Rivista

Bambino, se trovi l’aquilone della tua fantasia

legalo con l’intelligenza del cuore.

Vedrai sorgere giardini incantati

e tua madre diventerà una pianta

che ti coprirà con le sue foglie.

Fa delle tue mani due bianche colombe

che portino la pace ovunque

e l’ordine delle cose.

Ma prima di imparare a scrivere

guardati nell’acqua del sentimento.
 
 

(Alda Merini)

 CORPO, SOCIETA',IDENTITA' SESSUALE

di Marcello Mannella

Alpes Edizioni, 2022

 

Recensione a cura di Piero Paradisi[*]

 

     Il libro di Marcello Mannella è un testo importante. Tratta di temi complessi, per certi aspetti conflittuali, mai banali, ma densi e saturi di significati. I contenuti possono sembrare ostici e pesanti a un lettore superficiale, al contrario, la capacità di scrittura fluida, la ricchezza dei richiami sociologici e filosofici dell’Autore, rendono la lettura piacevole, interessante e scorrevole anche ai non addetti ai lavori.

     Attraverso un approccio culturale di tipo sistemico – complesso si dà voce al corpo come soggetto dell’esperienza sessuale, superando il dualismo mente-corpo che permea la società contemporanea, dove il dibattito tra natura e cultura è sempre attuale. L’Autore muove le mosse storiche sulla sessualità restituendo alla psicanalisi e a Freud il merito di averla sottratta alla biologia positivista, in quanto essa introduce nella discussione sulla costruzione dell’esperienza sessuale, anche istanze di tipo culturale, psicologiche e semantiche oltre a quelle biologiche. L’escursus storico impegna l’Autore nella disamina di argomenti quali la sessualità femminile, l’omosessualità, il genere; una discussione che si è sviluppata a partire dal secondo dopoguerra con l’emergere dei movimenti di liberazione delle donne, i movimenti di contestazione giovanile, i movimenti LGBT.

     Le critiche a Freud da parte di quei movimenti, derivavano dalla costatazione che per la psicanalisi lo sviluppo sessuale, come l’Edipo, si svilupperebbero secondo una linea androcentrica, frutto di una società fondamentalmente fallocentrica, e Freud fu accusato di un sostanziale sessismo.

     Mannella restituisce alla psicanalisi, ma anche alla ricerca etnografica, il merito di aver sottratto alla natura lo sviluppo dell’identità di genere e averla ricondotta a un intreccio complesso tra biologia e cultura. Comunque la costatazione che i movimenti femministi sfociano nella conclusione che il genere fosse frutto esclusivo di influssi culturali, porta a un’ulteriore criticità nella discussione sulla sessualità nella società contemporanea: da un lato la visione meccanicista del corpo come macchina (con il suo corredo di geni, pulsioni, organi e funzioni corporee) e l’altra, opposta, che indica appunto la cultura come l’unico elemento in grado di “imprimere sul corpo tabula rasa” le sue funzioni.

     Il dualismo, per Mannella, è stato superato brillantemente dal contributo fondamentale delle neuroscienze; esse hanno fornito le prove dell’origine corporea della mente, considerata come elemento non disgiunto dal corpo e dall’ambiente, con un suo sviluppo stratificato nel tempo e contemporaneamente nelle strutture cerebrali “sovrapposte” (vedi le teorie di Mc Lean): la mente incarnata e il suo sviluppo bottom up. Per Mannella la mente incarnata non può essere un elemento autoreferenziale, perché è in costante relazione con l’ambiente, il quale con dinamiche di tipo perturbativo, innesca dei meccanismi complessi di trasformazione autopoietica, come indicano anche Maturana e Varela.

     L’importanza di questo concetto è evidente e rivoluzionario: si supera il paradigma evoluzionistico tradizionale, in cui la struttura degli esseri viventi è determinata solo dagli influssi ambientali (secondo modalità adattative). Nel modello sistemico-complesso l’organismo vivente sarebbe capace di scegliere la propria configurazione auto organizzandosi per garantirsi la sopravvivenza. Tale concetto supera così brillantemente il dualismo tra corpo-macchina e corpo-tela.

     La posizione dell'Autore riguardo la sessualità non si discosta allora dal paradigma complesso della teoria dei sistemi, affermando che essa è “una creazione auto poietica che scaturisce dall’accoppiamento strutturale tra il Sé (sistema vivente individuo) e il mondo sociale (ambiente)”. In sostanza l’ambiente è il perturbatore che innesca le modifiche strutturali, ma è il Sé individuo che le dirige e le determina. La sessualità come prodotto auto poietico tra influssi ambientali e Sé non è disgiunta dagli elementi storico sociali della società contemporanea.

     In ambito sociologico Mannella lancia uno sguardo sulla società contemporanea che ha caratteristiche di fluidità e rarefazione nei legami, in cui vengono a disgregarsi o perdere di autorevolezza quegli elementi che graniticamente hanno rappresentato dei dogmi nelle ere pregresse: si pensi alla famiglia nucleare tradizionale, al patriarcato, all’eterosessualità normativa, al ruolo subalterno della donna, alla morale, alla religione. In una società liquida anche la sessualità risente di incertezze e disordine nella sua strutturazione, la quale, ricordiamolo, va di pari passo con il processo di sviluppo della personalità individuale. In una società leggera e incerta come quella contemporanea, anche la sessualità corre il rischio di essere leggera, incerta, reattiva e con posizioni deboli e poco strutturate.Mannella copertina Copertina del libro "Corpo, società, identità sessuale" di M. Mannella Alpes Edizioni, 2022

     Nell’analisi storico culturale della società odierna, Mannella punta il dito sulla crisi del soggetto e di rimando sul costrutto di genere. La soggettività non sarebbe più un’entità stabile e definita dalla natura ontologica dell’individuo, ma un’entità variabile e contingente, ossia anche la soggettività diventerebbe fluida. La conseguenza di queste affermazioni è che il genere si discosterebbe dal dato naturale e sarebbe il prodotto di convenzioni sociali. Ma c’è di più: esiste indubbiamente una relazione tra genere e sesso, ma sarebbe il genere che precede il sesso e non il contrario, venendosi così a superare il binarismo sessuale tradizionale. La convinzione dell’esistenza di un binarismo sessuale fa parte esclusivamente della cultura occidentale, in altre culture il binarismo tout court non esiste e le diversità sono accettate dalla collettività. Cadere nella “trappola del binarismo di genere”, per Mannella, ci impedisce di entrare nella riflessione concettuale contemporanea che sposta le coordinate di osservazione dal dimorfismo sessuale, allo spettro di identità sessuali multiple: queste ultime sfuggono a qualsiasi classificazione semplicistica di maschile o femminile. A questo riguardo Mannella cita quei costrutti scientifici che corroborano le tesi secondo cui nessun individuo è interamente maschio o femmina, ma sarebbe la risultante di una combinazione variabile e individuale di femminilità e mascolinità, derivante da elementi genetici, ormonali, anatomici e cerebrali. Secondo il paradigma del continuismo sessuale non esisterebbe il binarismo sessuale con le sue differenze morfologiche (oppure esse non sarebbero rilevanti), e neanche un binarismo di genere.

     Uscire dalle coordinate del binarismo può essere interpretato come un elemento destabilizzante nella realizzazione dell’identità sessuale, ma Mannella opera una sintesi brillante tra il modello biologista e quello costruttivista. Entrambi i modelli sono inadeguati da soli a determinare il corpo come entità unica e irripetibile; in realtà esso ha la capacità di “in-generarsi” in un’atmosfera di rapporto costruttivo e paritetico tra gli elementi corporei e le sollecitazioni ambientali. La costruzione del Sé e di conseguenza della sessualità avviene secondo un processo bottom up e si compie per fasi lungo una freccia del tempo neghentropica evolutiva a complessità crescente, come ci indica il modello post-Reichiano della SIAR (Società Italiana di Analisi Reichiana). Lo sviluppo della sessualità, che Mannella definisce “costruzione del desiderio d’amore-desiderio sessuale”, avviene anch’essa contemporaneamente alla costruzione del Sé, in un processo di in-corporazione di fase e di livello corporeo.

     Uno sviluppo armonico e la definizione di una sessualità individuale risentirà dunque dei segni incisi di fase di quell’epoca analitica di sviluppo: saltare una fase o attardarsi in essa potrebbe avere dei risvolti sulla sessualità dell’individuo. Mannella fa compiere al lettore un viaggio affascinante attraverso le fasi di sviluppo e indica le peculiarità delle varie fasi e i segni incisi che possono influire sulla costruzione della sessualità.

     La sua posizione  riguardo la sessualità e non solo, è da inscrivere, con elementi critici, nella prospettiva post moderna, ossia il rifiuto della razionalità normativa che ha sinora governato la storia. Secondo tale concezione l’umanità si avvia, nelle sue istanze culturali, politiche e sociali, verso una visione complessa della realtà, con il rifiuto della razionalità forte e normativa, favorendo una “razionalità debole”, attenta alle posizioni delle minoranze e della complessità della realtà. Esiste il pericolo della frammentazione e della dispersione? Certamente sì! Ne è la prova concreta l’affermarsi di una società liquida in cui viene meno anche il senso di un Sé autobiografico stabile. In questa società il Sé è cangiante e pronto a variare in base alle proposte e alle richieste del mercato. Si afferma una crisi psico-pedagogica dei giovani e il superamento di un Super-Io tradizionale, sostituito da attrattori esterni e volatili, ma sempre in relazione alle logiche di mercato. La crisi della società e della famiglia, nelle loro istanze normative, non può che ripercuotersi nello sviluppo caratteriale dei giovani. Dai tratti coatto-fallici della società patriarcale, si passa all’emersione (post moderna) di tratti orali difettuali o peggio a stati di rarefazione borderline.

     La sessualità di oggi rispecchia i tratti caratteriali emergenti, quindi sarà compulsiva, reattiva, provvisoria, con tematiche dominanti di “giusta distanza”, a carattere prestazionale, poco affettiva e oggetto di consumo come le altre merci.  In sostanza la sessualità si trasforma da elemento di liberazione delle masse a elemento di distrazione di massa.

     Questa visione della società post moderna, implica un necessario corollario nell’Autore: la clinica psicoanalitica del genere non può fare a meno di porsi in modo critico alle teorizzazioni circa la così detta “fluidità di genere”. L’Autore dopo aver dunque riconosciuto il valore post-modernista di rottura del genere, secondo me, con qualche istanza all’apparenza contraddittoria, sente la necessità di ascoltare e ristrutturare lo smarrimento di un paziente incerto e confuso circa la sua disforia di genere.

     La risposta clinica non può essere dettata aprioristicamente da approcci validi per tutti, ma occorrerà ascoltare con attenzione le domande del paziente e realizzare un progetto terapeutico condiviso. Mannella richiama il terapeuta a scostarsi da approcci clinici dettati da un’omofobia mascherata o da psicoterapie riparative e manipolatorie sul paziente.

[*] Medico, Psicoterapeuta, Analista Reichiano. Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.. Indirizzo professionale: Via De Benedictis, 59-Teramo

 CURARE LENIRE CONFORTARE

 

TREAT  RELIEVE  SUPPORT

DOI 10.57635/SIAR40

 

Nicole Cordioli[*]

Abstract

     Un’analisi può compiersi solamente per i vivi che continueranno ad essere vivi? Nel seguente articolo si riflette sul come poter adottare l’approccio Analitico Reichiano Contemporaneo in contesti sanitari di fine vita. Si pone l’accento non tanto sull’analisi individuale in senso stretto, ma sul corpo, come soggetto di relazione e di cura, sia con il paziente, sia con i familiari e il personale sanitario. Si pongono in risalto esperienze e competenze di professionisti che, nel tempo, hanno analizzato la tematica dell’accompagnamento nel fine vita.

 

Parole chiave 

      Fine vita – aptonomia - modalità relazionali - corpo.

 

Abstract

     Can an analysis be performed only for those who will stay alive? The following article discusses the way in which the Reichian Model could be used in the end-of-life care settings. The study does not focus on the individual analysis in the strict sense, but on the body, as the main subject on which treatments and relationships involving patient, and care team are bases. The experiences and skills of professionals who have studied the end-of-life care over the years are highlighted.

Keywords

     End-of-life – haptonomy - relational modalities - body.

     Marie de Hennezel, psicoanalista e autrice de La morte amica, che ha lavorato per molti anni nei contesti delle cure palliative, in Hospice, scrive: “È probabile che l’accompagnamento dei moribondi non rientri nell’ambito della psicoanalisi. Nondimeno continuo a sostenere che si può restare analista, cioè all’ascolto dell’inconscio e della dinamica psichica in atto negli ultimi istanti, e assumersi quel compito iniziatico che consiste nell’impegnarsi totalmente nell’accompagnamento attraverso un passaggio.” (de Hennezel, 1996; pag.189).

     Penso che la risposta alla domanda sul significato di essere analista in strutture sanitarie di lungo degenza per disabili e di cure palliative, risieda nel senso che vogliamo dare alla nostra professione. Un’analisi può compiersi solamente per i vivi che continueranno ad essere vivi? Se lo scopo della nostra professione è di aiutare le persone a vivere meglio sciogliendo i loro nodi, in quest’ultima accezione, anche chi ha un’aspettativa di vita breve può avere nodi o sospesi che forse gli impediscono anche di lasciare la vita al naturale termine. Allora, aiutarlo a vedere, capire o agire, può permettergli di lasciare la vita avendo compiuto quello che c’era da compiere.

     Si parte dall’assunto che la vita istintiva, affettiva ed emozionale trovi luogo ed espressione nel sistema nervoso vegetativo, nel sistema muscolare, nel sistema neuroendocrino, nel sistema psichico e nella pulsazione energetica. Possiamo dire che, se assumiamo un’ottica tridimensionale analitico-reichiana (considerando fase evolutiva, tratto caratteriale, livello corporeo), non ci serviamo tanto dei sintomi per incasellarli in categorie prestabilite, ma, attraverso la storia emozionale, relazionale di quella persona, possiamo cogliere la domanda implicita, l’intelligenza e l’economia di quella sofferenza in qualche modo esplicitata. Co-costruire insieme alla persona un progetto terapeutico mirato, un percorso specifico, come lo è la nostra storia e il nostro essere (Ferri, 2017).

     Partendo da tali assunti di Analisi Reichiana Contemporanea, come si può mantenere tale approccio nei contesti come quelli sopra citati? Come poter lavorare adottando tale modello in setting in cui non è possibile intraprendere un’analisi individuale in senso stretto e in cui quotidianamente la morte e la sofferenza sono compagne?

     In questi quattro anni di Scuola di questo orientamento, ho interiorizzato come l’analisi Reichiana possa aprire ed essere aperta, non solo all’analisi individuale e agli acting categorizzati, ma anche al linguaggio del corpo, il comunicare con il corpo, il linguaggio tra i tratti, il sentire l'altro, le diverse modalità dello stare in relazione (la posizione del terapeuta). La maggioranza delle persone che risiedono in strutture palliative o di lungo degenza chiedono prossimità, vicinanza emotiva, riconoscimento, e aiuto nel riconoscersi anche nella sofferenza, anche nella morte.

     Marie de Hennezel, fondatrice di un centro di cure palliative per malati terminali in un grande ospedale parigino, evidenzia come il suo scopo in questi centri, come psicoanalista, sia alleviare il dolore e accompagnare il paziente terminale verso una buona morte (De Hennezel, 1996).

     Marie racconta di un episodio in cui si sentiva impotente come psicologa e senza strategie davanti ad un uomo sofferente e sul punto di morire. Con il senno di poi esplicita la sua gratitudine per quel vuoto con cui è entrata in contatto, poiché le ha permesso di esserci davvero con l’altro. Istintivamente racconta di essersi inginocchiata al letto di quel paziente e di aver posato una mano sulla metastasi che colpiva l’uomo, al petto, come diremmo noi, al 4° livello, sede dell’affettività e dell’Io e lì è rimasta. L’uomo poco dopo si è addormentato. E fece così per un mese, lasciandosi guidare da lui, spesso senza nemmeno dire una parola, preservando quel contatto che lui ricercava e che gli dava pace.

     Hennezel si interrogava se quello fosse un compito da psicologa, come me lo chiedo anch’io: se intendiamo un’analisi che accompagna nello scioglimento di nodi, di non compiuti, che accompagna la persona che sta per morire a sciogliere questi nodi, perché possa lasciare questa vita nella pace del suo compimento, credo possa essere un compito da psicologa. E lei, come me, si rispondeva che non stava rispondendo forse ad un bisogno in modo funzionale per lui, per la sua psiche? Non stava forse in quel giusto contatto da non fondersi o confondersi? È proprio su questo che si pone l’attenzione. Una relazione priva di angoscia, di pesantezza che, specialmente nella fragilità, talvolta attanaglia familiari e amici: l'attenzione a un giusto contatto.

     È importante trarre un’anamnesi analitico-caratteriologica abbastanza completa, al fine di cogliere, tenendo conto della patologia e delle fragilità corporee presenti, l’unicità della persona, partendo non dalla patologia, ma dal suo sé. Comprendere ciò aiuta a scegliere in quale posizione porsi, non nel percorso analitico in senso stretto, ma nella quotidianità di ciascuno; infatti la struttura sanitaria diventa per loro una casa.

orme tesi di spec 1Orme su spiaggia     Mi sono chiesta spesso come poter affrontare attraverso il nostro modello le realtà sanitarie residenziali e specificatamente come servirsi del corpo, come soggetto e oggetto sia di relazione sia di cura, in particolar modo con quelle persone le cui fragilità non consentono una comunicazione verbale e una cognitività integra.

     Sia per limiti organizzativi (non è possibile attuare un percorso psicoterapico individuale con tutti), sia per limitazioni cognitive e fisiche, diviene complesso porre in essere un’analisi. Seguendo il principio di realtà, si sottolinea l’importanza di procedere partendo da dove si trova la persona che incontriamo e porsi mete per lei possibili. 

     Secondo Marie de Hennezel (1996; 1998) le persone, nel momento del fine vita, si ritrovano nelle stesse condizioni in cui si trovano i neonati nei loro primi mesi di vita: inermi, incapaci di muoversi e di lavarsi da soli. Mentre i neonati ricevono cure amorevoli, gli ammalati ricevono cure esperte ma spesso meccaniche. Gli stessi parenti non sono preparati a prendersi cura di chi nella vita è stato sano e autonomo, si sentono a disagio e il malato si ritrova solo. La tenerezza che accompagna i neonati alla nascita dovrebbe accompagnare il malato terminale alla morte in egual misura.

     De Hennezel pratica l’aptonomia, un approccio psico-tattile ideato da un medico olandese, Franz Veldman (2007), verso la metà del secolo scorso. Il nome deriva dal greco hapto (toccare, prendere contatto, entrare in relazione) e nomos (regola) e significa scienza dell’affettività espressa attraverso il contatto.

     In origine questo metodo veniva usato da Veldman per favorire le relazioni, il rapporto tra genitori e figli alla nascita e nel periodo post-natale. Da circa venti anni questo approccio viene applicato anche nella fase finale della vita. Mi sono chiesta se il massaggio bioenergetico neonatale, praticato nel nostro modello di riferimento, possa essere strumento analitico anche per gli adulti. Credo che l’integrazione tra alcune tecniche come la stimolazione basale, le conoscenze dei vari livelli corporei, le conoscenze neuroscientifiche legate all’importanza del contatto epidermico, possano, un domani, porre le basi per una pratica strutturata. Ad esempio, con una persona avente una patologia neuro-degenerativa allo stadio terminale, nel momento in cui nemmeno i farmaci sembrano fare effetto ed è dubbia anche la consapevolezza, non potremmo dunque servirci dei canali sensoriali per entrare in contatto con lei? La stanza di degenza può divenire un luogo dal quale si può uscire pieni di angoscia, di senso di impotenza e di inutilità, con l’impressione di non riuscire a comprendere, di non riuscire a stare vicino, di non riuscire a fare nulla.

     Si può invece stare accanto, leggere ad esempio un libro che può evocare frammenti della sua storia o di ciò che lo ha appassionato per anni, prendere le mani di quella persona dal corpo molto rigido, con gli arti superiori contratti che premono sul petto ricurvo anch’esso, e leggere. La voce può divenire leggera melodia simil canto, che accompagna il tocco armonico delle mani. A poco a poco la contrattura muscolare si può fare più lieve, il respiro meno affannoso, gli occhi piano piano si chiudono, in pace.

     Si comprende che forse non serve capire, ma stare e sentire ciò che in quella stanza accade. Sia il contatto epidermico, prima delle mani e successivamente sul petto, attraverso la nostra lente, sono punti di contatto e di relazione con l’altro. Esperienze come quelle sopra riportate partono da un’idea di accompagnamento che non è solo accompagnamento negli ultimi istanti, ma come un accompagnamento alla Vita. Infatti per molti, sia ospiti, sia familiari, l’istituzionalizzazione porta già con sé i vissuti di minaccia della perdita, di lutto: in analisi Reichiana, connotiamo questo come un passaggio, che implica una separazione che approda ad altro.

Le due paure principali delle persone che stanno per morire sono legate al dolore fisico prima e durante e dell’abbandono/senso di solitudine. Aggiungerei anche il timore dell’ignoto, dello sconosciuto. Si evidenzia il pensiero in base al quale, se siamo stati capaci di nascere saremo anche capaci di morire e di affrontare i passaggi, che come ogni passaggio crea turbamento. È importante sentire che, come siamo stati accolti alla nascita, cosi potremmo anche sentirci accolti e supportati nel morire.

        La relazione, come uno dei principi attivi dell’Analisi Reichiana Contemporanea, anche in questi contesti è fondamentale. Una presenza che sa di Vita e che possa dare un senso al tempo vissuto nel presente, per avere meno rimpianto del passato e meno timore del futuro, nella certezza di aver vissuto quanto meglio possibile, pacificandosi con faccende irrisolte e trovando la pace.

     Lo storico francese Philippe Ariès, nel sul libro Storia della morte in Occidente (1998), ci aiuta a percorrere i cambiamenti degli atteggiamenti verso la morte nel corso dei secoli. Durante il Medioevo la morte rappresentava un fatto inerente alla vita e quindi normale, si viveva pubblicamente, era ritualizzato (diffusa era la letteratura in merito all’Ars morendi, piccoli manuali che preparavano le persone e i familiari al morire bene).

     Con gli anni si è assistito sempre di più ad una demonizzazione della morte, ad un occultamento di tale evento, che viene vissuto in modo sempre più privato e sempre più nascosto, come se nel morire vi fosse una sorta di colpa o responsabilità, un fallimento. La morte ci fa paura: in un mondo sempre maggiormente assoggettato all’apparire e alla giovinezza, la morte potrebbe giungere come uno schiaffo e riportarci alla consapevolezza della nostra caducità.  Ariès la denomina morte proibita, per segnalare il divieto di base, dato alla persona che sta morendo, ma anche alla società e ai familiari, di poter essere turbati o di esperire emozioni forti, quasi come fossero insostenibili.

     Secondo Saunders (2008), ciò che rende l’uomo uomo sono le relazioni e alla comparsa della malattia sono proprio queste che spesso ne risentono: per un fisico debilitato, per la necessità di numerosi ricoveri o di una residenzialità, per il timore della malattia. E nel turbinio di questi vissuti sono coinvolti sia la persona con malattia sia i familiari. Questo medico sottolinea l’importanza di porre in parole ciò che sta accadendo. Prendendo le mosse da tali riflessioni, credo sia importante porre lo sguardo, includere gli occhi sullo scenario che si pone in essere.

     Marie de Hennezel (1996), spiega come sia importante che i sentimenti e il dolore della persona che sta per morire vengano ascoltati e che egli possa esplicitarli. Spesso succede che il familiare non sia pronto ad accogliere tutto ciò. L’autrice racconta di un episodio in cui una donna che stava per morire era in uno stato di agitazione molto forte e la figlia non sapeva come fare per contenerla. Al che l’operatore si avvicina e la guarda negli occhi.

     La donna dichiarò di essere consapevole di stare per morire e l’operatore le disse che tutto il personale e la figlia erano lì per accompagnarla fino alla fine. L’operatrice ha convalidato l’esperienza soggettiva con l’esplicitazione di una presenza vitale. La risposta della donna fu emblematica poiché si raddrizzò nel letto e si calmò, riprendendo lucidità. La figlia si avvicinò e la madre ripeté che stava per morire. La figlia disconfermò quanto detto. Intervenne l’operatore che disse che la madre stava dicendo ciò che sentiva e che era importante ascoltarla e lasciare che potesse dire ciò di cui aveva bisogno. A quel punto la figlia pianse e la madre dettò le sue volontà, più lucida e padrona di sé stessa.

     Marie de Hennezel riferisce che una delle cose che fa soffrire di più le persone è non poter annunciare ai suoi cari che sta per morire. Sentendo venire la morte, chi non ne può parlare, né condividere con gli altri quello che gli ispira la prossimità di quel momento supremo, spesso non ha altra via d’uscita che la confusione mentale, il delirio, o addirittura il dolore, che almeno consente di parlare di qualcosa. Diviene fondamentale condividere con il familiare l’importanza della vicinanza, della relazione, dei gesti che può compiere con il proprio caro (tenersi per mano, bagnare le labbra screpolate, asciugare la fronte intrisa di sudore, pregare insieme). La gestualità dona al familiare la possibilità di essere in comunione con il proprio caro fino agli ultimi istanti di vita. Un gesto di accompagnamento, soprattutto nella stanza del morente, potrebbe consistere nel posare una mano dietro la schiena, all’altezza di una delle due scapole. Credo sia un punto di giusto contatto. La mano che si posa sulla scapola probabilmente carica di timori, paure, pesi, che funge sia da sostegno, ma anche come spinta: un richiamo sia alla muscolarità, ma anche una mano calda e accogliente che sostiene.

Percorsi con i familiari

      Quasi tutti i familiari condividono il sentire comune che il proprio caro sia anagraficamente o per patologia nell’ultima fase della vita biologica. Le fragilità maggiori sono legate all’accettazione della patologia, più che alla morte stessa. Ciò che crea maggiore dolore è la sofferenza psichica e fisica del congiunto. Due sono gli interventi possibili in tale ambito:

  1. Sostegno alla singola famiglia
  2. Gruppi dei familiari incentrati su:
  • spiegazione e conoscenza della patologia.
  • modalità di relazione.
  • modi di entrare in dialogo e in comunicazione con il proprio caro. È importante porre l’accento sull’importanza della gestualità del corpo: gesti di accompagnamento, sorrisi, mimica, il tocco, il tatto, la prossimità fisica.

     Gruppi di confronto, partecipazione, conforto, scambio emotivo per portare i familiari a sperimentarsi, imparare. Il gruppo, come sostiene Giorgio Nigosanti (2017), può dare la possibilità al familiare di non sentirsi solo nel proprio dolore per il proprio caro e crea un senso di comunione tra le famiglie coinvolte nella stessa problematica. Queste possono conoscersi, confrontarsi, creare legami, scaricare l’ansia, in un contesto protetto che possa contenere ed abbracciare tutto questo.

Percorsi con il personale

     Si sottolinea l’importanza di incontrare anche il personale, attraverso interventi di supporto e sostegno in itinere e possibilità di confronto più strutturate: incontri di discussione dei casi e incontri formativi incentrati sul benessere del personale stesso. Sia nella quotidianità, sia negli incontri dedicati al personale, gli obiettivi sono molteplici: cercare insieme le risposte alle domande implicite ed esplicite sia del personale stesso, sia dei residenti, cogliendo modalità di relazione con gli ospiti e tra i colleghi più funzionali; offrire al personale uno spazio in cui è possibile porre lo sguardo, raggiungere una consapevolezza maggiore di sé all’interno del contesto lavorativo. Un aspetto centrale nella presa in carico del personale riguarda l’aspetto del vivere quotidianamente esperienze di sofferenza e di morte: avere a che fare con esse tutti i giorni rientra tra le pratiche routiniane giornaliere, ma coinvolgono sia sul piano emotivo sia sul piano relazionale.

     Diviene fondamentale far permeare all’interno di questi luoghi il valore e l’unicità della persona. Più il personale è capace di affermare il valore del paziente, di vedere la persona che è o che è stata, nella sua unicità, piuttosto che la sola malattia, tanto più è probabile che il senso di dignità del paziente sia sostenuto e conservato. Non essere trattati con dignità e rispetto può minare il senso del sé e del valore della vita, esponendo il paziente al rischio di sentirsi un peso per gli altri, di perdere la speranza e di mettere in forse le ragioni del continuare ad esistere.

     Si pone l’accento sul come più che sul che cosa: infatti molte delle parole potrebbero essere equivocate, mal interpretate, ma l’incontro con il corpo non inganna e restituisce alla persona quella bellezza del gesto quotidiano e della bellezza di essere persona in quanto tale, al di là dei dolori che sperimenta. È quindi importante sensibilizzare i professionisti della salute a una dimensione della cura che comprenda un approccio corporeo nelle sue diverse manifestazioni: tattile, visivo, vocale, empatico. Si cura un piede, una gamba, un polmone, un seno, come un qualcosa di distinto, o si cura forse la persona che soffre in questo o quel punto del corpo ed esprime tale sofferenza con il suo modo personale di essere? L’approccio corporeo permette agli ospiti di sentirsi integri e pienamente vivi.

     Accanto al rispetto e alla tutela della dignità dell’ospite, è importante che il personale preservi rispetto e tutela della propria salute e benessere. In uno dei suoi scritti Marie de Hennezel (1998) sottolinea l’importanza di contattare la consapevolezza del nostro pensiero rispetto alla morte, che è ontologico e dentro ciascuno di noi. Contattare tale consapevolezza e il possibile timore può aiutare il personale nella relazione con la persona sofferente, per esserci senza farsi sopraffare.

Bibliografia

Ariès, P. (1998), Storia della morte in Occidente. Milano: Bur.

De Hennezel, M. (1996), La morte amica. Le lezioni di vita di chi sta per morire. Milano: Rizzoli.

De Hennezel, M., Leloup, J.Y. (1998), Il passaggio luminoso. L’arte del bel morire. Milano: Rizzoli.

Ferri, G. (2017), Il corpo sa. Storie di psicoterapie in supervisione. Roma: Alpes Italia

Nigosanti, G.A. (2017), Analisi corporea in gruppo. L’approccio reichiano. Roma: Alpes Italia.

Saunders, C. (2008), Vegliate con me. Hospice: un’ispirazione per la cura della vita. Bologna: EDB.

Veldman, F. (2007), Haptonomie, Science de l'Affectivité: Redécouvrir l'humain. Parigi: PUF.

[*] Psicologa psicoterapeura reichiana.  Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Sottocategorie