Rivista

IL  SENSO DELLA DISTANZA

THE SENSE OF DISTANCE

Lucilla Musatti[*] 

 

 

Abstract 

Si apre una riflessione sui problemi della nuova didattica, sia in presenza che a distanza, imposta dalla pandemia, nell’ottica della relazione educativa tra insegnanti e alunni.

Quali aspetti della scuola possono essere considerati insostituibili? Qual è la distanza davvero importante da misurare tra un adulto e un bambino? Come si modificano i contenuti dello scambio e i ruoli?

Alcuni spunti provengono da un gruppo di insegnanti impegnate nella formazione che ragionano sulle difficoltà e le risorse della loro esperienza didattica.

 

Parole chiave 

Didattica – presenza e distanza – relazione educativa – confini spaziali e temporali – pensieri ed emozioni.

 

Abstract 

An insight  on the problems of the new teaching, both in presence and at a distance, imposed by the pandemic, with a focus on the educational relationship between teachers and pupils. 

What aspects of the school can be considered irreplaceable? Which is the distance that makes a difference between an adult and a child ? How are the contents of the exchange and the roles changed with the distance learning? 
Some cause for reflection come from a group of teachers involved in training who consider the difficulties and resources of their teaching experience.

 

Key words 

Didactics - presence and distance - relational education - spatial and temporal boundaries - thoughts and emotions

 

 

 

 

La chiusura delle scuole durante la prima e più acuta fase della pandemia ha creato uno scenario inaspettato. Milioni di bambini e ragazzi a casa, gli edifici deserti, maestri e professori sulla breccia di una didattica a distanza tutta da scoprire, inventare e adattare alle nuove esigenze sociali. Una bolla macroscopica che conteneva tutti i problemi nuovi e antichi, dall’edilizia scolastica alla formazione dei docenti, dalla numerosità delle classi ai contenuti dell’insegnamento, dai criteri di valutazione all’uso delle tecnologie informatiche.

Tutti problemi che da quel momento non possono più essere ignorati. Ma soprattutto l’assenza forzata dalla vita dei bambini e dei ragazzi ha portato alla luce una verità indiscutibile: la scuola serve, serve ai piccoli e serve ai grandi, serve alla crescita.

Che fosse obbligatoria almeno fino a una certa età lo sapevamo, che fosse formativa lo speravamo, che fosse utile era una consapevolezza radicata che sembrava non poter essere messa in discussione da niente e da nessuno. Eppure la scuola si è fermata per mesi e la sua mancanza ha generato un vuoto difficile da colmare allora e complesso da elaborare ancora oggi in una fase di grande incertezza sul futuro, di decisioni organizzative che spesso si rivelano contraddittorie e rischiose.

Al di là delle riflessioni sulla qualità della didattica in presenza o a distanza, sulle scelte educative che garantiscono il mantenimento dei legami all’interno del contesto scolastico reale o virtuale, sugli esiti inevitabili di questo sconvolgimento sociale per un’intera generazione di bambini e ragazzi, possiamo enucleare alcune domande basilari su cui provare a ragionare.

- A che cosa serve veramente la scuola, ovvero qual è la sua funzione veramente insostituibile?

- Qual è la vera distanza da riempire (o da mantenere) tra un adulto e un bambino che non può essere misurata con il metro?

- Quali confini spaziali e temporali sono stati infranti dalla necessità del distanziamento e dalla possibile intrusione a ogni ora del giorno di una presenza virtuale?

- Che differenza c’è tra la relazione che si instaura a scuola tra un insegnante e un bambino e tra un insegnante e il gruppo, e quella che si crea attraverso lo schermo di un computer?

A scuola si va per stare con i coetanei, per apprendere regole di vita e di comportamento, per ascoltare un maestro o una maestra che ci guida nei percorsi di conoscenza e di scoperta del mondo, per imparare a imparare e a diventare autonomi. Ma tutto questo è preziosamente vero se avviene insieme agli altri, se si confronta con ciò che gli altri pensano, esprimono e agiscono, se si modifica in base a ciò che gli altri chiedono e rispondono, se si trasforma attraverso una condivisa esperienza quotidiana. È vero se giorno per giorno, a scuola, si costruisce un pensiero e un sentire comuni all’interno dei quali riconoscere l’individualità di ciascuno.

Ciò che è insostituibile è dunque la forza del processo collettivo, non solo per quanto riguarda la capacità dei bambini di connettere le idee in un circuito funzionante, ma soprattutto per quella possibilità unica di trasformare la somma di tutti i percorsi individuali in un nuovo apprendimento dalle specifiche caratteristiche cognitive, emotive e sociali.

Senza la scuola, senza quel contesto che mi permette di sperimentare un continuo scambio diretto, come faccio a ritrovare gli altri nelle diverse fasi di costruzione del pensiero e del sentire comuni? Come faccio a riconoscere quale nuovo apprendimento, o quale frammento del percorso è solo mio e quale è del gruppo, in una realtà nella quale è più difficile stabilire, nessi, riferimenti, vere appartenenze?

Se, come le tessere di un mosaico, è anche attraverso il riconoscimento della propria presenza e del proprio contributo all’interno di un gruppo che passa il processo di costruzione dell’identità del bambino, la scuola ha di fatto una funzione insostituibile.

A scuola si usano gesti e parole per stare insieme, per comunicare intenzioni e richieste, per comprendere e condividere comportamenti ed emozioni; la vicinanza fisica tra bambini e insegnanti si rarefa progressivamente con il passare dall’infanzia all’adolescenza mentre aumenta la distanza necessaria a mantenere i ruoli sociali.

È una distanza che può essere modificata dal contesto, dal momento, dalle caratteristiche di personalità degli interagenti, è una distanza che può essere resa più o meno intensa dai contenuti affettivi e dagli scopi educativi, ma è comunque una distanza indispensabile alla crescita e al mantenimento di un equilibrio nel rapporto tra grandi e piccoli, tra chi ha il compito di educare e chi ha il diritto di essere accolto e accompagnato nel suo sviluppo.

Ma questa non è certo la distanza che il timore di un contagio impone, non è quantificabile con una unità di misura convenzionale, comunque non può ridursi a un’entità soltanto fisica, ma la necessità di concretizzarne la presenza crea non poche confusioni tra ciò che è e ciò che rappresenta. Non è mai facile per un’insegnante mantenere il proprio ruolo in modo coerente attraverso le tante variabili che il rapporto con i bambini/ragazzi presenta, non è facile svolgere in modo non conflittuale i diversi aspetti della funzione educativa, intrecciando necessità affettive, obiettivi normativi, traguardi di valutazione. Non è facile accogliere senza diventare troppo vulnerabili, pretendere senza allontanare l’altro, impedire che una eccessiva condivisione emotiva annulli i limiti senza che ciò sì trasformi in una impossibilità ad avvicinarsi all’altro.

In questa fase di oscillazione tra presenza/assenza della scuola si tratta quindi, da una parte, di riempire il vuoto che la perdita del rapporto quotidiano ha creato e il distanziamento sociale ha imposto, dall’altra di garantire quella distanza che permette al bambino di percepire la capacità di contenimento dell’adulto e all’insegnante di esercitare il proprio ruolo.

Lo schermo del computer dietro e davanti al quale si svolge la didattica a distanza sembra incarnare un paradosso: quel confine così concreto e stabile che impedisce di avvicinarsi e toccarsi sembra rappresentare la rottura di ogni confine tra due mondi, quello della scuola e quello della casa, fino a oggi separati per definizione.

Molto è stato detto sulla difficoltà di piccoli e grandi ad accettare che il computer, o meglio gli sguardi veicolati dal computer, entrassero nella dimensione più privata svelando l’intimità del proprio contesto ambientale e accendendo i riflettori su interazioni quotidiane fino a quel momento riservate alla sfera più ristretta.aula revFoto di Lucilla Musatti

Molto è stato detto anche sulla difficoltà di fare i conti con un tempo dedicato alla didattica a distanza percepito sempre come troppo ridotto rispetto alla scuola in presenza e contemporaneamente così dilatato da diventare troppo spesso invasivo, un tempo che finisce per inserirsi in modo anomalo nello scorrere delle normali routine familiari e che sembra non avere più limiti nello scambio a tutte le ore di messaggi da ambo le parti, nella inconsapevole pretesa che l’altro sia sempre disponibile poiché sappiamo dove trovarlo e possiamo raggiungerlo.

Come se lo svanire dei confini spaziali e temporali lasciasse ogni interlocutore disorientato sulla possibilità di collocare l’altro in un tempo e in un luogo definiti non solo dalla presenza reale quanto piuttosto dal suo ruolo.

Questo sembra sottendere un problema più profondo legato al timore che una perdita dei confini temporali e spaziali nella relazione coincida anche con una perdita dei confini interiori, sia per quanto riguarda la capacità di esprimere e arginare le proprie emozioni, sia per quanto riguarda la possibilità di comprendere e arginare le emozioni dell’altro. In altre parole, sia per l’adulto che per il bambino, il rischio è che la confusione tra limiti reali e limiti virtuali coincida con la confusione su cosa mostrare o nascondere di se stessi, su cosa soffermarsi o tralasciare dell’altro.

Inevitabilmente, non potersi incontrare in presenza modifica le caratteristiche della relazione tra insegnante e bambino e insegnante e gruppo, in termini di contenuti e di  modalità espressive, in termini di obiettivi educativi e di investimento sociale. Ma se proviamo a guardare il problema della qualità della relazione da un punto di vista più legato alla sfera emotiva, possiamo declinarlo attraverso alcune domande.

Che cosa si può esprimere o tacere, quando non ci si guarda direttamente negli occhi e non si può utilizzare il linguaggio non verbale per accompagnare ciò che si vuole dire e per comprendere meglio ciò che gli altri dicono?

E se le parole e i silenzi fossero più tangibili e pesassero di più dietro lo schermo? E se le parole e i silenzi cambiassero significato quando si svolgono nell’atmosfera rarefatta di un collegamento online?

A scuola si è in tanti, per definizione, e tante sono le interazioni che possono essere attivate, tessute, coltivate. Che cosa accade invece quando, nella didattica a distanza, ogni bambino è una entità singola di fronte allo schermo e, se viene organizzata una piattaforma, si trova a dover gestire una rete di scambi molto particolare. 

Non è facile, infatti, interagire in una situazione nella quale le comunicazioni sono determinate dagli spazi di tempo concessi da un incontro dove le regole del come parlare, a chi rivolgersi, chi ascoltare sono rigide e spesso troppo dure per essere accettate da un bambino: non ci si può nascondere dietro un compagno, non si può confondersi nella confusione, non si può sfuggire allo sguardo di tutti, non si può in diretta differenziare le modalità comunicative con i diversi interlocutori.

La complessità degli scambi online può essere forse letta con più chiarezza alla luce di un’analisi di quali sono le componenti che caratterizzano la rilevanza e l’incisività di uno scambio. In altre parole, quali sono i canali attraverso cui, quando si sta tutti insieme a scuola, passano quei contenuti emotivi che rendono il rapporto tra pari vitale e significativo? Come si svolge il gioco delle scelte, degli incontri e degli scontri, delle alleanze che giorno per giorno animano la vita sociale di una classe, in una realtà frammentata nello spazio e nel tempo come quella virtuale?

Per chiudere le brevi riflessioni aperte all’inizio, varrebbe la pena chiedersi quali aspetti della relazione educativa possono essere rafforzati in un contesto così faticoso come quello imposto dalla continua necessità di tornare, almeno a fasi alterne, al distanziamento fisico e di rivedere contenuti e traguardi della programmazione. Da un’esperienza di formazione con un gruppo di insegnanti impegnate nella ripresa delle attività didattiche sia a distanza che in presenza sono emerse alcune interessanti considerazioni:

Quale deve essere oggi il nostro focus? In questo periodo i bambini non sono più al centro, al centro c’è il virus.”

“La mascherina è diventato un elemento così forte che l’altro giorno quando ho chiesto di rappresentare il compagno che avevano davanti, un bambino mi ha chiesto: devo disegnarlo con o senza mascherina?”

“Dobbiamo spostarci da quello che i bambini e i ragazzi hanno perso a quello che hanno acquisito sul piano delle esperienze emotive.”

“Oggi gli adolescenti sono come Atlante con il mondo sulle spalle.”

Rifocalizzare lo sguardo sui bambini, spostare l’ottica dalle perdite alle conquiste, fare leva sulle energie più positive che sono in grado di attivare, accompagnarli nell’andare oltre la mascherina alla ricerca dell’altro e aiutarli a recuperare nuove potenzialità trasformative sono sicuramente alcune variabili che possono contribuire a rendere costruttiva la relazione, anche se non sostenuta dalla presenza.

Ma è indubbio che il compito educativo assume oggi forme e significati che vanno ben oltre ciò che ogni insegnante si trova normalmente ad affrontare durante il proprio percorso e che può sperimentare con maggiore o minore coinvolgimento emotivo, maggiore o minore attenzione psicologica, maggiore o minore investimento intellettuale.

Un’insegnante chiede: “Questi  di oggi saranno la generazione del Covid?”

Qual è la paura reale degli adulti nei confronti di questa generazione sulle cui spalle pesa la consapevolezza di un prima e un dopo?

Che cosa comporta, in termini di funzioni e obiettivi educativi, fare i conti con lo smisurato aumento di regole e divieti a cui vengono sottoposti oggi i bambini e i ragazzi?

Come aiutarli a fronteggiare la fatica del dover essere e il peso di una forte responsabilità sociale, quando gli stessi adulti non sanno come prefigurarsi il futuro più prossimo?

Con quali parole, con quali gesti, attraverso quali significati elaboriamo con loro la paura della malattia e della morte che inevitabilmente, anche se spesso non in modo esplicito, grava sullo svolgersi della vita quotidiana?

Tentare di dare, se non una risposta, almeno uno spazio di riflessione a queste domande dà la dimensione della complessità del problema, che non può e non deve ridursi a decidere in quale tempo e in quale spazio svolgere la relazione educativa. Sono domande che sottendono una trasformazione importante nel rapporto tra un adulto e un bambino/ragazzo che cresce con il mondo sulle spalle e ha tutto il diritto di essere sostenuto, anche a distanza se ciò si rende necessario, una trasformazione che segnerà un prima e un dopo e che potrebbe favorire una riformulazione significativa di obiettivi scolastici e sociali. 

 

Bibliografia

Bruner, J. (2000), La cultura dell’educazione. Milano: Feltrinelli.

Kanizsa, S., Zaninelli, F. L.,  a cura di (2020), La vita a scuola. Milano: Raffaello Cortina. Lingiardi, V. (2019), Io, tu, noi. Vivere con se stessi, l’altro, gli altri. Milano: Utet.

Mazzoncini, B., Musatti, L. (2005), La strada maestra. I disturbi dell’apprendimento e la formazione degli insegnanti. Roma: Carocci.

Schaffer, H. R. (1998), Lo sviluppo sociale del bambino. Milano: Raffaello Cortina.

[*] Lucilla Musatti, psicologa dell'età evolutiva, formatrice Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. www.lucillamusatti.wordpress.com

 
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CAA

COMUNICAZIONE CHE SUPERA OGNI BARRIERA

 

CAA

COMMUNICATING BEYOND THE BARRIERS

DOI:  10.57613/SIAR06

Maria Caterina Minardi[*]

 

Colui che sa, non parla.
Muto nel ventre del tempo
dove uomini gridano, anche.
Lo sguardo
basterà per comprendere e dire
quanto la voce non dice.

M. Guidacci

Abstract

     Le parole sono, a prima vista, il mezzo di comunicazione più immediato ed efficace, tipico ed esclusivo della comunicazione intenzionale dell'essere umano. È una capacità tipicamente acquisita e non appresa, quindi qualcosa che è naturale per l'uomo, tanto quanto camminare. Si rischia quindi spesso di credere che la comunicazione verbale sia non solo lo strumento di comunicazione più immediato, ma anche l'unico. Sorprendentemente, alcuni approcci e studi di comunicazione ci mostrano il contrario e possono gettare luce e speranza sulle possibilità di comunicazione per le persone con difficoltà cognitive e del linguaggio.

 

Parole chiave 

     Comunicazione Aumentativa Alternativa - comunicazione accessibile – inclusione – partecipazione.

 

Abstract 

     Words are, at first sight, the most immediate and effective means of communication, typical and exclusive of the intentional communication of the human being. It is a typically acquired and unlearned ability, therefore something that is usually natural to mankind, as much as walking. We therefore often risk believing that verbal communication is not only the most immediate tool for communicating, but also the only one. Surprisingly, some communication approaches and studies show us the opposite and can shed light and hope on the possibilities of communication for people with mild or severe speech and cognitive impediments.

 

Key words

     Augmentative and Alternative Communication - accessible communication - social inclusion  - social participation.

     Il ruolo delle parole e la loro capacità di trasformare in materia i pensieri più banali o più profondi è un tema tanto immediato quanto delicato. La parola verbale è, a prima vista, il mezzo comunicativo più immediato ed efficace, tipico ed esclusivo della comunicazione intenzionale dell’essere umano. È una capacità tipicamente acquisita e non appresa, dunque qualcosa che ci è solitamente naturale, tanto quanto camminare. Rischiamo quindi spesso di credere che la comunicazione verbale sia non solo lo strumento più immediato per comunicare, ma anche l’unico. In maniera sorprendente, alcuni approcci e studi sulla comunicazione ci mostrano il contrario.

     Già negli anni di passaggio tra ‘800 e primo ‘900, dopo un momento di grande splendore vissuto dalla parola con la nascita di discipline specifiche come la filologia e la linguistica, la filosofia inizia a dubitare dell’efficacia della parola verbale nella sua capacità di aderire al pensiero e ai significati. La crisi del linguaggio novecentesca non sfocia tuttavia in un mutismo, ma dà origine a sperimentazioni e proposte che cercano di dare un più ampio respiro al concetto di comunicazione. Ecco dunque emergere le sperimentazioni che vedono l’assoluta centralità dell’immagine nell’opera artistica quali, solo per citare alcuni esempi, le pantomime e rappresentazioni teatrali della Visuelle Ästetik in Austria e Germania e l’opera letteraria degli Imagists in ambito anglosassone. Apice di tale sperimentazione muta è il primo cinema europeo fino agli anni ‘30, periodo durante il quale i copioni erano spesso redatti da illustri scrittori (si pensi a Hofmannstahl o Schnitzler), ma dei quali non era citata sullo schermo una sola parola. La comunicazione non è assente, ma diventa altra.

     In tempi più recenti, da un punto di vista maggiormente psicologico, Mehrabian (1971) porta l’attenzione sulla comunicazione più intima, che condivide sentimenti e atteggiamenti, illustrando come questa si affidi solo per il 7% alla modalità verbale, lasciando il restante 93% alla comunicazione paraverbale o non verbale.

     E tuttavia, comunichiamo! O più precisamente, come afferma Watzlawick (1967), non possiamo non comunicare. Lo facciamo, oltre che con le parole, attraverso le espressioni del viso, gesti, la postura... In un mondo bombardato dai social media che predicano il culto dell’immagine, in una cultura che sembra perdere la competenza verbale e che rischia di inaridire la propria comunicazione verbale, parlata e scritta, è importante tornare a dare alla dimensione corporea ed emozionale il suo giusto posto, per favorire il collegamento delle parole con il vissuto corporeo-emozionale, re-imparando ad interpretare la dimensione altamente espressiva e comunicativa delle espressioni corporee e paraverbali che molto dicono, pur senza parole.

     Siamo dunque tutti testimoni diretti del fatto che per comunicare le parole non siano sempre le uniche protagoniste dello scambio con l’altro. Ne è testimonianza ancora più evidente la lingua dei segni utilizzata da molte persone sorde, che sposta sul canale visivo l’input linguistico e comunicativo solitamente affidato alla produzione verbale orale. Pur non essendo di tipo verbale, la comunicazione che avviene tramite il canale visivo della lingua dei segni è altrettanto efficace, qualora i segnanti condividano lo stesso codice e una intenzionalità comunicativa.

     Una comunicazione efficace non si fonda, infatti, tanto sulla modalità comunicativa che viene impiegata, quanto sulla presenza di un emittente e di un ricevente, sulla condivisione di sistema lingua e di un canale comunicativo e, ultimo ma non meno importante, sul desiderio di mettersi in relazione e condividere un pensiero.

     Prendere coscienza di tale dimensione non verbale della comunicazione può aiutarci ad avvicinarci in maniera più consapevole a quei bambini ed adulti che si trovano nell’impossibilità di parlare per esprimere bisogni primari o per relazionarsi, informare e apprendere.

     Come noi, anche chi non parla per una disabilità o una condizione congenita o acquisita, non può fare a meno di comunicare. Lo fa attraverso tutti i canali non verbali che anche noi utilizziamo, ma che spesso restano per loro l’unica finestra verso l’esterno. Un movimento del viso, una postura rigida o rilassata, un tono acuto o profondo possono dire molto dello stato d’animo di una persona che non parla.

     Per queste persone, spesso immerse in un mutismo forzato a causa della propria disabilità, è possibile prevedere strategie di comunicazione personalizzate di supporto al codice verbale che incrementano e rendono possibile la comunicazione. L’approccio di Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA) si offre come una strategia a disposizione di chi dimostra bisogni comunicativi complessi e dei caregiver che vogliono impegnarsi ad abbattere le barriere comunicative in tutti i contesti di vita, per contrastare il mutismo solo apparente di chi non può parlare.

     L’approccio della Comunicazione Aumentativa Alternativa è fondato sulla consapevolezza del fatto che l’atto comunicativo può essere multimodale e che tale multimodalità può essere sfruttata ed enfatizzata anche nei casi in cui, per patologie congenite o cause provvisorie acquisite, una persona si trovi nell’impossibilità di parlare e di comunicare.

     La Comunicazione Aumentativa Alternativa (CAA)si presenta come un approccio clinico dai vari volti, ma dallo scopo univoco di offrire alle persone con bisogni comunicativi complessi la possibilità di comunicare tramite canali alternativi che si affiancano a quello verbale orale.

     Per bisogni comunicativi complessi si intende l’insieme di cause differenziate che possono portare all’assenza di espressione verbale. Possibili destinatarie di un approccio di CAA sono, ad esempio, persone affette da malattie genetiche, paralisi cerebrale infantile, disprassie, disturbi dello spettro autistico o patologie che inibiscono l’espressione verbale e la capacità di comunicazione stessa. In maniera diversa possono beneficiare di un approccio di CAA anche pazienti ospedalizzati per tempi brevi che si trovano nell’impossibilità di comunicare.

     L’approccio di CAA nasce negli Stati Uniti intorno agli anni ’70 con lo scopo di garantire la possibilità di espressione a persone con gravi disabilità motorie e disprassie che, anche in assenza di deficit linguistico o cognitivo, rimanevano spesso isolate e abbandonate a un silenzio forzato. Spesso, le competenze linguistiche di queste persone venivano paragonate alla loro capacità intellettiva e l’impossibilità di parlare veniva spesso interpretata come una disabilità permanente senza possibile soluzione (Beukelman e Mirenda, 2014).

     Nel tempo divenne chiaro che per questo tipo di utenti esisteva tuttavia una soluzione semplice e a portata di mano che consentiva di prestare una voce a chi si trovava nell’impossibilità di parlare, ma presentava il desiderio di esprimere il proprio pensiero. Per questo tipo di utenti si iniziò a mettere a punto e ad individuare ausili adeguati che consentissero l’espressione del messaggio tramite un codice simbolico o alfabetico. In un approccio originario, dunque, la CAA si presenta come un insieme di modalità e strategie espressive per persone che non presentano deficit linguistici e cognitivi, ma che non possono accedere al canale orale (Costantino, 2011, Beukelman e Mirenda, 2014). In questo senso, la CAA non nasce come una tecnica clinica e riabilitativa, ma si delinea nella sua natura più profonda come approccio comunicativo volto a trovare tutte le strade possibili per consentire di comunicare anche a chi non ha voce (Rivarola, 2009).

     Un altro filone di impiego della CAA, maggiormente innovativo e rilevante, nasce più avanti all’interno della pratica clinica, per affrontare le difficoltà di comunicazione legate a deficit di natura cognitiva e linguistica (gravi ritardi mentali, sindromi genetiche, disturbi e deficit del linguaggio) andando ad agire innanzitutto sulle competenze comunicative di base che spesso non emergono secondo le tappe dello sviluppo tipico, sempre partendo dalle modalità comunicative presenti nel bambino o nel ragazzo con bisogni comunicativi complessi. Per questo particolare bacino di utenza, la Comunicazione Aumentativa non è solo uno strumento espressivo, ma anche una strategia di comunicazione a supporto della comprensione, per risvegliare il desiderio di comunicare e di mettersi in relazione con l’ambiente circostante influenzandolo.leggereI simboli pittografici utilizzati sono di proprietà del governo di Aragona e sono stati creati da Sergio Palao per ARASAAC (http://www.arasaac.org), che li distribuisce sotto Licenza Creative Commons BY-NC-SA.

     Per questo motivo, è importante sottolineare che parlare di CAA non significa esclusivamente individuare uno strumento di comunicazione, tecnologico o meno in quanto spesso, a seconda del bisogno comunicativo specifico dell’utente, un approccio di CAA prevede anche uno sforzo riabilitativo che coinvolge vari aspetti della persona a livello clinico e relazionale. In questa ottica, viene definita Comunicazione Aumentativa una qualsiasi strategia e ogni eventuale strumento che si affianca all’espressione verbale per consentire e favorire la comunicazione.

     Tra gli strumenti di CAA volti a favorire ed aumentare le occasioni e le competenze comunicative vi sono, ad esempio, sintetizzatori vocali, lingue dei segni o modalità gestuali e una modalità di comunicazione visivo-simbolica che si serve di simboli grafici e pittogrammi, forse maggiormente conosciuta e diffusa al giorno d’oggi. Per questo motivo, può essere utile offrire una brevissima panoramica sui simboli grafici come strumento di CAA.

     I simboli della CAA sono immagini grafiche più o meno stilizzate che rappresentano le varie parti del linguaggio: sostantivi, verbi, aggettivi e, per alcuni sistemi simbolici, anche la classe funzionale che contiene articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni. A seconda della parte linguistica rappresentata, i simboli si possono definire trasparenti (quando il referente è chiaramente riconoscibile, come nel caso di sostantivi concreti), traslucenti (quando il simbolo contiene un certo grado di arbitrarietà) od opachi (quando la relazione tra significante e significato è completamente arbitraria: i simboli opachi rappresentano prevalentemente la classe funzionale). I simboli della CAA sono diffusi a livello mondiale, ma non ne esiste un solo tipo e non sono quindi universali. Infatti, esistono diverse famiglie di simboli, veri e propri dizionari di simboli, che hanno sempre lo scopo di offrire una rappresentazione simbolica della lingua, ma che si differenziano per caratteristiche grafiche o di organizzazione interna. Ad esempio, alcune famiglie di simboli, come i Widgit Literacy Symbols (simboli WLS), presentano un’organizzazione interna coerente e strutturata in termini di coerenza grafica, semantica e linguistica, con elementi concettuali che ricorrono per la costruzione dei simboli e contribuiscono a creare significati in forma modulare. Ad esempio, nei simboli WLS il cerchio blu che racchiude un elemento sta a rappresentare un contesto famigliare, personale. Possiamo avere quindi un simbolo generico di casa, che rappresenta un edificio, e lo stesso simbolo di casa contenuto all’interno del cerchio blu, che sta a rappresentare la mia casa, come contesto intimo e personale. Per queste caratteristiche di coerenza interna, i simboli WLS vengono definiti un set di simboli, in opposizione ad altre famiglie di simboli che vengono definite “insiemi simbolici”, ovvero raccolte di simboli che non hanno una coerenza grafica, semantica e linguistica interna, o che l’hanno in modo limitato. Per fornire solo un esempio tra molti, i simboli PCS (Picture Communication Symbols) e i simboli Arasaac hanno una coerenza linguistica e semantica interna più limitata rispetto ai simboli WLS. Padre dei sistemi di rappresentazione del linguaggio qui citati è il Bliss, un interessantissimo sistema simbolico messo a punto dall’ingegnere Charles Bliss che nel 1949 mette a punto un sistema linguistico altamente strutturato per la rappresentazione semantica sotto forma di segni grafici. Questo suo esperimento non era inizialmente inteso per sopperire alle carenze comunicative di persone con disabilità, ma si è dimostrato fondamentale nell’evoluzione della storia delle strategie di Comunicazione Aumentativa e nella messa a punto dei futuri sistemi simbolici.

     In riferimento alle strategie di CAA messe in atto, quale l’uso di segni o simboli grafici sin da un’età precoce, è interessante notare come questi rispecchino la comunicazione iniziale multimodale dei bambini a sviluppo tipico. La letteratura ha evidenziato in diversi luoghi (tra cui Colonnesi et al., 2010) la stretta connessione tra sviluppo verbale e motorio e la co-occorrenza della modalità espressiva gestuale e quella verbale nella produzione di prime frasi in bambini di 9-12 mesi. Di conseguenza, l’approccio di CAA segue la forma spontanea e naturale della comunicazione, evitando di definirsi in alcun modo come un esercizio, uno stimolo, e quindi una forzatura.

     Un approccio di CAA non si propone in alcun modo di sostituire il linguaggio verbale o abbandonare il trattamento logopedico. È stato notato ripetutamente in letteratura come un approccio di CAA non inibisca in alcun modo la produzione verbale, ma al contrario contribuisca al suo sviluppo qualora essa potesse emergere (Rivarola 2009, Beukelman e Mirenda 2014). Al contrario, in quanto aumentativo, l’approccio prevede la simultanea presenza di strumento alternativo e linguaggio verbale orale standard, che si accompagna allo strumento alternativo visivamente e oralmente, tramite il supporto del partner comunicativo che accompagna lo strumento di CAA denominando il referente, espandendo il contesto comunicativo, facendo domande. Lo strumento di CAA diventa allora supporto alternativo che accompagna lo stimolo verbale orale in entrata, e, qualora sussistano le possibilità, accompagna la produzione verbale in uscita.

     In caso di sviluppo atipico in bambini con bisogni comunicativi complessi derivanti da patologie presenti sin dalla nascita, strategie e strumenti di CAA possono accompagnare in modo efficace tutte le situazioni di vita a partire dai primissimi anni, al fine di aumentare le occasioni di comunicazione e di relazione.

     È il caso ad esempio dei momenti di gioco e di lettura condivisa, frequentissimi nei primi anni di vita, dove l’approccio di CAA può inserirsi tramite semplici funzioni comunicative che aiutino ad agire sull’ambiente (interrompere o riprendere un gioco, fare richieste, esprimere sentimenti semplici) e tramite la lettura condivisa di libri che ripropongano il codice comunicativo alternativo scelto (si pensi, ad esempio, ai libri in simboli).

     L’intervento precoce nasce certamente innanzitutto in seno alla famiglia, nella quale l’interazione ha primariamente luogo, ma può essere efficacemente riproposto alla scuola dell’infanzia, grazie all’introduzione di una comunicazione visiva a tutto tondo che coinvolge l’intera classe: assieme alla modalità verbale di comunicazione, l’ambiente può essere modificato in un’ottica di un approccio di CAA inserendo libri in simboli, agende visive delle attività svolte o da svolgere o l’etichettatura visiva degli ambienti per rinforzare l’associazione linguistica tra significante e significato. Tali strategie visive possono rappresentare un beneficio per l’intera classe, indipendentemente dalle diverse competenze, in quanto rappresentano possibilità di sviluppo delle autonomie per tutti (consultare l’agenda visiva per sapere cosa accadrà, recarsi autonomamente in un ambiente in quanto etichettato e visivamente significativo, approcciarsi a una prima esperienza di lettura del testo grazie al libro in simboli…).

     È stato poi notato a più riprese che la possibilità di esprimere, seppure talvolta in maniera limitata, il proprio pensiero o desiderio, riduce il sentimento di angoscia e frustrazione legato all’impossibilità di esprimersi e di farsi capire e limita in maniera proporzionale lo stress della persona con bisogni comunicativi complessi e il presentarsi di comportamenti problematici che vanno a rendere instabili i rapporti con i famigliari e l’ambiente esterno (Beukelman e Mirenda, 2014, CSCA, 2012). In questo senso, l’approccio di CAA presenta un grande potenziale, in quanto consente di disporre strategie preventive che aiutino a comprendere la situazione e offrano maggiori strumenti per fare chiarezza sugli eventi e sull’ambiente circostante. In qualsiasi ambiente di vita è infatti possibile predisporre strategie per anticipare un cambiamento di routine o una situazione particolarmente difficile da gestire servendosi di strumenti in entrata che favoriscono la comprensione. Tali strategie comprendono, ad esempio, storie sociali relative a un cambiamento importante (passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria, una visita dal medico, l’arrivo di un nuovo insegnante…) o racconti visivi di sequenze tramite simboli, immagini, oggetti significativi o fotografie per descrivere un avvenimento e i comportamenti corretti da mettere in atto (andare in gita, prendere il treno, eseguire un compito a scuola), o ancora la predisposizione e anticipazione di un lessico visivo specifico e adatto alla nuova situazione. Tali strategie visive, impiegabili a casa, in ambulatorio, a scuola, all’oratorio, nei luoghi sportivi o ricreativi aiutano a ridurre il senso di sorpresa e l’impossibilità di spiegarsi o di chiedere spiegazioni in una situazione delicata quanto inaspettata.

     Si delinea in questo senso ancora meglio come un approccio di CAA possa apportare benefici non solo sul piano dell’espressione, ma anche su quello della comprensione stessa. Occasioni di comunicazione differenziate offerte da un approccio di CAA rappresentano la base sulla quale potere sviluppare i vari livelli della comunicazione, che non riguardano solamente la possibilità di esprimere un bisogno primario ma anche, aspetto ancora più importante, la possibilità di esprimere una scelta, una preferenza, di dare voce ai propri pensieri e desideri e di sapere interagire anche sul piano socio-pragmatico, in un’interazione che esce dal solo piano contestuale. In una parola, l’intervento di Comunicazione Aumentativa consente di autodeterminarsi e di agire sull’ambiente.

     Di conseguenza, un aspetto fondamentale dell’approccio di CAA è anche quello di incoraggiare le autonomie sociali e comunicative, cercando il più possibile di coinvolgere tutti gli attori e gli ambiti di vita della persona con bisogni comunicativi complessi, affinché l’approccio di CAA non rimanga limitato alle mura domestiche, ma diventi realmente la voce di chi voce non ha. È necessario quindi che l’ambiente e i partner comunicativi che affiancano la persona con bisogni comunicativi complessi siano estremamente accoglienti e informati, e aderiscano anch’essi alle strategie di CAA messe a punto e in pratica dall’équipe medica e dalla famiglia.

     Un approccio di Comunicazione Aumentativa può essere considerato realmente efficace solo quando viene condiviso in tutti gli ambiti di vita: la progettazione individualizzata di un sistema di comunicazione non può dirsi infatti raggiunta se non consente potenzialmente di comprendere ed esprimersi in tutti le situazioni di vita. Spesso, infatti, si tende a limitare le possibilità di comunicazione all’espressione dei bisogni primari. Tuttavia, l’obiettivo di raggiungimento della competenza comunicativa non deve essere limitato alla sola soddisfazione di beni primari e urgenti, ma deve essere visto come un vero e proprio percorso di sviluppo comunicativo, di competenze, conoscenze e autonomie, che si realizzano nelle diverse esperienze di vita quotidiana. Generalmente, l’approccio di CAA e la ricerca di strategie sempre più efficaci vengono messi in pratica innanzitutto in ambito clinico riabilitativo, durante poche ore di riabilitazione settimanali. Negli ultimi anni, tuttavia, è stato sottolineato come la sola riabilitazione clinica non sia sinonimo di efficacia e beneficio, a meno che l’intera famiglia, vero, indispensabile e principale attore in un approccio di CAA, venga coinvolta. Senza l’azione della famiglia, infatti, l’utente di CAA non beneficerebbe di una comunicazione integrata, ma di sola riabilitazione clinica.

     Il ruolo della famiglia nel processo di riabilitazione alla comunicazione deve cambiare radicalmente, spostandosi da un ruolo marginale ad uno centrale, come descritto nel Modello Family Centered messo a punto da Rosenbaum (2004). Secondo questo modello, il rapporto gerarchico tra specialisti e famiglia, a cui spesso siamo abituati, deve lasciare spazio ad un rapporto intenso e di reciproco scambio, in cui i compiti specifici di famiglia e professionisti sono entrambi necessari nelle loro diverse mansioni e conoscenze. Secondo tale modello, la partecipazione e l’utilizzo attivo della Comunicazione Aumentativa deve essere intrapreso in maniera concorde e uniforme dai diversi attori della quotidianità di bambini o ragazzi con bisogni comunicativi complessi, in un vero e proprio lavoro di squadra coordinato dai clinici e implementato dai network che fanno parte della vita quotidiana, come la famiglia e la scuola. Per questo, il ruolo della famiglia è fondamentale, ma non ancora sufficiente: per essere davvero efficace, la CAA deve potere coinvolgere tutto l’ambiente circostante, compresi gli ambienti meno familiari, quali la scuola, gli ambienti ricreativi, fino a toccare i luoghi pubblici e di incontro dell’intera società. Infatti, l’intervento di CAA ha un forte potenziale in un soggetto solo se l’intera rete collabora e partecipa a questo tipo di comunicazione in tutte le fasi di crescita e sviluppo della persona con bisogni comunicativi complessi.

     È quindi auspicabile la nascita di iniziative che coinvolgono l’intera comunità scolastica, parrocchiale, sportiva e addirittura civica, al duplice fine di sensibilizzare le persone in relazione alla presenza di una disabilità invisibile, come quella dei deficit di comunicazione, e di garantire alla persona con bisogni comunicativi complessi di avere voce ed agire su ogni tipo di ambiente. A tal scopo, è possibile mettere in atto progetti di inclusione scolastica, nei quali la Comunicazione Aumentativa viene integrata negli ambienti di vita e resa parte del quotidiano di tutti i bambini a sviluppo tipico che possono beneficiarne. Ad esempio, nell’indicazione visiva degli ambienti, nella definizione per immagini di regole e norme comportamentali, nell’analisi e definizione di compiti e processi in modalità visiva…In modo particolare nella scuola dell’infanzia, dove non si ha ancora accesso alla letto scrittura, l’intera classe può servirsi di strategie visive di CAA per la lettura di comportamenti corretti, compiti, e dei libri stessi.

     In tal senso, la CAA diventa una strategia comunicativa necessaria per qualcuno, ma utile per tutti, in un’ottica di Universal Design, volta a rendere spazi e contesti accoglienti e fruibili da tutti allo stesso tempo, senza necessità di adattamenti o modifiche a posteriori. Le strategie e gli ambienti inclusivi possono infatti rivelarsi estremamente utili anche per soggetti verbali che non possono comunicare in seguito ad operazioni chirurgiche o incidenti, per persone sorde segnanti che devono relazionarsi con persone che non conoscono la lingua dei segni, per gli stranieri che stanno imparando la nostra lingua, per i turisti, per le persone anziane che fanno esperienza di perdita di memoria, per le persone a bassa scolarizzazione che devono orientarsi in un documento difficile o in un ambiente civico poco intuitivo.

     In ambito educativo sono nate negli ultimi anni diverse esperienze che testimoniano come un approccio di CAA dedicato a bambini o ragazzi stranieri appena arrivati nel nostro Paese e che devono approcciarsi con la lingua può rivelarsi estremamente utile sul piano dell’apprendimento linguistico e dell’integrazione, soprattutto grazie all’introduzione e all’uso di libri in simboli nella scuola dell’infanzia e primaria (Costantino 2012, Vago 2016, De Appolonia et al. 2017)

     Per quanto riguarda la realtà civica, è auspicabile che le municipalità e gli enti pubblici aderiscano sempre più di frequente e con maggiore convinzione a progetti di comunicazione urbana accessibile, come già succede in alcuni paesi all’estero, nei quali anche i negozi, luoghi ricreativi, ospedali e in tutti i luoghi pubblici e quotidiani della vita in città diventano esperienze accessibili a tutti, mediante la presenza organizzata di strategie di CAA che traducono le informazioni principali relative ad un luogo, e che offrono gli strumenti di base per favorire l’autonomia della persona con bisogni comunicativi complessi nell’interazione in quel determinato luogo.

     In Italia, una prima esperienza sistematica, organizzata e replicabile di tale iniziativa è rappresentata dal progetto “Città in CAA”, nato nella Romagna-Faentina, che prevede sessioni di formazione di commercianti e dipendenti pubblici, i quali progettano tabelle di comunicazione in simboli utili allo scambio comunicativo e le mettono a disposizione all’interno della realtà specifica (maggiori informazioni sul progetto si trovano al sito: www.cittaincaa.it).

     La Comunicazione Aumentativa Alternativa si connota quindi sempre di più come un approccio non solo utile, ma vantaggioso, come un potente strumento che crea legame e inclusione all’interno della società.

     La crescente diffusione dell’approccio di CAA in diverse modalità e contesti sollecita un ampliamento della ricerca stessa nell’ambito della Comunicazione Aumentativa Alternativa. Ultimamente, questa si dirige verso nuovi orizzonti, come quello delle nuove tecnologie e del loro possibile impiego nell’ambito del supporto alla comunicazione. La presenza delle nuove tecnologie porta inoltre a interrogarsi sulle competenze e abilità necessarie al loro utilizzo, con una conseguente analisi sulle opportunità e le sfide lanciate da una multimodalità che, di per sé, non è sconosciuta alla Comunicazione Aumentativa, ma che si presenta sotto vesti tecnologiche che cambiano velocemente nel tempo e che richiedono un diverso approccio anche nei confronti dell’utente di CAA. Un altro ambito di studio nuovo e tutto italiano è quello dei benefici relazionali e linguistici della lettura di libri scritti nei simboli della CAA, argomento inaugurato dal Centro Sovrazonale di Comunicazione Aumentativa e analizzato da un numero crescente di tesi di laurea legate al Centro stesso.

 

Bibliografia 

Beukelman, D.R, Mirenda, P., (2014). Manuale di Comunicazione Aumentativa Alternativa. Trento: Erickson.

Colonnesi, et al, (2012), The relation between pointing and language development: A meta-analysis, Developmental Review.

Costantino, M. A. (2012). Costruire libri e storie con la CAA. Trento: Erickson.

De Appolonia, G., Rocco, E., Sarti, P. (2017). Simboli, immagini e tecnologie a supporto dell’apprendimento dell’italiano come L2, Italian Journal of Educational Technology, 25(1), 80-85.

Halliday, M.A.K (1978). Language as Social Semiotic: the Social Interpretation of Language and Meaning. London: Arnold.

Light, J., McNaughton D., (2014). Communicative Competence for Individuals who require Augmentative and Alternative Communication: A New Definition for a New Era of Communication?, AAC Augmentative and Alternative Communication, 30:1, 1-18.

Mehrabian, A., & Ferris, S. R. (1967), Inference of attitudes from nonverbal communication in two channels. Journal of Consulting Psychology, 31(3), 248–252

Rivarola, A., (2009). Comunicazione Aumentativa Alternativa. Milano: d’Intino Onlus.

[*] Linguista clinico. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. – Studio professionale: via Salvolini, 2 Faenza (Ra)

ALTRE CULTURE ALTRI TEMPI

 

 

OTHER CULTURES OTHER TIMES

 DOI:  10.57613/SIAR14

Antonella Messina[*]

 

 

Abstract

     L’articolo propone riflessioni sull’organizzazione del tempo all’interno della società occidentale contemporanea. L’accelerazione e la vita di fretta possono confrontarsi con altri modi di organizzare il tempo in altre culture (africana, cinese, buriata, cristiano ortodossa). Chi legge potrà riflettere sul tempo come categoria culturalmente determinata.

Parole chiave

     Tempo – culture – differenze.

 

Abstract

     The article proposes reflections on the organization of time within contemporary western society. The speeding up and life in a hurry can confront other ways of organizing time in other cultures (African, Chinese, Buryat, Orthodox Christian). Readers will be able to reflect on time as a culturally determined category.

Keywords

     Time – Cultures – Differences.

 

 

Se è vero che “l’invenzione determinante

per l’età industriale non è il motore ma l’orologio[1],

allora nell’epoca post industriale

dovrebbe emergere una nuova esperienza del tempo

Raimon Panikkar

 

 

Una rotazione degli occhi sull'accelerazione occidentale contemporanea

     La società occidentale contemporanea, sembra, nella maggioranza dei processi organizzativi e relazionali, essere improntata sulla cultura del tempo esterno, misurabile e d’orologio, lineare, progettuale, passibile di un’accelerazione utile ad arrivare il prima possibile e velocemente a degli obiettivi prefissati. Intenzione dell’articolo è esplorare come altre culture abbiano elaborato modalità differenti di gestire il tempo, per aprire ad una pensabilità di altri  come utili ad organizzare il tempo. L’idea dell’articolo nasce dalla volontà di occuparsi delle sempre più numerose esperienze di ansie, sensi di inadeguatezza, impotenze, insostenibilità, spaesamenti, legati alla percezione del “non avere tempo”. Prendiamo atto con le parole del filosofo e teologo Panikkar (2021) del fatto che l’impostazione di quella che chiamiamo “Era tecnologica moderna” deriva direttamente da una certa civiltà, la quale presuppone una certa concezione della vita, che -a ragione o a torto- non è affatto universale”. (Panikkar, 2021, pag.16).

     Può essere importante interrogarsi, anche come psicologi, su che tipo di civiltà stiamo vivendo e su come questa possa incarnarsi nei  sistemi mente/corpo. Come recita il titolo di un libro di un etnopsichiatra francese, Tobie Nathan, Non siamo soli al mondo: è importante tenerne conto per riflettere sulle proprie radici e sull’impatto che gli incontri con altri modi di vivere possono avere su di noi.

     L’intento di questo lavoro è dialogare anche con chi lavora con le relazioni di cura, per proporre una visione, meta e consapevole, della possibilità che il tempo esterno, così’ come lo pensiamo, viviamo, abitiamo, organizziamo è una costruzione culturale, socio-economica, veicolata da dispositivi sociali che contribuiscono alla soggettività (Guarrasi, 2012) e propone un tempo veloce accelerato competitivo ansiogeno, frammentato, deprivato del corpo. Lungo questo processo potrebbe essere possibile esplorare la possibilità che alcuni dei disagi contemporanei (accelerazioni, competitività insostenibili e relative ansie, disattenzione al corpo) possano essere contestualizzati, riconosciuti come una delle risposte possibili dentro una cultura, occidentale e contemporanea, dal tono perfomante, allarmato e fondato su un tempo esterno scollato dai ritmi interni del corpo (sonno, riposo, respiro, battito del cuore, per citarne alcuni).

     In questa ottica l’articolo propone una rotazione degli occhi[2], una possibilità di ruotare lo sguardo circondando il circondante, circondando la cultura che ci circonda, per accedere a visioni di altri tempi possibili ed appropriati.

     Si tratta di osservazioni verso l’esterno rimanendo in ascolto del proprio tempo interno, lasciando poi emergere il cosa ci abita dentro, quando, compiuta la rotazione, torniamo allo sguardo con cui ci muoviamo solitamente nel mondo; in termini simbolici si tratta anche di sentire come risuona il nostro modo di organizzare il tempo dopo avere esplorato altre organizzazioni del tempo esterno. Questo processo, un vero e proprio “viaggio di ritorno” dalle esplorazioni, può avere l’esito di confermare, riscegliere, contaminare, armonizzare, evolvere ciò che già sapevamo (etimologicamente sapere da sapio, che aveva sapore per noi) lasciandoci immersi nella consapevolezza dell’esistenza di un campo di possibilità ampio, tridimensionale, intimo, variegato.

INVIATO img.Messina Paul Klee Angelus Novus 1920Paul Klee - Angelus Novus 1920

     Proprio come percorrendo con gli occhi il perimetro di un cerchio, verranno di seguito individuate, osservate, descritte, strutture culturali e percezioni del tempo tra loro differenti. Volutamente non ci si soffermerà nel commentare ogni scena descritta. L’intento è di generare nel lettore una rotazione che possa rendere fluido il viaggio tra i differenti “come temporali”.

     Marie Louise Von Frantz psiconalista, ricorda nel 1980 che nel libro Il pensiero cinese (1943), il sociologo Marcel Granet scrive che per l’antico pensiero cinese il contare (oggetti e tempo) è sempre stato qualitativo e non quantitativo,  fondato sulla qualità che ogni numero possiede piuttosto che sulla quantità dei numeri. In Divinazione e sincronicità scrive la Von Franz: “Per la mente cinese il numero crea associazioni qualitative (…) poi arrivai a leggere una storia incredibile che l’autore racconta: riuscì a svegliarmi. Questa è la storia. Durante una battaglia, undici generali, si trovarono a decidere se dovessero attaccare o ritirarsi. Nella discussione che seguì, alcuni erano favorevoli all’attacco, altri alla ritirata. Il confronto con la strategia  da adottare si protrasse a lungo e, non riuscendo a trovare un accordo, decisero di votare. Tre generali votarono per l’attacco e otto per la ritirata. I generali decisero a quel punto di attaccare , perché il 3 è il numero dell’unanimità. (…) Un cinese potrebbe pensare che inconsciamente i generali erano già unanimi sull’attacco benché solo tre di loro fossero coscientemente di quel parere. Perciò stando alla storia, attaccarono e vinsero” (Von Franz, 2019, pagg.128-129).

     La tradizione cristiana è fatta anche di meditazione e di un tempo interno sacro e qualitativo che consente di essere sempre in connessione con il divino; la tradizione dell’esicasmo[3] narrata nei Racconti di un pellegrino russo, prende ispirazione dalle parole di Paolo, “pregate incessantemente”, per parlare di una preghiera continua che abita nel cuore. Si tratta di una preghiera le cui parole, ripetute costantemente, incessantemente, proprio con il ritmo del respiro, costituiscono un modo di essere in permanente contatto con il divino, abitando il proprio tempo interno mentre nel tempo esterno si compiono i gesti della quotidianità. Nel libro il pellegrino sostiene che:“ Qui sta il punto: noi siamo  lontani da noi stessi, e nemmeno abbiamo gran desiderio di riavvicinarci, anzi continuiamo a sfuggire per non ritrovarci di fronte a noi stessi, e barattiamo la verità con le nostre cose futili, salvo poi pensare ”come mi piacerebbe occuparmi di cose spirituali o della preghiera, ma non ho tempo, gli impegni e le preoccupazioni della vita non mi lasciano modo di occuparmene”. Ma che cosa è più necessario: la salvezza eterna dell’anima o la vita transeunte del corpo, per cui tanto ci affanniamo?[4]

 

    Gli sciamani della Buriazia (regione meridionale della Siberia al confine con la Mongolia) ed in generale lo sciamanesimo turco-mongolo, ritengono che l’uomo occidentale abbia un rapporto perturbato con il tempo poiché il suo io si è separato dalla natura e divenendo altro da essa ha dimenticato di essere immortale. Per tale motivo l’uomo teme la morte e vive un tempo spaventato, di solitudine e mancanza, senza leggere l’immenso cui appartiene. L’umano ha tentato di porre rimedio a questa paura utilizzando il potere del controllo, anche del tempo, e teorizzando, di essere un’entità superiore alla natura. Questo ha acuito la solitudine dell’uomo occidentale che ha dimenticato di essere una sfera, composta da una metà carnale e visibile e da una metà invisibile. Per questi sciamani quando l’uomo imparerà a non temere la grande soglia che insiste tra le due metà della sfera, visibile ed invisibile, vita e morte, inizierà ad essere libero dalla paura e dalla morte e non pretenderà di controllare il tempo e la natura.

     La Grecia antica prevedeva un dialogo continuo con l’invisibile (le divinità) e tre  parole per esprimere il tempo. Il termine Chronos  indicava la successione di istanti, il tempo nella sua sequenza cronologica e quantitativa, oltre che divinità terribile e potentissima che divora i propri figli. Il termine Aiòn  designava la vita come durata, teneva conto di una continuità persistente tra le intermittenze e le anacronie dell’esistenza personale. Con il termine kairòs si indicava l’occasione, il momento propizio che l’umano può cogliere: una istantanea, sacra, vigile capacità di lettura che consente un contatto con il tempo assoluto e modifica qualitativamente lo stato degli accadimenti. Si poteva parlare di Kairòs nella strategia militare, nell’anamnesi del medico, nell’abilità del retore.

     Il verbo essere in Africa, specie nelle lingue bantu[5] rappresenta una Forza vitale in continuo divenire. Il tempo è la manifestazione di questa forza vitale antica ed ancestrale cui l’individuo/collettività sa di appartenere: “Se chiediamo ad un Africano perché si è comportato in un certo modo in una determinata circostanza essenziale, la sua riposta è icastica: «Come i nostri Antenati fecero nei tempi antichi, così facciamo oggi; come è stato tramandato dall’inizio della creazione della terra, così dobbiamo fare noi». Durante i riti di iniziazione i fanciulli non imparano «ciò che hanno fatto i genitori o i nonni», bensì «ciò che per la prima volta» fu compiuto dagli Antenati. (Miguel, 2009, pp. 59-76).

     Non si tratta di imitazione o di tradizione tramandata, ma di una connessione con il tempo delle Origini, ovvero: “Nella risposta degli Africani, le espressioni “tempi antichi”, “inizio della creazione della terra” più che darci un senso storico-cronologico, ci ridanno una dimensione in cui il tempo e il divino si confondono. (Ibidem).

     A conclusione di questa rotazione lungo i tempi altri, vengono in mente le parole di Hanna Arendt, in La vita della mente (pubblicato postumo nel 1976) sulla responsabilità di abitare il proprio presente. Nel commentare l’opera Angelus Novus di Paul Klee, acquerello del 1920, la Arendt descriveva un angelo che volge le spalle al futuro (che gli sta innanzi e gli taglia la strada) e guarda inorridito al passato. La filosofa sosteneva la necessità e la possibilità di trovare un punto, proprio convergente nell’Angelo che ella associa all’umano, dove tempo passato e tempo futuro si intersecano creando una diagonale all’infinito, un tempo in cui l’umano può abitare il presente e scegliere di assumersi la responsabilità di un tempo storico. Le psicoterapie e le relazioni di cura incontrano sempre più spesso individui contemporanei, “digitalmente determinati”, in continua accelerazione, protesi verso un futuro ingombrante, in difficoltà nell’abitare il presente. Per costoro il tempo sembra non bastare mai, il loro sembra essere un contatto/fuga con la frammentarietà della propria esperienza, del proprio tempo (inteso anche come durata) e del proprio corpo. Rimangono tutte in divenire le riflessioni sulla possibilità che derivano dai viaggi di ritorno con il  corpo, con le culture e con le intelligenze evolutive.

[*] Psicologa, Psicoterapeuta, Analista S.I.A.R. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Studio professionale: Via Cuturi, 8. Catania.

[1] Munford L., Technics and civilizatione, cit in Panikkar R., Spazio tempo e scienza, volume XII, pag.14

[2] La rotazione degli occhi è un movimento oculare circolare e volontario che attiva l’area della corteccia prefrontale neopalliale stimolando i pattern più complessi ovvero più alti in organizzazione evolutiva. Richiama capacità di metacomunicazione, oltre quelle di integrazione di inclusione, di definzione circondante, di limite separazione, di sfericità di interezza.(Ferri, 2020).

[3] L'esicasmo (dal greco hesychia, calma, pace, tranquillità, assenza di preoccupazione) è una dottrina e pratica ascetica diffusa tra i monaci dell'Oriente cristiano fin dai tempi dei Padri del deserto tra il IV e il VI secolo, ancora praticata nell’Oriente Cristiano e in alcuni gruppi cristiani occidentali. E’ detto anche preghiera di Gesù preghiera del cuore, consiste nella ripetizione incessante della stessa formula, nella propria mente, secondo il ritmo del respiro, mentre si praticano gli affare della vita quotidiana (camminare, lavorare, mangiare, ecc.). Consente di distinguere e far convivere il tempo sacro di connessione con il divino ed il proprio corpo, con il tempo del fare.

[4] La prima edizione dell’opera sembrerebbe datata nel 1881, sull’autore anonimo alcune ipotesi lo individuano nel contadino russo Nemytov

[5] Il termine Bantu si associa alle culture e alle oltre 500 lingue parlate nell’Africa centrale e meridionale.

Bibliografia

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Granet M.(1970), Il pensiero cinese. Milano: Adelfi.

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