) che giocano di nuovo insieme e, all’improvviso, è come se un velo si squarciasse e lo spettatore misurasse l’inconsistenza del dramma che ha avuto luogo per un’ora e mezzo nel chiuso dell’appartamento. Le soggettività incomunicabili non hanno importanza di fronte alla vitalità dei ragazzi, essi usano il gioco per ricomporre quello che agli adulti era sembrato irrisolvibile.

Ancora una volta è il corpo, che si esprime tramite il gioco, che segna il senso profondo dell’accadere, mentre sono le nuove generazioni che, sembra concludere il film, possono realmente darci la speranza di un vivere sociale futuro migliore.



 * Psicologa Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R. Consigliere Ordine Psicologi del Lazio,
Vice Presidente SIPAP

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